Stiamo tutti assistendo in questi giorni, proprio a poche settimane dall’anniversario dei 150 dell’unificazione statuale, a un ennesimo patetico (oltre che assolutamente fuori tempo massimo) “litigio” fra le cariche istituzionali, gli esponenti della cultura nazionale, gli intellettuali, a causa di un serissimo problema che li assilla: il 17 marzo p.v., deve essere festa nazionale (quindi scuole e uffici chiusi) o va “festeggiato” – non si sa bene come – mantenendo tutto aperto come un qualsiasi altro giorno lavorativo? Sfortuna vuole peraltro che cada infrasettimanale (una buona domenica sarebbe stata la panacea…).
Tremendo dilemma. Dilemma non solo storico, ma anche politico, economico, sociale. Per capire meglio il senso di ciò che accade, occorre risalire un po’ indietro nel tempo. In realtà, la preparazione della commemorazione del 150° anniversario della costituzione del Regno d’Italia non è stata concepita né vissuta serenamente dalla nostra classe politica e dai ceti intellettuali e culturali fin dall’inizio. In teoria, ciò dovrebbe essere strano, in quanto non solo si tratta di un elemento positivo, anzi, basilare, nella storia di un popolo (l’unificazione nazionale), che in ogni altra nazione sarebbe vissuto come momento di grande festa popolare, ma, specificamente per il popolo italiano, a causa delle sua stessa storia e dell’attuale congerie politica e culturale di profonda divisione, sarebbe dovuto essere realmente “la grande occasione”, atta a ricreare una realtà aggregante – una medicina ricostituiva – per uno Stato sempre meno amato e sentito amico dalla popolazione, come largamente riconosciuto da ognuno.
Ma in realtà non è affatto strano. È anzi la normale e inevitabile conseguenza della storia stessa d’Italia degli ultimi duecento e passa anni, della storia stessa della nostra unificazione politica e delle sue drammatiche conseguenze nel corso del XX secolo.
Molti forse ricorderanno che il problema sorse a livello di dibattito nazionale nell’estate del 2009, suscitato da un articolo di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 20 luglio, intitolato “Noi, italiani senza memoria”, dove l’autore, proprio in riferimento a quelli che sarebbero dovuti essere i preparativi per i solenni festeggiamenti nazionali, denunciava in termini amari il fallimento di una vera e viva coscienza nazionale nella nostra classe politica e culturale e, quindi, in gran parte degli italiani. Credo sia utile, per entrare nel vivo del problema, riproporre direttamente le parole stesse di Galli della Loggia, che svelano pienamente il cuore del problema : «Il modo in cui il Paese si appresta a celebrare nel 2011 il 150¢ªanniversario della sua Unità indica alla perfezione quale sia l’immagine che la classe politica – tutta, di destra e di sinistra, senza eccezioni (nonché, temo, anche la maggioranza dell’opinione pubblica) – ha ormai dell’Italia in quanto Stato nazionale e della sua storia. Un’immagine a brandelli e di fatto inesistente: dal momento che ormai inesistente sembra essere qualsiasi idea dell’Italia stessa».
L’autore rivela poi che tanto il governo Prodi quanto quello Berlusconi hanno utilizzato tutti i soldi stanziati per il centocinquatenario per costruire infrastrutture pubbliche un po’ ovunque in Italia. E continua: «Il punto drammatico sta nella premessa di tutto ciò. Nel fatto evidente che la classe politica sia di destra sia di sinistra, messa di fronte a uno snodo decisivo della storia d’Italia e della sua identità, messa di fronte alla necessità di immaginare un modo per ricordarne il senso e il valore – e dunque dovendosi fare un’idea dell’uno e dell’altro, nonché di assumersi la responsabilità di proporre tale idea al mondo, e quindi ancora di riconoscersi in essa – non sa letteralmente che cosa dire, che partito prendere, che idea pensare. E non sa farlo, per una ragione altrettanto evidente: perché in realtà essa per prima non sa che cosa significhi, che cosa possa significare, oggi l’Italia, e l’essere italiani. (…) l’unico scopo che ci tiene insieme sembra essere oramai quello di spartirci il bilancio dello Stato, di dividerci una spoglia. M’immagino come se la deve ridere tra sé e sé il vecchio principe di Metternich, osservando lo spettacolo: non l’aveva sempre detto, lui, che l’Italia non è altro che un’espressione geografica?».
