Una missionaria certamente fuori dal comune suor Gian Paola Mina (1917-2000). Nei vent'anni trascorsi in Africa, questa missionaria della Consolata sollevò, partendo da zero, l'identità della donna in Kenya, promuovendo la persona con gli studi, la professionalità e la coscienza, in quanto donna, di essere perno della famiglia. Per questo mondo femminile, fino allora dimenticato e disprezzato, fondò degli enti nazionali dai riflessi internazionali come il Gitoro Women Center e la Women's union for social action (Wusa).
Realizzò tutto ciò affrontando mille difficoltà in un'epoca storica molto travagliata per il Kenya, una terra che per liberarsi dall'autorità inglese e in nome dell'indipendenza venne insanguinata duramente e tragicamente dall'insurrezione Mau Mau.
Suor Gian Paola venne sradicata dal luogo tanto amato. Eppure continuò a essere Makena, la gioiosa, come veniva chiamata dalla gente del Kenya. Ciò che non poté più fare sul campo, in Africa, lo fece dalla sua scrivania di giornalista e di scrittrice, narrando la missione e diffondendo l'amore per essa in migliaia di anime.
Itinerario di un’anima
Il suo programma di vita è scritto in due taccuini che suor Gian Paola, prossima alla fine della sua vita, affidò al suo amato fratello. Due taccuini tascabili e di poco valore economico, scritti per sé con una calligrafia fitta, fitta: parole dettate dalla sua coscienza con una convinzione che stupisce e meraviglia.
Il primo è stato compilato dal luglio 1940 all’avvento 1960, il secondo dal febbraio 1961 al gennaio 1992. Il cammino ascetico è evidente, ma non è così graduale come si potrebbe pensare per una comune progressione d’anima. Ci sono fasi alte e basse, chiaroscuri di una coscienza che è sempre stata assetata di Dio. Sorprende poi quella continua autocritica, il guardare ai propri difetti e mai a quelli degli altri e pur vivendo in prima persone sofferenze arrecate da chi le è superiore gerarchicamente, arrestando i suoi spazi di dilagante azione, lei non protesta e non inveisce, macina il dolore dell’umiliazione e se ne serve per migliorarsi.
Fin dall’inizio le tracce della sua maturità spirituale sono bene evidenti, nonostante la giovane età. Illuminante la citazione di don Pier de Hemptinne che suor Mina, ad appena 23 anni, scrive nel primo giorno di vita religiosa (Sanfrè, 29 luglio 1940): «Sono risoluto di convertirmi all’amore di Cristo… Voglio amare pazzamente. Spezzerò la mia volontà, sottometterò l’intelletto, farò tutto quello che mi si chiederà pur di non perdere il solo bene, Gesù Divino; anzi son sicuro che Egli non mi lascerà mai. Le nostre anime debbono piacere a Gesù e non ad altri» e poco dopo annota tre regole personali: «Un ideale solo: N.S. Gesù Crocifisso. Un desiderio solo: le anime. Un metodo solo: ardenter audenter. In nomine Jesu et Mariae».
È ben chiaro che Gian Paola ebbe come suo fine quello di essere una lode eterna di gloria a Dio: «Tutto è tuo. Ma ch’io sia e mi senta, o meglio, sia certa di essere veramente tua. Che ti ami con tutte le fibre dell’anima mia. Che Tu sia il fine di tutta la mia vita e di ogni azione». Propositi, meditazioni e preghiere ricorrono in queste pagine intime dove non si trovano soltanto i punti didattici di ritiri spirituali frequentati con impegno e trasporto, ma anche personali colloqui con il trascendente: Sanfré, Natale 1940: «Caro Gesù Bambino, in questo pomeriggio di Natale, il primo che passo lontano da casa, sento il bisogno di parlare con qualcuno che mi voglia bene e mi comprenda. E questo qualcuno sei Tu solo, mio dolce Signore. Tu che mi amasti da tutta l’eternità, che hai intessuta tutta la mia vita d’amore, che hai fatto della bimba e dell’adolescente turbolenta e ribelle di un tempo, la tua piccola sposa. Tu che mi hai segregato dal mondo non solo, ma dalle anime che pur mi avevi affidato, e mi hai condotta qui, perché sola con te solo, non avessi altra preoccupazione, altro lavoro, altro programma, che la mia identificazione con te, Gesù Crocifisso.
