Avvertenza prima dell’uso: le righe che seguono non sono destinate ai troppo freddi, ma ai tiepidi. Quanti infatti sostengono la bontà dell’eutanasia avranno qualche difficoltà a reperire qualcosa che si possa dire maggiormente inconciliabile con le loro posizioni. Oso sperare che queste righe possano aiutare a riflettere anche qualche sincero difensore della vita fragile ed indifesa, che forse vive con sconcerto l’attuale divaricazione delle posizioni pro-life anche all’interno del cattolicesimo non adulto.
Di questa opportunità non posso che ringraziare i responsabili del sito “Libertà e Persona” per avermi concesso la loro ospitalità. Qui non affronterò il tema delle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT) nel suo insieme, impresa che richiederebbe un ambito espositivo completamente diverso, ma vorrei concentrarmi sull’attualità, su quella che è la materia del contendere, il disegno di legge (ddl) in discussione alla Camera dei Deputati, conosciuto come ddl Calabrò-Di Virgilio, dal nome dei parlamentari che ne sono stati relatori nei due rami del parlamento.
Mi scuso anticipatamente perché non potrò essere succinto, come dice Nicolás Gómez Dávila, “quello che non è complicato è falso” (1) e qui si tratta di porsi alla ricerca della verità. È possibile anche che le mie parole possano dispiacere a più di un amico, ma confido nella capacità dei veri amici di comprendere che qui non si tratta affatto di questioni personali, è stato infatti detto: “amicus Plato, sed magis amica veritas”.
A tal fine il contributo migliore che possa offrire è quello di procedere cercando di sottrarmi alla tentazione del “botta e risposta” e dal coinvolgimento emotivo che necessariamente ne seguirebbe, ma avanzare piuttosto tenendo in considerazione la cronologia dei fatti, in modo da comprenderne meglio il senso.
Note anamnestiche
Nonostante una non chiusura pregiudiziale nei confronti di dichiarazioni che raccogliessero i desiderata delle persone riguardo la futura condotta clinica in caso di sopraggiunta incapacità di comunicare (2), il concretizzarsi all’orizzonte della prospettiva eutanasica, aveva progressivamente reso i pro-life uniti nell’opporsi alle DAT.
Un articolo del 6 Dicembre 2006 su Avvenire, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), già nel titolo esprimeva la diffidenza del mondo cattolico riguardo a tali dichiarazioni (3). Sullo stesso giornale un anno dopo si raccolgono le dichiarazione critiche nei confronti del testamento biologico della dottoressa Silvie Menard, oncologa, collaboratrice del prof. Veronesi, ammalatasi di cancro (4).
Si tratta di indizi inequivocabili delle posizioni pro-life: il testamento biologico sarebbe stata la breccia per consentire la progressiva penetrazione nell’ordinamento dell’eutanasia.
Il caso di Eluana Englaro: lo spartiacque
Il 9 luglio 2008 la I sezione della corte d’appello di Milano autorizza a disporre l'interruzione del trattamento di sostegno vitale di Eluana Englaro, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico.
Nell’ambiente pro-life il provvedimento costituisce un vero e proprio shock che cancella una seppur provvisoria e parziale fiducia riposta nelle numerose sentenze contrarie all’istanza di interruzione dei sostegni vitali per la povera ragazza. Nel caso Englaro c’è un elemento oggettivo che non può essere trascurato da quanti si oppongono a qualsiasi legislazione in materia: l’accoglimento da parte di un tribunale di volontà espresse in forma orale, ricostruite a posteriori da una sola delle parti.
Si potrebbe dire che nel caso Englaro i giudici hanno messo in atto un dispositivo fondato su testimonianze che riferiscono neppure un testamento biologico orale, ma elementi narrativi da cui è stata desunta una specifica volontà, cioè quanto di più ampio si possa concepire. Risulta interessante notare una delle prime reazioni che argomenta contro la decisione della corte di Milano non tanto appoggiandosi al concetto di indisponibilità della vita umana, esito che, sebbene giudicato “sgradevole e conturbante”, viene comunque ritenuto “ineludibile”.
