di don Enrico Finotti - parroco di S. Maria del Carmine in S. Maria a Rovereto (TN) La storia dell’altare cristiano è molto varia e manifesta la ricchezza insondabile del mistero della nostra fede. Ogni epoca presenta caratteristiche proprie e si esprime con genialità, secondo le diverse sottolineature e sensibilità teologiche dell’identico dogma della fede. Possiamo catalogare quattro fasi nello sviluppo dell’altare: l’altare antico, medioevale, barocco e attuale.
L’altare antico col ciborio
Il ciborio conferisce all’altare antico una dignità speciale senza intaccarne la struttura, ma circondandola di venerazione e di solennità. Mediante il ciborio la piccola massa dell’altare si impone nello spazio vasto e solenne della basilica e ne è assicurata la sua centralità. Le sue colonne rimandano all’immagine biblica della “
Sapienza che si è costruita la casa e ha intagliato le sue sette colonne…ha preparato il vino e ha imbandito la tavola” (Pr 9, 1-2) e la loro staticità afferma la solidità del mistero dell’Incarnazione. Tutto questo si realizza veramente nel sacro Convito dell’Eucaristia. La sua copertura ispira anche l’epiclesi visiva dello Spirito Santo, che è invocazione sempre presente nel divin Sacrificio e la sua cupola apre sull’orizzonte celeste e sovrasta quell’altare sul quale veramente,
in mysterio, il cielo discende sulla terra.
L’altare medioevale col dorsaleL’erezione del dorsale che si sviluppa dall’epoca gotica fino ai nostri giorni dimostra visivamente la necessità di descrivere con il genio dell’arte le dimensioni del mistero che sull’altare si compie. Sia gli eventi della vita del Signore, come quelle della Madonna e dei Santi non sono che aspetti parziali e applicazioni particolari dell’unico sacrificio di Cristo, che viene attuato sacramentalmente nella celebrazione. La varietà dei temi descritti nelle pale degli altari e nelle monumentali strutture dorsali che si sviluppano e salgono dalla mensa dell’altare sono la proclamazione visiva dei mirabili e molteplici frutti dell’unico Sacrificio di Cristo. Il mistero eucaristico si traduce mediante il genio dell’arte nell’infinito prisma dei Santi, che ne sono i frutti eccelsi e il segno glorioso della sua intima ed inesauribile vitalità. Ciò che l’occidente ha espresso col dorsale dell’altare, l’oriente lo esprime con l’iconostasi. Mentre il primo mostra al popolo le meraviglie della grazia sovrastando il sacerdote nell’atto di compiere il divin sacrificio, l’iconostasi orientale comunica al popolo lo splendore dei misteri e dei santi velando il sacerdote che celebra la divina liturgia. Oriente e occidente quindi si trovano d’accordo nella necessità di educare al mistero con la bellezza dell’arte, che a guisa di viticci nasce dall’altare, lo circonda e lo sovrasta offrendo i tanti capolavori secolari dei nostri altari.
L’altare barocco col tabernacolo
Col Concilio Tridentino il tabernacolo viene permanentemente intronizzato sull’altare e in tal modo si sana la secolare bipolarità tra altare e tabernacolo dei secoli precedenti. Effettivamente il tabernacolo ha il suo luogo proprio sulla mensa dell’altare dove il Sacramento nasce, il Sacrificio è offerto e il Pane santo è donato. Nessun luogo è più consono al tabernacolo che quello dell’altare stesso, che così rimane sempre vivo e ‘acceso’ anche fuori della celebrazione. Niente può conferire maggior dignità ed identità all’altare come il Santissimo Sacramento. Infatti, mentre l’altare rimane pur sempre un simbolo sacro, il Sacramento è la presenza viva e personale di Colui che è realmente e permanentemente ‘altare, vittima e sacerdote’. A livello di principio quindi il legame altare e tabernacolo è indissolubile e ogni separazione è sempre precaria e fonte di possibile squilibrio.
L’altare attuale verso il popolo
L’intento pastorale della recente riforma liturgica ha offerto la possibilità - non l’obbligatorietà - della celebrazione verso il popolo. Essa permette certamente molte opportunità, soprattutto pastorali, e consente di evidenziare aspetti che arricchiscono il modo di celebrare il divin Sacrificio. E’ tuttavia necessario non assolutizzare questa concessione e non indulgere ad un nuovo fissismo su una forma ancora recente in via di valutazione. L’apertura mentale ai secoli della storia liturgica, unita ad una inevitabile indagine teologica, deve rendere disponibile la Chiesa a soluzioni varie e a prospettive di nuove sintesi.