Ed io ti amo tanto. Voglio assecondarti in tutto, docilmente, volenterosamente, lietamente. Non ti seguii forse prontamente quando un giorno lontano, giovanissima, mi facesti sentire la tua voce, e alla mia giovinezza ansiosa di vita, di amore, di gioia, di dedizione, mostrasti un ideale di santità, di sacrificio di apostolato, riassunto in un nome, il tuo? E da allora, non mi sforzai forse di seguirti, di lavorare per te, anche se il cammino era duro, se la sofferenza si acuiva, se l’ideale pareva un sogno, un assurdo, una chimera irraggiungibile? Non forse cercai la tua volontà con rettitudine d’intento, fino a sacrificarti tutto? Caduta, è vero, migliaia di volte, ma la tua mano mi rialzò; peccai, ma nel tuo amore trovai perdono, fui debole, vile di fronte al sacrificio, ma tu mi rivestiti della tua forza. Perciò, mio Signore, oggi che questo mio povero cuore umano invoca con nostalgia tremenda, la sua casa, la sua mamma, oggi che i ricordi affollano e trascinano, e qui, in questa casa, fra tanti, io mi sento tanto sola, perdutamente sola, e mentre rido e scherzo per non turbare con le mie lacrime, la pace degli altri, mio Signore, io invoco te. Riempimi di te. Sii tutto! Appaga con il tuo amore questa mia anima che ha sete di te, ma perché la sua miseria la irretisce e le impedisce di volare a te, scendi tu a lei! Io mi offro ancora una volta a te, tutta! Possiedimi, alfine, interamente».
Qui, forse, sta il segreto della realizzazione di suor Gian Paola: lei voleva appartenere, come una vera sposa, tutta a Cristo, essere tutta sua, completamente sua e ogni minuto della sua vita religiosa doveva, secondo il suo intendimento, segnare l’aumento di Gesù in lei.
Riflessioni consistenti anche quelle del 1° gennaio 1941 quando dichiara che ogni istante è importante nel disegno del Padre per raggiungere il pieno possesso di Cristo «nella misura da lui stabilita». Perciò ogni minuto perso in pigrizia, suscettibilità, sciocchezze, colpe, negligenze, fantasie «è perduto per sempre e mancherà al completamento della mia santificazione e della mia missione di apostolato».
Si scuoteva e si pungolava per un perenne miglioramento: «Devo rinfocolare sempre il mio amore, la mia fede, perché a lungo andare, non abbia a cadere in mediocrità e banalità di vita qui, ove Dio, la Chiesa e le anime hanno il diritto di pretendere santità di opere» e così dimostra a noi, lettori indiscreti e non da lei autorizzati a leggere e commentare questi splendidi colloqui con il cielo, la sua cocente e solida personalità carica di volontà e di determinazione: «Se il pensiero delle migliaia di minuti sciupati, nulli, mi spaventa e mi umilia avanti a Dio, deve d’altra parte, raddoppiare il fervore della volontà per intensificare, riparare al tempo perduto».
Eppure Gian Paola si lamenta della sue giornate: una ridda di vibrazioni, di sentimenti contrastanti, di luci e di dubbi, di amore e di freddezza. Dubbi, perpessità per un’anima troppo intelligente per buttarsi nel vuoto senza conoscere la propria forza e allora scrive da Sanfrè agli esercizi spirituali in preparazione della vestizione (gennaio 1941): «Oh mio Signore, non badare ai gemiti della mia natura ribelle ed eccessivamente sensibile alla sofferenza morale, e continua l’opera che hai iniziata! Non posare lo scalpello fin tanto che l’ultimo colpo non sia dato! Ravviva la mia fede! Fa che il lamento e il pianto si trasformino in un grido: t’amo, Signore! Fa che oggi in cui sento iniziarsi il martirio della vita religiosa, io sappia soffrire sorridendo, morire cantando e camminare senza soste, con fede anche se intorno è buio e la tormenta avvolge, anche se dentro la mia volontà umana insorge e si ribella, anche se il cuore tenta di attaccarsi ad abbracciarsi alle piccole cose e creature del passato! T’amo, Signore, aumenta il mio amore!».