Fatto salvo “l’assoluto rispetto per la volontà dei malati” (ma si dimentica che le DAT si possono redigere anche da sani?), sono due diverse contestazioni quelle che vengono in quell’articolo rivolte alla decisione dei giudici milanesi: la nutrizione e idratazione non sarebbero una cura medica e l’assenza di una prova certa della volontà di Eluana (5). In un articolo dello stesso autore di qualche giorno dopo si comincia a delineare la strategia di riduzione del danno: no alle direttive, sì a dichiarazioni non vincolanti per il medico (6).
Quel pensiero traccia con quell’asserto la prima, decisiva linea di frattura all’interno del mondo pro-life. Ancora in quei giorni è ben diversa la prospettiva con cui altri esponenti di spicco del mondo pro-life affrontano la questione. Il prof. Pessina, Direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica, esprimeva interamente la propria preoccupazione circa la capacità di arginare le istanze eutanasiche, una volta messa in moto la macchina di riconoscimento giuridico delle DAT (7).
Quanto all’interno del mondo cattolico la posizione del prof. Pessina trovasse largo sostegno emerge chiaramente dall’opposizione di Scienza & Vita al testamento biologico mediante un comunicato ufficiale ripreso dal quotidiano Avvenire (8) e dalle parole inequivocabili del co-presidente di allora della stessa Scienza & Vita, la professoressa Maria Luisa Di Pietro, che, pur dichiarandosi pronta a discutere una legge sulle problematiche del fine-vita, definiva esplicitamente il testamento biologico “non solo pericoloso, ma anche inutile” e ribadiva chiaramente la linea non negoziabile: “Il principio di indisponibilità della vita umana” (9).
Il 22 Settembre 2008 si apre la consueta riunione del consiglio permanente della CEI con la prolusione del suo presidente. Quell’intervento ci pare segni un altro momento centrale per comprendere alcune dinamiche: “Si è imposta così una riflessione nuova da parte del Parlamento nazionale, sollecitato a varare, si spera col concorso più ampio, una legge sul fine vita che – questa l’attesa − riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito – fuori da gabbie burocratiche − di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza. Dichiarazioni che, in tale logica, non avranno la necessità di specificare alcunché sul piano dell’alimentazione e dell’idratazione, universalmente riconosciuti ormai come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie. Una salvaguardia indispensabile, questa, se non si vuole aprire il varco a esiti agghiaccianti anche per altri gruppi di malati non in grado di esprimere deliberatamente ciò che vogliono per se stessi” (10).
Si deve ricordare che in quello stesso intervento, in continuità col discorso di S.S. Benedetto XVI del 17 Luglio 2008 ai giovani a Sidney, non si manca di ricordare il fine che dovrebbe muovere “ogni coscienza illuminata”: il favor vitae che ispira l’ordinamento italiano e la conseguente necessità di evitare “forme mascherate di eutanasia” sulla base del principio centrale della inviolabilità ed indisponibilità della vita umana. Se niente quindi si può eccepire riguardo al finis operantis, molto più perplessi lascia la strada indicata in quelle poche righe per realizzare quel giusto fine.
Non stupiscono certi consensi per quella road-map che alimentano umanamente comprensibili impulsi a volare alto ed attingere persino a Kierkegaard per manifestare l’entusiasmo (11). Tutto l’impegno successivo di una parte rilevante del fronte cattolico italiano (12) a sostegno del progetto di legge, ci pare abbia ricevuto dall’intervento del presidente della CEI un indubbio forte impulso.
Eppure, con argomenti davvero ben strutturati pochi mesi dopo il prof. Pessina ripeteva che la questione centrale non solo per i cattolici, ma per tutti quanti si riconoscono nelle radici solidaristiche alla base della costituzione italiana, è il principio di indisponibilità della vita umana (13).
Il principio di realtà
Giunti a questo punto è possibile tracciare un primo bilancio provvisorio. Interventi di importanti rappresentanti della Chiesa Cattolica Italiana esigono risposte rispettose nella forma e nel contenuto.