Fino al Vaticano II le diverse tipologie degli altari, espressioni delle diverse epoche storiche, di differenti visioni teologiche, di diverse prestazioni liturgiche e di gusti e tecniche artistiche successive sono vissute insieme in pace. I sacerdoti e i fedeli non avevano difficoltà a riconoscere in forme diverse di altari e in stili differenti l’unico altare cristiano che, dall’origine, cammina nel tempo assumendo il genio dei secoli. Si celebrava con spontaneità e senza percepire difficoltà alcuna sull’altare antico, su quello rinascimentale, su quello barocco e su quello di recente costruzione. Dopo il Vaticano II sembra che quella continuità pacifica e normale si sia interrotta. Tutti gli altari precedenti improvvisamente sono stati congedati come inadatti. Essi certo sono ancora ammirati, ma dichiarati inutilizzabili. Vi è quindi una frattura tra il prima e il dopo, fatto che non si era verificato in passato, ma le forme nuove degli altari non cancellavano le precedenti e con esse convivevano in pace. Ed ecco che nelle nostre chiese storiche dalle più piccole alle grandi basiliche l’altar maggiore di sempre domina sovrano, ma resta muto e spoglio di ogni sua insegna. Osserva dall’alto della sua maestà una struttura debole, spessissimo mobile, di dimensioni ridotte che riceve ormai da anni gli onori liturgici e offre la sua mensa alla celebrazione del gran Sacrificio. Cosa è avvenuto? Come mai questo congedo illimitato di tutti gli altari storici? Saranno licenziati per sempre? Essi ricevono la visita guidata dei turisti, sono fotografati, ammirati, descritti in appositi opuscoli e suscitano tanto stupore, sia nella loro architettura monumentale, come nella preziosità dei loro materiali e nella genialità delle loro sculture e pitture, ma il loro sguardo sembra triste. Essi non sono più l’altar maggiore e non possono più pretendere gli onori liturgici. La loro splendida arte li assicura almeno in ordine alla loro sussistenza. Ma non tutti ebbero tale sorte: alcuni di loro furono mutilati o anche del tutto rimossi. I loro migliori amici sembrano essere proprio fuori della chiesa. Coloro che stanno in chiesa li guardano piuttosto male e se potessero … Ma quelli che in qualche modo li osservano da lontano e li visitano quasi da ospiti, li valutano e sempre più si sono organizzati per evitare la loro estinzione. Perché è successo questo fenomeno? Certamente hanno influito due cause, che se buone nel principio, hanno degenerato in applicazioni estreme: la possibilità di celebrare rivolti al popolo e l’intento pastorale di essere il più possibile vicini all’assemblea. Ed ecco che estremizzando queste indicazioni ci si risolse in modo univoco a celebrare assolutamente, sempre e in ogni chiesa verso il popolo. Inoltre si intese la vicinanza al popolo come una prossimità fisica a tutti gli effetti, ossia la visibilità ottica, che richiede distanza ed è più efficace in ordine alla partecipazione, era ritenuta anticonciliare e ogni maestà doveva essere del tutto rimossa dalla forma dell’altare. Esso doveva assumere la rigorosa ed esclusiva forma di una comune mensa. Sguardo al popolo e vicinanza fisica ad esso intesa in modo plebiscitario non poté che congedare ogni altro altare precedente e renderlo inutilizzabile.
Con questi criteri l’altare con dorsale è del tutto giudicato inabile, ma anche l’antico altare con ciborio può essere lasciato in ombra perché troppo lontano dalla gente.
Ma fissare in modo assoluto e insuperabile i due criteri sopra esposti e dichiararli gratuitamente dettati conciliari è difforme dalla realtà. Né il Concilio ha imposto la celebrazione verso il popolo, né ha dichiarato l’inabilità dgli altari storici, né ha ordinato una vicinanza fisica all’assemblea ottenuta ad ogni prezzo. Si tratta allora di uscire dal pregiudizio così diffuso nel postconcilio e di ripensare ad una opportuna riconciliazione.
Credo che non sia possibile, relegare nell’inutilità e nell’abbandono i grandi altari storici, ma la liturgia stessa ne avrebbe giovamento se, rispettando dovutamente e intelligentemente il genio e la tipologia della diverse chiese si celebrasse in modo diversificato. Allora non vi sarà frattura, ma continuità e, soprattutto, si potrà uscire da quella situazione provvisoria di altari fragili e inadatti, che da decenni ormai occupano le zone presbiterali.
Credo che il messaggio del papa Benedetto XVI nel celebrare sull’altare della cappella Sistina sia su questa linea e intenda suscitare una mentalità al riguardo più equilibrata, possibilista e meno fissista.
Articolo apparso sulla rivista LITURGIA ‘CULMEN ET FONS’ di dicembre 2010