Senza illusioni e senza colpi di testa, suor Gian Paola si pone subito di fronte ai problemi della sua scelta. Possiamo dire che non si tratta di dubbi da dissipare, ma di considerazioni: la vita religiosa, come quella matrimoniale è costellata di sacrifici, occorre prenderne atto e dunque non è tutto petali di candore e pozze d’acqua pulita. Gian Paola, responsabile fin da ragazza, sa a cosa va incontro ed è più pronta per la sofferenza che per la gioia e ciò ci permette di comprendere la sua realizzazione di suora, di missionaria. Non si aspettava mai nulla dagli altri, ma pretendeva sempre da se stessa e dava al sacrificio il giusto valore di chi pretende molto dalla vita e sa che un prezzo va pagato.
Il noviziato fu per Gian Paola «il deserto al quale Iddio mi ha condotta per essere provata in tutti i modi. La tentazione più forte e frequente, dalle quali dipendono i turbamenti, le malinconie, i dubbi, le ripugnanze cui sono soggetta, sono quelle dell’amor proprio. Esso mi ispira ripugnanze ad assoggettare le mie azioni alla dipendenza, a chiedere permessi» (marzo 1941). Riteneva infatti l’amor proprio il suo difetto peggiore e lo combatteva quotidianamente, facendo violenza a se stessa. Nella domenica delle Palme dell’aprile dello stesso anno così riflette: «Anch’io oggi agito i rami di ulivo e canto l’osanna a Gesù! Ma so per esperienza che potrebbe bastare una piccola prova a farmi dimenticare ciò che devo a Gesù. Non è forse tutta la mia vita un alternarsi di atti d’amore e di concessioni a me stessa, al mio amor proprio? Perché questo? Perché il mio amore non è alimentato da una fede viva, umile, e preferisco la mia volontà all’umile sottomissione, e mi ribelllo quando mi sento contrariata. Per essere fedele al Signore e dargli gloria, sempre, cercherò di abituarmi: 1) a sottomettere protamente la mia volontà e il mio giudizio alle disposizioni e consigli dei Superiori nei quali vedo Dio. 2) a contrariarle anche in cose indifferenti».
Fra le meditazioni del ritiro datato maggio 1941 Gian Paola si espone in propositi dal peso non indifferente: «Gesù si è fatto Ostia. Diventare, con Gesù, ostia d’amore e di gloria al Padre, ecco ciò che voglio fare della mia vita religiosa, nell’anima e nel corpo, in tutto cioè il mio essere. Ma il mio contegno esterno, non dà certo il senso di questa consacrazione mia a Dio, perché sa troppo di mondo e di natura… In questo mese di maggio cercherò quindi, camminando e parlando, di tenere quella compostezza religiosa, semplice e disinvolta, lungi da ogni affettazione, che spanda attorno il buon profumo di Cristo».
La caparbietà nel contrastare i suoi difetti è costante e insistente e la si riscontra soltanto nelle anime sante. Ma Gian Paola la santità la ricercava. Scrive nelle Meditazioni del ritiro spirituale datato giugno 1941: «Lo Spirito Santo scendendo sugli Apostoli, opera in loro una trasformazione radicale, istantanea. Perché? Essi, fedeli all’ordine di Gesù l’avevano atteso nella preghiera e nella umiltà, e non avevano opposto alcun ostacolo alla sua azione. «Da tanti anni lo Spirito Santo lavora nell’anima mia, per la mia santificazione. Ma perché dunque così scarso è il frutto che io porto e così lenta la mia trasformazione?». Invoca continuamente l’umiltà, la semplicità, l’ubbidienza, l’annientamento del proprio orgoglio e segna mancanze e vittorie. Vuole imparare a «tesoreggiare» ogni momento della vita e «Com’è bello, del resto, agire semplicemente con l’occhio fisso in Dio, non curando né l’onore né l’umiliazione che può venirmi dalle persone».