L’amara e spietata denuncia di Galli della Loggia ha, come naturale, suscitato un dibattito generale nei giorni seguenti. Troppo forte è l’“urlo di dolore” provocato dal coltello messo nella piaga per non essere sentito, per non meritare seria risposta: Metternich aveva dunque ragione? Se fosse ancora vivo, sarebbe lui, lo sconfitto di allora – e a Metternich si potrebbero aggiungere tanti altri sconfitti, tutte le vittime non tanto dell’unità italiana, quanto dei metodi utilizzati per ottenerla e dell’ideologia che ha spinto tali metodi, a partire dal Papa vittima sacrificale di tali metodi e ideologia – a ridere per ultimo? Siamo ancora italiani (non naturalmente nel senso genetico, ma politico e culturale)? E lo siamo mai stati? Cosa ha significato allora nella realtà tutto quanto avvenuto durante il Risorgimento? Cosa dovremmo festeggiare realmente nei prossimi giorni? Ben più duro fu a riguardo il giudizio (su Libero, 21 luglio) di Vittorio Feltri: «la nostra è una nazione soltanto formalmente, e il sentimento nazionale di conseguenza è un valore retorico, cioè detto e ripetuto ma per nulla sentito dai cittadini e dai loro rappresentanti eletti per spirito di parte più che per amministrare il bene comune. Se del 150° anniversario dell’Unità neppure si parla, e se per celebrarlo non esistono progetti all’altezza, il motivo è tristemente semplice: la maggioranza degli italiani lo considera una iattura da non festeggiare».
Inoltre, Feltri accenna anche al ruolo disgregatore delle forze politiche localistiche: «La Lega Nord punta al federalismo non potendo dichiarare di ambire alla secessione. Il Mezzogiorno, terrorizzato sia dal federalismo sia dalla secessione, si organizza: sta dando corpo a una Lega Sud il cui mandato è arraffare milioni per contrastare i piani di Bossi e garantirsi contributi europei e sovvenzioni romane (…) La politica si barcamena; è una specie di pendolo che oscilla tra due esigenze: dare al Sud per non perderne i voti e non togliere troppo al Nord per non accelerarne il processo centrifugo. Il Triveneto, dove la Lega bossiana si accinge a diventare, se non lo è già, il primo partito, ha un piede nella Mitteleuropa e cerca con rabbia di metterci anche l’altro con tanti saluti all’odiata Patria».
E al contempo anche Alessandro Campi su Il riformista (22 luglio) denunciava la vittoria del particolarismo leghista, prova provata del fallimento del sentimento unitario in Italia. Senza voler avventurarsi nelle vicende politiche attuali, anche in questo caso occorre dire che la denuncia di Feltri è lucida, anche più schietta delle altre, ma manca l’approfondimento delle cause del male.
Perché “la nostra è una nazione soltanto formalmente”? e gli italiani sentono l’anniversario “come una iattura”? Perché l’azione antiunitaria della Lega Nord ha successo, per di più proprio in quei territori che furono gli artefici del Risorgimento (perché, non dimentichiamolo, il Sud – a parte sparuti gruppi di intellettuali – l’unificazione l’ha subita, non voluta)? Perché di contro sta nascendo una sorta di “Lega Sud” e dove condurrà negli anni futuri tale deriva decentralista? Perché – e qui Feltri denuncia la più evidente e innegabile di tutte le verità su queste problematiche – “il sentimento nazionale di conseguenza è un valore retorico, cioè detto e ripetuto ma per nulla sentito dai cittadini”?
Perché Campi può concludere con questa drammatica affermazione: «L’Italia sta scomparendo, senza che nessuno lo voglia ammettere apertamente»? Quale Italia sta scomparendo? L’Italia degli italiani, ovvero l’italianità intesa come senso profondo di un’identità comune secolare, anzi, millenaria, o l’Italia nata 150 or sono? E perché sta scomparendo? E in che senso? Il problema è serio, se tali denuncie sono vere. Ne va del senso stesso del nostro essere uno Stato, monarchico prima, repubblicano ora. E che dire del nostro essere “nazione”? Siamo e siamo mai stati una “nazione”?