Ciò non toglie che i singoli passaggi non possano reclamare un assenso dettato dalla fede, essendo ben distinte da essi le fonti cui attingere per apprendere l’insegnamento del Magistero. Sostenere la necessità di una legge sul fine-vita ritengo proceda da un elemento innegabile: il caso Eluana, con il suo drammatico epilogo, ha mostrato che né il codice penale, né il codice deontologico medico costituiscono una sicura barriera che impedisca i comportamenti eutanasici.
Benché il caso Englaro costituisca un singolo episodio giurisprudenziale e come tale siano possibili decisioni difformi in casi simili, nonostante siano state poste argomentazioni giuridiche (a mio giudizio eccessivamente ottimistiche) per sostenere che non si deve essere precipitosi nel legiferare, che si può ancora confidare nel fatto che in Italia l’eutanasia continui ad essere illegale (14), il clima culturale vigente nella società e nelle aule di tribunale, il convergente sostegno alla decisione della corte di appello di Milano giunto dai successivi livelli di giudizio, l’individuazione nella figura dell’amministratore di sostegno di un soggetto autorizzato ad impedire o sospendere i sostegni vitali delle persone da loro delegate (15), sono tutte circostanze che dovrebbero fare considerare un intervento legislativo volto non ad “arginare”, ma ad impedire le condotte eutanasiche come un agire improntato ad un uso prudenziale del principio di precauzione (16).
Se però la libera interpretazione delle leggi da parte di una componente significativa della magistratura è la causa che ha portato a questa situazione, non si comprende perché proprio coloro che a gran voce difendono il ddl sulle DAT e con giusta veemenza criticano a posteriori le sentenze “creative”, diventano improvvisamente così timidi, muti e inerti nel farsi promotori di interventi volti a ricondurre la magistratura nell’alveo che gli compete ed individuare strumenti sanzionatori dei comportamenti abusivi di certi magistrati.
Perché i sostenitori pro-life del ddl Calabrò non si uniscono all’esortazione a muovere iniziative in tal senso proveniente dalle colonne del quotidiano Il Foglio? (17) Il saggio Chesterton consigliava di non urlare dopo, ma prima che la mannaia colpisca. Quali iniziative hanno messo in piedi i sostenitori dell’attuale disegno di legge per evitare che il loro progetto legislativo, una volta approvato non sia preda del tritacarne giurisprudenziale che ha già polverizzato la legge sulla fecondazione artificiale? Confidano che per magia dichiarazioni oniriche sulla legge 40 si estendano all’approvanda legge sul fine-vita per il solo fatto di formularle? (18)
Consola che simile preoccupata disillusione riguardo al destino di tale futura legge sia espressa da don Michele Aramini, bioeticista e docente di teologia morale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, particolarmente esperto di tali questioni (19)
Sì alla legge, ma non questa legge
1. Come ammoniva un'altra brillante mente, quella di Clive Staples Lewis, non basta fare il bene, occorre anche fare bene. Non dubito che questo ddl intenda fare il bene, ma giudico non lo faccia affatto bene. Già una prima preoccupazione nasce dal leggere nell’elenco dei promotori della legge, i nomi di tanti protagonisti politici che non fanno mistero di puntare alla distruzione del principio di indisponibilità della vita umana.
È vero che nel testo (che qualcuno ha ardito sostenere essere ossequioso del Magistero della Chiesa) all’articolo 1 si afferma il divieto di eutanasia, ma diversamente da quanto fanno i testi magisteriali (20), ci si dimentica di fornire una definizione esatta di eutanasia. Come osserva John Keown, giurista emerito alla facoltà di legge dell’Università di Cambridge, “Molta della confusione alla base del dibattito contemporaneo sull’eutanasia può essere ascritta ad una sfortunata imprecisione nella definizione” (21).
Questa importante omissione nel testo del disegno di legge è rilevata anche dal Cardinale Sgreccia (22). Allo stesso modo si deve fare notare che non attribuire una definizione legale anche ad altri termini, tra cui “accanimento terapeutico”, “trattamenti straordinari”, “trattamenti non proporzionati”, offre il fianco ad un florilegio di interpretazioni da parte dei giudici.