Il suo modo di parlare e di camminare non è mai rientrato nei classici stereotipi delle suore: Gian Paola non era una religiosa standard, era lei. Spigliata, gioviale, sguardo vivace, attivo con un suo modo di fare spontaneo, privo di affettazioni e atteggiamenti di pietà religiosa ipocrita. Eppure Gian Paola, non rientrando in certi parametri comportamentali, si sforzava di correggersi: «Mi sforzerò di correggere il mio modo di parlare e di camminare per acquistare il contegno religioso. Ne seguirò mancanze e vittorie» (agosto 1941).
Di grande spessore spirituale sono le sue meditazioni sulla morte (agosto 1941): «Aver vissuto 30 o 50 anni, che me ne importerà, davanti alla morte? Non mi giova a nulla l’aver occupato un posto di gloria nel mondo, aver cercato me stessa, aver assecondato la mia volontà… Come cambiano d’aspetto le cose viste nella luce della morte, della eternità. Occorre quindi che davanti all’imminenza della morte, io imparo a tesoreggiare ogni momento della vita. Il Signore me la conceda ancora, non perché vegeti, ma, perché cresca in santità fino al giorno in cui Egli mi chiamerà. E se voglio che la morte segni per me l’inizio della vita, devo morire quaggiù ogni giorno a me stessa, alla mia volontà, al mio amor proprio. Mi costa tanto ubbidire e tacere! Eppure, Signore Gesù, se voglio poter dire con Te, il giorno della mia morte, il mio consumatum est devo fare il sacrificio totale della mia volontà nell’ubbidienza. Dammi Tu la forza di battere la strada che tu prima di me e per me hai battuto per andare al Padre».
Verso la fine della vita Gian Paola raggiungerà le sue speranze. Queste memorie sono un vero e proprio scrigno dove è custodito il segreto della vincente missionarietà e realizzazione di Gian Paola come donna e sposa di Cristo ed è molto netta e determinata nel condurre la sua esistenza: «Ho scelto Lui, perché Egli solo è buono, grande, degno di essere amato, Egli solo non possa e non fallisce come le creature, perché Egli mi ha amato per primo e tutto gli devo» (settembre 1941). Nel dicembre 1943 suor Gian Paola dà prova di grande volontà, di rinuncia e di sacrificio volendo mortificarsi nel camminare, nello stare seduta e nel dormire «evitando ogni posizione troppo comoda».
È una persona che vuole perfezionarsi giorno dopo giorno, affinare la sua anima per assurgere sempre più a Dio ed è più grande la volontà di farcela che lo sforzo di realizzazione, concetto avvalorato dal pensiero che troviamo scritto in data 1° gennaio 1944, quando si sta per staccare dalle proprie radici, dalle persone care e amate: «Da anni, Signore, io sento il tuo pungolo che mi spinge, che mi tormenta in un anelito mai soddisfatto di amore vero, di donazione completa, di santità. Io non so che cosa tu vuoi fare di me e in me» e non comprende ciò che Dio vuole fare di lei: «È un vuoto tremendo che mi scavi attorno. Le creature si allontanano. Anche quelle che mi sono più care sento che mi vengono meno; non sono più mie ed io non sono più loro. Sono tua, dovrei esserlo. Ma quando, Signore, io ti apparterrò completamente? Quando sciolta da ogni vincolo umano, libera di me stessa, io non mi occuperò che di te e di ciò che ti riguarda e non penserò a me se non per disprezzarmi, per dimenticarmi? Signore, io credo che tu devi essere il mio Tutto, e che lo sarai. E se vieppiù cresce la mia miseria e la vista di questa vorrebbe sgomentarmi, Signore io credo alla potenza del tuo amore per cui nessun abisso è incolmabile, nessuna miseria che non possa essere trasformata in un capolavoro di grazia Signore, io ammiro la tua opera nelle anime che mi circondano, in particolare in quelle di mio fratello e di mia sorella. Essi si son dati a te senza riserva, e tu lavori in essi liberamente. Essi ti amano. E di ciò ti ringrazio». Ed ecco sgorgare, percependo quasi un senso di inadeguatezza, l’autocritica: «Io mi sento invece troppo bambina, moralmente. E i tuoi santi sono dei forti. Signore, quando mi darai tanta forza da uscire da me stessa, da superare