In realtà, uno Stato lo siamo, nel senso che l’Italia è stata unificata fra il 1859 e il 1918 ed è entità politica unitaria dal 1861. Insomma, c’è. E, di certo, la grande maggioranza degli italiani – al di là delle estremizzazioni di Feltri – ancora attualmente preferisce che, nonostante tutti i mali odierni e trascorsi, lo Stato unitario rimanga, se non altro per il timore del vuoto politico e del disastro economico che ne verrebbe dalla sua scomparsa. Ma, detto questo, tale Stato, che esiste politicamente, esiste anche – e in che misura – nei cuori dei suoi cittadini? Quanti italiani oggi si riconoscono in questo Stato? Quanti italiani oggi si sentono italiani prima che lombardi, veneti, trentini, toscani, siciliani, napoletani, sardi, ecc.? Quanti lombardi vedono nel napoletano un “fratello d’Italia”? E quanti calabresi lo vedono nel piemontese? Ci si può accusare – nel fare tali ragionamenti – quanto si vuole di qualunquismo e banalità, chiunque potrebbe affermare: “ciò non vale per me” o “conosco tanta gente di Bergamo che vede nel napoletano o nel cosentino un ‘fratello d’Italia’”…
Ma, al di là delle istanze buoniste e/o ideologizzate (o anche di meritevoli casi che non mancano mai), chi può negare in piena onestà intellettuale la profonda realtà di tali qualunquistiche e banali domande per un numero non secondario di italiani? Ben sapendo che la lista delle banalità potrebbe continuare molto a lungo. Nonostante la televisione, il cinema e i massmedia in generale, che promuovono ogni giorno la lingua nazionale, come si può negare che milioni di italiani ancora parlino in dialetto e sovente non si comprendano tra loro? Come negare le profonde differenze di mentalità “operativa” e comportamentale ancor prima che intellettuale e morale fra un qualsiasi italiano del Nord e uno del Sud?
Come negare la presenza della faziosità localistica in quasi ogni provincia dello Stato italiano? Il pregiudizio antimeridionale e, soprattutto, antiromano? Chi può negare che la drastica affermazione di Galli della Loggia sull’immagine che gli italiani (sia la classe dirigente e culturale che le popolazioni) hanno del proprio Stato (che pur esiste e continuerà a esistere anche proprio per paura e convenienza) sia vera nella sua essenza?: “Un’immagine a brandelli e di fatto inesistente: dal momento che ormai inesistente sembra essere qualsiasi idea dell’Italia stessa”. Lo Stato continuerà probabilmente a esistere a lungo e gli italiani lo vedono come una sorta di scoglio cui aggrapparsi per provare almeno a trovare lavoro, per sperare un giorno di poter ricevere la pensione, per usufruire (dove e quando possibile) negli aiuti sociali, ma con sempre maggiore e crescente scetticismo. Uno “Stato-scoglio” appunto, per di più sempre più pericolante e viscido, al quale ci si attacca per paura e per la sopravvivenza, non certo per amor di patria e tanto meno per orgoglio del proprio retaggio storico e culturale . Vedere il proprio Stato come uno scoglio cui aggrapparsi significa avere una concezione utilitaristica di esso, scettica, in certi casi “furbesca”.
Significa non averlo nel cuore, non sentirlo cosa propria, ideale da amare e difendere, anche a costo della propria vita, non vederlo come “Patria”, non riconoscervi in esso la presenza di altri 55 milioni di “fratelli d’Italia”. Esso è un contenitore di cui usufruire – finché e per quanto possibile – per sopravvivere nella drammatica e prosastica lotta quotidiana del cosiddetto “italiano medio”, il quale, unica concessione all’“amor di patria”, gli riconosce dignità sventolando il tricolore nelle vittorie sportive.
Dimentichi completamente o quasi di quanto le generazioni passate hanno fatto per quel tricolore in terra d’Africa, sul Carso o sulle Dolomiti, nel Mediterraneo, nei Balcani, ovunque in patria. Ancora banalità, si dirà. Sì, sono banalità proprio ed esattamente perché vere, reali. Come già detto, di queste banalità se ne potrebbero elencare a iosa. Non lo farò, il concetto appare evidente, e quindi inizio a trarre qualche conclusione. Uno Stato sentito come “strumento d’aiuto” e per di più quasi sempre inefficace, assente e perfino nemico, può considerarsi come base sostanziale di un popolo che si senta – e costituisca – una nazione? Eccoci alla questione-chiave già fugacemente accennata in precedenza: noi italiani, dopo 150 dalla costituzione dell’unità nazionale, siamo una “nazione”? O siamo solo e ancora cittadini di uno Stato? Uno Stato che prima del 1861 poteva chiamarsi “Granducato di Toscana”, o “Regno delle Due Sicilie”, o “Stato Pontificio”, e che dopo, in seguito a una guerra di conquista da parte di uno di quegli Stati preunitari, prese il nome di “Regno d’Italia”? E, ancor peggio e più provocatoriamente, arrivo a chiedermi: siamo sicuri che gli italiani della metà del XIX secolo vedessero lo Stato Pontificio, il Regno delle Due Sicilie, il Granducato di Toscana e gli altri Stati preunitari solo come “Stati” (scogli cui aggrapparsi) e non anche come la propria “nazione”? Siamo sicuri che tutti nel cuore e nella mente cantassero “perché non siam popolo perché siam divisi”? O invece si sentissero “popolo”, quindi nazione, nel loro essere toscani, sabaudi, “duo-siciliani”?