È un po’ strano che questo aspetto sembri essere sfuggito ad alcuni preclari esperti di biodiritto nel loro appello formulato dalle colonne di Avvenire in cui si raccomandava che questa legge “va fatta e va fatta adesso”. Si pone nel testo grande attenzione alla nutrizione ed idratazione assistita (NIA), per evitare che attraverso la sua sospensione la persona sia condotta a morte, ma è forse diverso se si muore perché si è scritto che non si vuole essere sottoposti a ventilazione, dialisi, defibrillazione, interventi chirurgici o farmacologici? (23) L’originaria espressione utilizzata, dichiarazioni inequivocabili, costituisce un ossimoro; per loro stessa natura le DAT sono equivocabili.
Ci tocca in sorte di avere dedicato studi alquanto approfonditi e conoscere piuttosto bene la letteratura medico-scientifica sull’argomento per non sentirci obbligati a farlo rispettosamente presente (24). Ma al di là delle pur importanti riserve su singoli punti del disegno di legge, è l’impianto complessivo che va nella direzione sbagliata e questo avviene perché il testo rinuncia ad affermare l’unica cosa veramente in grado di mettere al riparo dalla ripetizione del modello Englaro: il primato conferito al principio di beneficialità/non maleficienza nelle decisioni mediche dei pazienti non più competenti, una preminenza da concretizzare obbligando i medici a conformare la propria condotta a criteri di appropriatezza clinica al singolo caso.
Nel testo manca l’affermazione che taglia la testa al toro: il principio di autonomia del paziente viene meno nel momento in cui questi non è più capace di intendere e di volere. Non è possibile sapere quale trattamento vorrebbe davvero il paziente se fosse capace di decidere in quel momento, le DAT sono strumenti altamente inaffidabili (25), allora in dubio pro vita, perché meglio curare un po’ più del desiderato che un po’ meno.
Un solo articolo, nessun appiglio per contestazioni riguardo a specifiche fattispecie, nessuna differenza fra idratazione, nutrizione, ventilazione e tutti i possibili trattamenti salva-vita, nessun obbligo di metterli in atto o di continuarli se cessano di essere clinicamente adeguati alla situazione clinica. La pura, semplice, antica riaffermazione del principio medico sfigurato dalla giustizia creativa: primum non nocere.
Com’è stato sostenuto dal prof. Paul Ramsey “Per sapere quale trattamento è moralmente indicato si deve solo stabilire quale trattamento sia clinicamente indicato” (26).
Una legge che dia forza giuridica alle DAT non può che fondarsi su una fictio iuris, trasferendo i criteri per risolvere la problematica etica della legittima astensione o interruzione delle cure da parte dei soggetti consapevoli (27) ai soggetti non più capaci di decidere per se stessi.
Perché si dovrebbe scrivere, mentre si è perfettamente sani, che in caso di coma protratto non si vorrebbe ricevere un determinato trattamento, se non perché si reputa che in determinate condizioni la vita non sia più meritevole di essere vissuta? Perché si dovrebbe acconsentire che nel nostro ordinamento passi tale principio attraverso la surrettizia modalità delle interruzione delle cure? (28) Che cosa impedirebbe ad un tale desiderio di trovare accoglienza qualora le cure fossero affidate ad un medico favorevole all’eutanasia? Forse si opporrebbe una legge come questa in cui che cosa si intenda per eutanasia è affidato de facto all’interpretazione del singolo giudice?
O piuttosto si confida negli interpreti della deontologia che però non hanno avuto alcunché da eccepire ai protagonisti medici dei noti casi, non rinvenendo nella loro condotta alcuna violazione del codice medico che all’articolo 17 vieta l’eutanasia (ci pare che ciò sia stato reso possibile perché l’eutanasia è stata intesa nella sola dimensione commissiva e l’azione dell’interrompere i supporti vitali è stata considerata invece un’omissione)?