e domare le esigenze della natura per non inabissarsi che in te?». Gian Paola invoca aiuto e pietà al Creatore: «Signore, tu solo puoi compiere il miracolo della mia trasformazione morale. Compilo, dunque. Come posso correre dietro di te, se non dilaterai il mio cuore? Quante volte te n’ho pregato? E non mi stancherò di domandartelo ancora. Perché voglio seguirti nella via dell’amore e della croce. Tu sai quanta paura ho della croce. Tu conosci la mia debolezza». È chiaro che sorella Mina non si accontenta di aver accolto la vocazione, di essere suora, di portare Cristo agli altri, ma ha sete di santificazione: «Or dunque, se tu mi vuoi, come ne ho la certezza, nella via più alta dell’amore, rivestimi della tua forza. Rivestimi di te, o mio Signore diletto, come hai rivestito i tuoi santi. Perché tanto tardi a rivelarti nell’anima mia? Eppure lo sai che ti aspetto e ti cerco». E da queste parole rileviamo tutta la sua umiltà: « Sono cattiva, è vero, sono l’ultima delle tue spose, ma tu mi hai chiamato e io sono venuta qui per te, per te solo». Poi osa domandare a Cristo: «Signore Gesù, mostrami il Padre! Fino a quando mi lascerai nella oscurità, in cerca di una via, la via che tu mi hai segnata, e che mi deve condurre a te? Quando mi riempirai di Te e mi sazierai?». Infine la speranza fa capolino. Anche nei momenti più bui Gian Paola si rialza con vigore: «Signore, fa ciò che vuoi. Io ti amo, io sono sicura che tu verrai e mi aprirai gli occhi dell’anima ed io conoscerò che cosa racchiuda il nome di Dio. Io t’aspetterò senza stancarmi con la mia piccola lampada accesa. Questo ti dico oggi, alla soglia di un nuovo anno. Sarà tutto per te, nella ricerca di te». Sente di doversi sforzare di vivere sotto lo sguardo di Dio, con l’amore semplice della sposa, cosciente di avere su di sé gli occhi dello Sposo e desiderosa di acquistare purezza di cuore e libertà di spirito. S’impone non solo di smussare, ma anche di evitare le angolosità del suo carattere e indirizzare tutto a Dio. Già nell’ottobre dello stesso anno Gian Paola ha superato turbamenti, oscurità di pensiero e di anima precedenti: «Signore, ora finalmente posso guardare e vedere nella tua luce l’anima mia, posso guardare indietro e cercare di vedere ciò che tra te e l’anima mia è passato in quest’anno. Un senso di meraviglia, di gioia, di riconoscenza mi invade, poiché vedo chiaramente ciò che hai operato in me, vedo l’abbondanza di grazia di cui mi hai colmato e doni di luce che a tratti, ma intensamente, hai irradiato nella mia anima». Quando la grazia arriva è travolgente e invade l’anima della creatura rapita, creatura che dapprima si sente abbandonata, come chi è innamorato, ma non è corrisposto e poi viene avvolto dall’amore Infinito e trova la pienezza. «Potrò io specificare», afferma ancora suor Gian Paola in quell’ottobre del 1944, «e catalogare i tuoi doni. E chi mai può penetrare appieno in essi? È stato un anno duro. Qualche volta m’è parso di non poterne più, che tu fossi tanto lontano ed io impegnata in una lotta senza speranza di vittoria. Ogni giorno più povera e cattiva». Talvolta si era fermata e si era lasciata andare alle lacrime. «Ma nessuno ha saputo mai ciò che passava nell’anima mia, il torchio da cui ero premuta; tu solo sapevi. Come sono felice ora nel pensare che anche in quei momenti, fra le lacrime, a denti stretti stretti e con solo uno sforzo di volontà ti ho ripetuto: Signore, io credo in te, sono contenta di te, tutto ciò che fai è buono ed è bene per l’anima mia, tu sai quale cibo occorre all’anima mia. Signore, grazie di tutto». Gian Paola compie un tuffo in Dio, che lei definisce «oceano di amore» e nel dimenticare sé, emerge con maggior intensità la sua personalità, la sua vitalità, quelle potenzialità che ancora dovevano sprigionarsi. E l’incanto si fa luce di esistenza: «Come sposa a Sposo, perché sulla mia anima e sul mio corpo Egli eserciti i suoi diritti. Senza riserva. Irrevocabilmente. Patto d’amore e di fedeltà consacrato e firmato davanti