E se anche si fosse sentita a livello popolare la lecita e nobile esigenza di una sorta di processo unificante degli Stati italiani del tempo, siamo certi che ciò che volevano era che la monarchia sabauda spodestasse gli altri legittimi sovrani per creare uno Stato unitario alternativo? E per di più centralista, piemontesista, sacrilego e anticattolico come di fatto fu? Queste non sono domande retoriche o legate a improponibili sentimenti “nostalgici”, sono al contrario proprio il nocciolo della questione, della “questione italiana”, la questione irrisolta per eccellenza della nostra storia: l’italiano di oggi è più legato allo Stato di quanto lo fosse l’italiano preunitario al proprio Stato? Se non è così (e ci sono buone ragioni per pensarlo, dove si è sbagliato? Quale “nazione” si è creata in questi 150 anni?
E, di conseguenza, cosa ci sarebbe mai da festeggiare in questo 2011, visto che gli italiani di oggi sarebbero meno “nazione” degli italiani preunitari? Insomma, la denuncia di Galli della Loggia e degli altri intervenuti nel dibattito è giusta e sacrosanta. Ma la realtà è che occorre iniziare a trarre le conseguenze da tale situazione individuandone correttamente le cause. Tutto ciò non può non far venire alla mente l’assunto per eccellenza dell’unificazione, che può paradigmaticamente essere espresso nella più celebre affermazione della storia italiana: “Fatta l’Italia, restano a fare gli italiani”, come notò non senza ironia l’acuta mente di Massimo d’Azeglio, protagonista alquanto disilluso degli anni risorgimentali. Sono stati fatti gli italiani in questi 150 anni? E, soprattutto, gli italiani, “si fanno”? O ci sono? E i 22 milioni di individui in quei giorni abitanti la Penisola e le isole oggi componenti l’Italia, che cosa erano se non erano italiani? O forse erano loro i veri italiani? In questo caso, di quale “italiano” parla d’Azeglio? Evidentemente di un diverso italiano, di un italiano da cambiare, da modificare nella sua secolare italianità, di un “nuovo italiano” con una nuova identità per una “nuova Italia”.
L’Italia de-cristianizzata, laicista e nazionalista che era il sogno di Mazzini come di Cavour, di Sella come di De Sanctis, di Rattazzi come di Crispi e Depretis. L’Italia della Guerra Civile Meridionale e di milioni di emigranti, della corruzione morale e politica e del disastro economico, quell’Italia che precipitò nella dittatura, nella guerra civile e nell’8 settembre del ’43, “morte della patria”, come Galli della Loggia e tanti altri storici e intellettuali lo hanno definito. Questa fu la grande sfida del Risorgimento che noi dovremmo festeggiare nel 2011: l’italiano nuovo, figlio appunto del Risorgimento laicista e nazionalista prima, dell’Italia fascista poi (perché, inutile nascondercelo, 23 anni su 150 complessivi non sono pochi, tanto più se hanno comportato, oltre a varie riforme sociali, una dittatura, una conquista di un “impero”, l’entrata nella Seconda Guerra Mondiale, la guerra civile e la disfatta militare e politica dello Stato) e della repubblica partigiana poi, nuovo in quanto antitetico a quello precedente, all’italiano figlio dei secoli cristiani e della Chiesa. Ci sono riusciti i nostri governanti in questi 150 anni, ognuno al proprio turno, a fare l’“italiano nuovo”? E, se sì, anche parzialmente, ci è convenuto? Dobbiamo veramente festeggiare? Non potrebbe risiedere forse proprio nella risposta a tali quesiti la chiave di interpretazione dei mali denunciati nel dibattito prima riportato?