Non hanno perso di attualità le parole scritte quindici anni fa dal prof. Antonio Spagnolo, oggi ordinario di bioetica all’Università Cattolica di Roma: “Occorre, pertanto, ripensare al problema in sé del testamento di vita cercando modalità alternative alle dichiarazioni anticipate di volontà, che salvaguardino la dignità del morire che e' anche la dignità della persona come bene individuale e sociale. […] dovrebbe essere il medico, al limite, e non il paziente, ad essere incoraggiato a sottoscrivere una dichiarazione che lo impegni a non somministrare consapevolmente, in alcun modo, trattamenti futili o che prolunghino la sofferenza dei pazienti senza alcuna reale speranza di ripresa” (29)
Invece di andare in rotta di collisione con quanto deciso dalla magistratura creativa (30), forse per un’inconsapevole od inconfessata aspirazione alla conciliazione, con l’attuale ddl sulle DAT si è scelta maldestramente la strada di seguire il sentiero predisposto dai battitori radicali per spingere la preda là dove essi stessi vogliono: il riconoscimento delle volontà anticipate con i paletti. Questo è tutto quanto serve loro, il resto del lavoro lo faranno gli avvocati. Non avrei mai potuto esprimere meglio questo concetto di quanto ha fatto il prof. Pessina, inopinatamente da un giornale diverso da Avvenire: “A mio avviso soltanto indebolendo il valore giuridico delle dichiarazioni anticipate e rafforzando i criteri che permettano di riconoscere e vietare i casi di suicidio assistito e di eutanasia si potrebbe evitare ogni futuro abuso interpretativo delle dichiarazioni stesse, che pure moralmente hanno un loro specifico valore” (31).
Sogni d’oro
Quando leggo interventi a sostegno della legge rassicurati dall’opposizione ad essa dei “paladini dell’assolutezza dell’autodeterminazione” (32), rimango turbato; il pensiero va infatti alle lode di Gesù per l’uso della scaltrezza ed al suo ammonimento ad usarne nelle cose di Dio: “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (33); si assume infatti come autentica la contrarietà al ddl sulle DAT, senza includere nel novero delle possibilità un’opposizione tattica per favorire la promulgazione di una legge che consenta ai giudici di sollevare questioni di costituzionalità in punti strategici.
Un minuto dopo che la legge dovesse essere approvata sono convinto che dall’accampamento della “buona morte” si leverebbero brindisi, essendo già pronti i piani per il successivo smantellamento di tutti i limiti a partire da quelli della non vincolatività e della esclusione della NIA.
Sono considerazioni già pubblicamente e chiaramente esposte dall’on.le Alfredo Mantovano: “Non sono certo che quella parte di magistratura ostile alla vita non trovi anche nel testo del Senato margini per riprodurre sentenze di morte […] C’è una sola ragione per la quale vale la pena che un Parlamento attento alla tutela del diritto alla vita vari delle norme sul “testamento biologico”: quella di riaffermare che l’esistenza di ogni uomo è intangibile, qualunque sia la sua età, le sue condizioni, il suo stato; e che è intangibile anche quando volessero permetterlo i giudici” (34).
Parafrasando Samuel Johnson, affermare che l’impiego nella legge del termine “direttive anticipate” al posto di “testamento” dovrebbe garantire la volontà del legislatore e la conseguente tenuta della legge davanti ai giudici, è l’indubbio trionfo della speranza sull’esperienza (35)
Non era forse chiaro ai giudici della corte costituzionale la volontà del legislatore, laddove all’articolo 1 della legge 40 si affermava la volontà di compenetrare i diritti dei soggetti coinvolti, compresi quelli del concepito? Allora perché oggi si è ripreso a congelare gli stessi concepiti decidendo deliberatamente di abbassarne ulteriormente le già ridotte probabilità di sopravvivenza?
Non è forse scritto nella legge 194 che per accedere all’aborto vi deve essere un “serio rischio per la salute della donna”? Com’è successo allora che i giudici abbiano interpretato la clausola in modo così esteso da accettare che una gravidanza ogni 4 o 5 configuri un tale rischio? non è dunque vero che quella stessa ipocrita legge ha nel titolo la “tutela della maternità”, una maternità così tutelata da avere condotto a 5 milioni di aborti legali?