a Maria, Madre di Gesù e Madre mia (Madre dello sposo e della sposa) perché renda più intima l’unione, perché la sposa non torni a galla mai più. Dimenticarmi!». Il patto d’amore, d’ora in poi sarà inscindibile e indissolubile. Generosità, apostolato, carità diventano conseguenza del suo sentirsi di Dio, «cosa sua». Passa sopra i turbamenti interiori con frequenti atti di abbandono in Dio e «dimenticanza di sé». Meticolosa come è suo uso, registra ogni mese le meditazioni maturate negli esercizi spirituali . Nell’agosto 1946 scrive: «Io mi preoccupo di determinare un proposito mentre vorrei formularne uno che dicesse così: Dimenticarmi – Andare fino in fondo… Penso pure che un giorno, al posto di scrivere il nome di una virtù da raggiungere ogni mese sul libretto dei propositi, mi piacerebbe scrivere il nome del Maestro delle virtù: il Signore Gesù! Ci vorrà tanto cammino ancora? Sono senza guida, non so aprirmi con nessuno: mi conduca lui Gesù dove vuole! Ad Patrem». Gian Paola come non si accontenta mai dei risultati ottenuti nelle sue attività, così non si siede di fronte ai traguardi spirituali e pretende sempre più dalla sua anima assetata di amore. Nell’ottobre 1946 scopriamo che il pensiero della carmelitana Elisabetta della Trinità (1880-1906), la beata innamorata di Dio Trino, risponde «così bene alle mie aspirazioni» e dunque «tutte le corde dell’anima mia, possono vibrare all’unisono ad ogni tocco della Mano Divina». Vuole combattere «a spada tratta» contro l’orgoglio, umiliarsi internamente, riducendo ogni sentimento di vana compiacenza e «andare fino in fondo nel sacrificio del cuore» e addirittura «rompere la mia volontà» per essere a disposizione di tutti, sforzandosi di agire «non sotto lo sguardo delle creature, ma sotto lo sguardo del Diletto». Tuttavia nell’ottobre 1947 ci pare di scorgere un salto di qualità, ora tutti i suoi sforzi e tutti i suoi propositi convergono su un punto, diventare cioè stulta propter Christus: «Allo stato attuale della mia anima impigliata in un vano raziocinare mi pare che ciò sia il perfezionamento di quel “dimenticarsi” programmatico della mia vita spirituale da qualche anno. Sento di essere ad una svolta decisiva della mia vita… Diventare “stolta per Cristo” sarebbe la mia resa a Lui, per amore. … Oh se potessi essere semplice e piccola come una bimba, la vita sarebbe ancora facile e bella come un tempo! Devo diventarlo: devo innamorarmi così di Colui che mi ama, da essere pronta anche a questo: diventare stolta, rinunciando alla mia personalità, alla mia facoltà di raziocinio, ad ogni lume umano». E così in quel 1947 comprende che, quando l’assalgono ondate interne di ribellione o la mente si perde in ragionamenti troppo umani a «fil di logica», deve porsi davanti a Dio nell’atteggiamento del bimbo che non sa o «in quello della sposa che ama e che crede». La sua maturità di trentenne la disturba: gli arabeschi del pensiero della sua fervida e attiva intelligenza la portano a farsi troppe domande e a volte il suo sorriso nasconde il turbamento di chi prende sul serio la vita: «Chi intravede ciò che passa dentro di me?» si domanda nel dicembre 1947, «Chi può scrutare l’abisso che si nasconde dietro uno scherzo o una frase buttata là come per gioco? Ma non è un gioco, no, il mistero della mia vita. È un tormento. Guai se continuo a scrutarmi con occhio umano! Dio, Dio della mia giovinezza, discendi ancora, rivolgiti ancora verso di me, come un tempo. È una pazzia la santità, è una pazzia il tuo amore, è una pazzia credere al tuo Vangelo? Ebbene, sarò pazza, ma voglio credere e amare fino alla fine [sottolineato]… Ego stulta propter Christum!». Allora Gian Paola aveva l’intenzione di farsi santa? A noi pare di sì per quella adesione alla pazzia di cui parla, per quella passione con la quale si rivolge al Padre. La sua sapienza, dice, è la sua stoltezza. Nel luglio del 1948 la luce di Dio largheggia su di lei e le ha «aperto i pascoli delle scritture» ed «Egli mi possiede e io lo possiedo. Non credevo