Mimose per un'invenzione
Di Carlo Curcio (del 08/03/2011 @ 12:48:45, in Storia del Novecento, linkato 7863 volte)

Ed eccoci ad un ennesimo otto marzo. Sono passati tanti anni dalla sua prima edizione e dall’evento che portò alla sua istituzione. Un evento che, è ormai acclarato, appartiene più all’ambito della mitologia comunista che a quello della storia. Una menzogna, per dirla in termini schietti. Anche questa, l’ennesima. Studi neanche tanto recenti ci dicono che la leggendaria femminista Clara Zetkin non potè chiedere, durante il Congresso socialista di Copenaghen del 1910, la proclamazione della “giornata internazionale della donna” in onore e ricordo delle 129 lavoratrici uccise, nel 1908, dal proprio datore di lavoro newyorkese in quanto asserragliate in sciopero nella sua fabbrica. Non potè, perché il fatto non avvenne.
Incredibile ma vero, a spulciare gli archivi di quell’anno non c’è traccia. Una svista, disse qualche anno più tardi un giornalista del Corriere della Sera, quasi a giustificare e a difendere la bontà di un’iniziativa che pareva esser messa in discussione dai suoi stessi incerti natali. Una svista che diventa tanto più incredibile quanto si tiene conto in primo luogo che negli Stati Uniti nel 1908 esisteva già una” giornata della donna” organizzata dai movimenti socialisti femminili e in secondo luogo che a New York un incendio impressionante ci fu, ma nel 1911. Cioè un anno dopo il proclama cosiddetto ufficiale. In quell’anno infatti andò in fiamme la camiceria Triangle Shirtwaist Factory di New York. La cause non furono mai accertate e i proprietari, sebbene incriminati, vennero assolti. Ciò che è certo è che le 500 operaie e il centinaio di uomini che lì si guadagnavano il pane non stavano né occupando la fabbrica né scioperando contro il loro padrone, nonostante le reali proibitive condizioni di lavoro. Cade cosi l’impalcatura della ritorsione dell’avido capitalista come origine del rogo. Un fuoco assassino che, è bene sottolinearlo, non fece preferenze di sesso e uccise sia femmine che maschi.

Qual è la verità, allora? Leggendo il saggio di Tilde Capomazza e Marisa Ombra, edito una prima volta nel 1987 e ripubblicato nel 2009, si scopre che tutto nasce durante la “Seconda Conferenza delle donne” tenuta a Mosca immediatamente dopo il terzo congresso dell’“Internazionale comunista” del 1921, il famigerato Comintern, organismo che doveva favorire la formazione e il coordinamento dei partiti comunisti di tutto il mondo. In quell’occasione fu approvata, con il placet di Lenin si suppone, l’istituzione di una giornata inizialmente definita “dell’operaia” in quanto si ispirava alla rivolta del 1917 con la quale le donne di Pietrogrado (la San Pietroburgo di un tempo, voluta da Pietro I Romanov detto il Grande) avevano protestato contro lo zarismo, nel pieno della rivoluzione bolscevica. Una rivolta accaduta il 23 febbraio e che nel calendario giuliano, in uso in Russia, corrisponde appunto all’8 marzo.

Se questa è la verità, qual è allora l’origine della versione più conosciuta? Questa volta il premio per la migliore sceneggiatura va a noi italiani: è infatti una sezione bolognese del Partito Comunista Italiano che nel 1952 pubblica per la prima volta la vulgata del massacro frutto dell’odio maschil-capitalista; vulgata che prima verrà ripresa e ripubblicata dal settore femminile della Cgil (Unione Donne Italiane, di cui fa parte la Ombra, co-autrice dello studio citato) in occasione della festa di quello stesso anno, e poi, due anni dopo, riveduta, ampliata e perfezionata con addirittura un fotomontaggio dal settimanale sempre Cgil “Il lavoro”. Una menzogna insomma che ha avuto per molti versi una forza aggregante. In piena Guerra fredda, infatti, con una fava si prendevano due piccioni: si poteva colpire l’americanismo e il capitalismo. E piano piano si introduceva il tema dell’emancipazione delle donne dal predominio sociale ed economico del maschio, fino ad attaccare, oggi sappiamo con quale pervicacia, l’istituto familiare, luogo presunto dell’oppressione dell’uomo sulla donna.


Ci chiediamo, allora: è stata un tipico prodotto della più becera disinformazia di stampo sovietico questa deformazione della realtà? Oppure è stato semplicemente un equivoco storico, una svista, come disse quel giornalista?