E tutto questo confidare nella coscienza del medico è davvero ben riposto? “Houston, abbiamo un problema”: duole dirlo, ma la coscienza di molti medici non è immune dalla cultura della morte; 5 milioni di aborti sul fronte dell’inizio vita non consentono di dormire sonni tranquilli sul fine-vita. Stupisce che le criticità del ddl qui solamente accennate sembrino non preoccupare, tanto da far considerare gli opportuni emendamenti migliorativi dei semplici “dettagli che non toccano il cuore della proposta Calabrò-Di Virgilio” (36).
Not in my name
In un editoriale sul giornale Avvenire si afferma: “Una legge `buona e giusta` quella sulle Dat? Si è lavorato al Senato e si sta lavorando alla Camera perché sia così. Ricordiamoci, però, che ogni legge è sottoposta al vaglio delle maggioranze – a volte trasversali, come in questo caso, e comunque transitorie in un regime di alternanza politica. E per tutte le maggioranze, presenti e future, dovrebbe valere il criterio di garantire, a ogni singola legge, una volta approvata, un periodo di rodaggio. È civile e necessario, insomma, che a queste disposizioni non venga riservato il trattamento ostile e la propaganda deformante già riservati, ad esempio, alla legge 40 sulla fecondazione artificiale, altra normativa `non cattolica` ma accettata dai credenti per chiudere l’era di `provetta selvaggia`. Abbiamo già visto una parte dell’opinione pubblica, più ideologizzata e meno disponibile ad accettare il voto (trasversale, torniamo a ricordarlo) di un libero Parlamento, allearsi con una frazione della magistratura per tentare di demolire o, comunque, manomettere la legge sin dal giorno seguente la sua entrata in vigore” (37).
Si tratta di un passaggio di non univoca lettura. Non so se interpreto bene il pensiero dell’autore, a cui peraltro mi sento legato da vincoli di amicizia e stima personale, ma esso sembrerebbe condividere le preoccupazioni di cui, ultimo rispetto ad altri più profondi e qualificati di me, ho cercato di farmi portavoce.
Si potrebbe anche cogliervi una supplica rivolta al fronte eutanasico perché pietosamente conceda un minimo di tregua (rodaggio) prima d’iniziare l’attacco alla legge; si potrebbe infine cogliere una criptica giustificazione delle tante deviazioni di questo disegno di legge rispetto ai principi cattolici nella necessità di elaborare un testo quanto più largamente condiviso proprio per evitare la sorte che è toccata alla legge 40. Qualora questa motivazione fosse reale (spero vivamente che non lo sia), mi sentirei obbligato a rispondere che se è vero che talora si può tollerare un male per evitare un male peggiore, è altrettanto vero che in nessun caso si può fare il male, anche se facendolo si ha l’intenzione di fare del bene (38).
Non si può chiedere di difendere una cattiva legge, sperando che sia sufficientemente cattiva da non indurre ad un suo ulteriore peggioramento allorquando dovesse cambiare la maggioranza politica. Chi si è ostinato a rimanere sordo a tutti i buoni e saggi consigli che sono giunti da molteplici voci dell’accampamento pro-life, talora sottovoce, talora urlati, sperando almeno così di ottenere un po’ più di attenzione, ma sempre con grande amore per la difesa della vita umana, dovrà farsi carico di portare sino in fondo la paternità delle decisioni.
Renzo Puccetti, Scienza & Vita Pisa e Livorno
Angelo Card. Bagnasco, Presidente Cei. Prolusione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana. 22-9-2008.
Perkins H. Controlling death: the false promise of advance directives. Ann Intern Med. 2007; 147(1): 51-7.
A. Gambino «Questa legge s’ha da fare». Avvenire del 4-3-2011. p. 1.
Lo stesso pensiero è stato sorprendentemente ripreso da un uomo di grande esperienza nelle questioni biopolitiche: “Tutta la cultura radicale, abortista, sostenitrice di una idea corrotta di libertà e del diritto alla morte, favorevole all’eutanasia, preme affinché non si approvi la legge che ha raggiunto la soglia del voto finale alla Camera. Non è già questo fatto un’indicazione di quale deve essere la nostra scelta? È evidente che la legge disturba i progetti eutanasici”. C. Casini. «La legge di fine vita». Zenit del 3-4-2011.