fosse così bello avere 30 anni! È un possedere ed un essere posseduti, una stabilità nuova, calma, sicura. È inoltre la padronanza di sé, la consapevolezza di essere completa nel pensiero e nel carattere». È la sposa realizzata che parla, è l’identità pienamente trovata che si rivela a noi con la profondità di un cuore cristallino e trasparente che sale a Dio non attraverso cerebrali studi teologici, ma attraverso l’amore e i sentimenti più veri del suo umano sentire. E straripante è la sua umiltà: «Io non so se sono nella luce o nelle tenebre, se porto calore o gelo, se semino o la mia mano è vuota. Eppure il tormento della mia vita sterile, è placato nella certezza di una fecondità insondabile e vera che è oltre la carne e il sangue. La mia anima sta preparando un volto, non so ancora definirlo con una parola, o con un nome, ma sono certa di scoprirlo un giorno. Sarà il nome col quale Dio mi ha chiamato dal seno di mia madre, e in esso sarà sintetizzata la mia vocazione interiore e apostolica». Voleva giudicare cose e avvenimenti nella luce di Dio. Il 24 giugno 1949 (a cinque mesi dalla professione perpetua) la Madre Generale comunica a suor Gian Paola che è destinata alla Missione e nel suo taccuino spirituale lei comunica tre pensieri che le danno fiducia: è la festa del Sacro cuore e «A me che sono il minimo, è stata data la grazia di evangelizzare alle genti il mistero di Cristo»; è la festa di san Giovanni Battista: «il Precursore la cui figura mi è stata sempre tanto cara: vox clamatis… E poi l’introito: “Dal seno di tua madre io ti ho chiamato” come la mia predestinazione». Infine «Il babbo morto: oggi è la mia festa. Mi pare che lui sia venuto tanto vicino per farmi coraggio. Sarà con me…». La partenza è ormai prossima, siamo nell’ottobre del ’49 e lei, lapidaria, annota nel mese di ottobre, con quella semplicità che illumina grandi realtà esistenziali: «Fare tutto bene: sono le ultime cose che faccio. Come se partire equivalesse a morire». Muore Rita, definitivamente, e nasce Gian Paola che salta nel buio e si affida totalmente a Dio che ha «segnato le vie, i buchi, di questo mio esilio terreno: Tu, tu, non le creature, anche se apparentemente sono esse a segnarle… Tu e tu ancora ne raccogli il pianto. Oh Padre, vederti sempre così, curvo sulla tua creatura ad ascoltarne il pianto, a numerarne le lacrime». Sa di essere accompagnata attimo per attimo e a Mojwa il 2 aprile 1950 annota sul taccuino di aver già visto la sua missione, l’ambiente, la gente, il lavoro da svolgere e con accento sagace commenta: «Al solito, Egli mi prepara prima. Buon psicologo. Egli sa che alle situazioni e richieste improvvise mi ribello. Perciò mi fa sempre vedere prima ciò che vuole, perché abbia tempo a prepararmi l’anima alla nuova prova». L’umiltà è dote perenne e sorprende quando annuncia a se stessa: «Comportarmi in modo che gli altri non abbiano soggezione ad usarmi come vogliono». È poi bellissimo ritrovare lo slancio affettivo della sua adolescenza quando scrive lo stesso giorno: «Che gioia! Ho ritrovato il Signore con la freschezza del mio primo incontro con Lui a 14 anni! Dovevo fare tanto cammino per ritrovarlo! Ma ne valeva la pena» e come chi ha trovato la felicità ha paura di perderla così invoca: «Potessi, mio Dio, non perderti mai più». Dio solo, questo il pensiero ricorrente: «Lavoro… con la strana convinzione che tutto è secondario se non si cerca Dio per primo… Basta questo per una missionaria? Ma non sono religiosa, ossia di Dio, prima di essere missionaria? Dio, Dio conducimi nella verità». È un grido il suo. Scruta e indaga nella sua anima e con insistenza, siamo nel 1951, si propone di lasciarsi «espropriare» da tutti e da tutto «anche dalla matematica e dai fagioli, dagli insetti di cui mi devo occupare» cioè delle cose alle quali non è affatto interessata. Si lascia usare e vuole lasciarsi «sciupare da Dio». Pagine e pagine di colloquio con la propria anima e di domande a Dio e indaga su di sé come l’investigatore scrupoloso.
