Cosa deve pensare, un cattolico, del partito di Gianfranco Fini, il Fli? Una prima impressione è chiara: i vari Bocchino, Granata, Urso, Della Vedova, cioè le personalità più autorevoli del partito, sono schierati su posizioni radicali, incompatibili con quelle cattoliche, in ogni campo dell’etica. Sbaglia però chi parla di “tradimento” dei valori della destra: tutti, infatti, a parte Della Vedova, provengono dal vecchio MSI, e rivendicano, giustamente, una coerenza.
Esiste da sempre, infatti, nella destra missina, una avversione violenta a tutto ciò che sa di cristianesimo. E’ stato Francesco Cossiga a ricordare che Fini “è un uomo impegnato a riscoprire il pensiero antiborghese e anticattolico del suo maestro Giorgio Almirante”, colui che emarginò la destra cattolica di Michelini. Attribuire un pensiero a Fini, più mobile che piuma al vento, è un po’ azzardato, ma sicuramente il concetto di Cossiga vale per gli altri leader del Fli.
Recentemente uno di questi, Filippo Rossi, commentando la frase di Cossiga, ne sosteneva l’esattezza, stilando “un possibile pantheon della destra culturale italiana”, costituito da Marinetti, D’Annunzio, Prezzolini, Gentile, Evola ed altri, non esattamente “provetti clericali o baciapile”.
A questi personaggi si può aggiungere Alain de Benoist, il cui nome compare spesso sulle pagine del “Secolo d’Italia”, in quanto molto amato, tra gli altri, da Fabio Granata, sostenitore, a detta di quel quotidiano, della conciliabilità tra chiese e mosche, Eraclito e Cristo, modernità ed antica Roma. Alain de Benoist, fondatore della “Nuova destra” francese, è un pensatore che unisce suggestioni nietzscheane, socialiste, ecologiste, antimoderne e pagane (vedi il suo “Come si può essere pagani?”). In perfetta coerenza con una visione che trova spesso spazio su “Il Secolo” di Lanna.
Recentemente, per esempio, l’8 aprile 2011, sul quotidiano finiano comparivano due pagine elogiative del “fascismo immenso e rosso” di Drieu la Rochelle, e, di seguito, una lunga recensione ad un nuovo libro di Renato Del Ponte, “uno dei più seri interpreti e studiosi di Julius Evola”.
In esso si elogiava il “messaggio di grande tolleranza e di libertà che ci giunge da un passato apparentemente lontano”, quello della Roma pagana, messa in contrapposizione col pensiero cristiano e quello scientifico.
Una visione, quella di Del Ponte, che richiama appunto a quell’ideologo neopagano, così apprezzato da Rossi e dal gruppo finiano, che fu Julius Evola. Chi era costui? Giulio Cesare Andrea (Julius) Evola nasce a Roma nel 1898 e dimostra presto le sue simpatie per dadaismo e futurismo, droghe e dottrine buddiste, per poi collaborare, tra alti e bassi, con importanti gerarchi fascisti come Farinacci e con l’ideologo nazista Himmler. Evola si fa portavoce, in questi anni, di un razzismo non biologico, che prevede però di dire “no ai negri, a tutto ciò che è negro e alle contaminazioni negre”.
Soprattutto si rivela un feroce avversario di Cristo, considerato il diffusore di una dottrina che ha causato la disgregazione della “razza dello spirito” a favore della “razza del corpo”. I popoli germanici, scrive Evola, sono gli ultimi custodi dell’antica idealità romana, dimostrandosi fieramente e giustamente impermeabili all’universalismo cristiano e fedeli agli dei guerrieri della loro tradizione pagana.
Nel suo “Imperialismo pagano” (1928), Evola invita il fascismo a tagliare ogni rapporto col mondo cattolico, e, sulla scia di Nietzsche, descrive il cristianesimo come “sporca nebbia esalata dalla terra”, “l’allucinazione di un altro mondo…il bisogno di evasione dei falliti, dei reietti, dei maledetti, di coloro che sono impotenti ad assumere e volere la realtà loro”. Cristo invece viene presentato come un liberatore di schiavi, “un demagogo semi-iniziato e rivoluzionario, finito sulla croce”, la cui dottrina sarebbe apprezzabile solo da un “tipo umano inferiore”.
Alla fede in Cristo Evola contrappone “la fredda, positiva, dura scienza e potenza dell’iniziazione, della magia, della realizzazione pagana”.
Accanto ad Evola, la destra finiana indica altri maestri. In primis i fiumani, giustamente visti come antesignani del 1968, precursori del fascismo, ma anche apertissimi alle posizioni bolsceviche. Soprattutto, “libertini”: Fiume, scrive sempre il Rossi, è “una festa”, un “baccanale redivivo”, in cui “tutti fanno l’amore con tutti”. “Libertà sessuale, omosessualità, uso di droga, nudismo, beffe..”: questa la cifra della ribellione anarchica degli uomini guidati da D’Annunzio, ricorda Claudia Salaris, in un libro, “Alla festa della rivoluzione”, a cui i finiani rimandano volentieri. Anche perché illustra i rapporti tra fiumani e futuristi. Marinetti, scrive la Salaris, “auspica sin dagli esordi la sostituzione dell’ “ossessione della donna unica” con “rapporti molteplici, rapidi e disinvolti”; predica lo “svaticanamento d’Italia”, la violenza, il divorzio, l’abolizione della famiglia e dell’eredità, e vuole “liberare l’Italia dalle chiese, dai preti…dai ceri e dalle campane”.
Insomma, come ha ben capito Della Vedova, capogruppo Fli alla Camera, da qui a Marco Pannella il passo è molto breve. Il Foglio, 14/4/2011