Nell’agosto 1953 per gli esercizi spirituali di Egoji Gian Paola afferma di non sussultare più alla parola «Sposa di Cristo» e di non più parlare di «tuffi in Dio» perché «Mi pare di vivere dentro tutto questo… non mi scappa più di dire che la vita è un nonsenso, perché Dio e l’Africa le hanno dato un senso infinito». Leggere le pagine di suor Gian Paola ci pare di assistere ad uno spettacolo di un’anima appagata del suo Dio e allora non sfoglia più libri in cerca delle parole che la conducano al Padre, non interpreta più con geniali spunti la Sacra Scrittura e «mi sorprendo a dire molti Rosari mentre un tempo uno mi bastava».
Ora gli esami di coscienza non li compie più ad un’ora fissa del giorno, le servono quelli fatti camminando per la strada, la sera al buio, sotto le stelle o in classe «mentre le ragazze mi guardano e io so che mi scrutano l’anima». I propositi sono quelli di sempre: fedeltà a Dio, obbedienza, bontà, «non ne vedo altri novi» e a volte le prende il desiderio di inginocchiarsi ai piedi di un sacerdote, per sapere se è nella verità, per essere sgridata «ma in Africa queste sono cose che capitano di rado, ed è bene che sia così, perché qui tutto si invischia di gomma e ci si attacca perdutamente». Gian Paola ha raggiunto i 40 anni e a Mojwa l’8 novembre 1957 sul taccuino scrive: «…ho scoperto con gioia che la mia vita vera a cui sono chiamata è sempre quella d’unione con Lui».
Continua a credere che Dio scrive diritto su righe storte, cercando per primo il Regno di Dio e la sua giustizia perché sa che tutto il resto «vi sarà dato in soprappiù». È strano vedere come sia progressivo, a mano a mano che gli anni passano, il suo interesse per Gesù Crocifisso e si fa presente «il desiderio di appassionarmi alla Croce» perché, comprende, senza l’approfondimento di questo mistero l’apostolato avrebbe il sapore del «dilettantismo». È l’albero della croce che dà frutti veri e salutari ed è per questo che fa entrare (agosto 1962) nella sua vita la Madonna Addolorata alla quale domanda di essere da lei accompagnata sulla via del Calvario «con lei voglio soffrire, con lei crocefiggermi alla Tua croce: il grande doloroso talamo dell’Amore».
È attratta dalla croce e ciò lo notiamo in più tempi della sua vita: non aveva forse scoperto in tutto il suo valore il concetto di sacrificio e di sofferenza sperimentato da suor Irene Stefani? A mano a mano che trascorrono i decenni Gian Paola si avvicina sempre più al mistero della croce ed è per questo che la figura di Madre Teresa Fasce, la monaca agostiniana del Novecento vissuta nel monastero di Santa Rita a Cascia e innamorata della Croce (beatificata il 12 ottobre 1997), negli ultimi anni la affascina in maniera del tutto singolare. Il 6 settembre 1964 scrive che le è stato detto di recarsi a Getoro, ma la direzione di ogni cosa è stata affidata ad un’altra, non a lei, lei dovrà solo collaborare e tutto ciò, ammette, le provoca grande sofferenza: «È come aver generato una creatura desideratissima e poi non poterla portare tra le braccia… vederla in quelle di un’altra che ne farà forse una cosa diversa da quello che avevi pensato o creduto bene… A tutta prima mi sono ribellata. Mi pareva impossibile che non si capisse l’assurdità di ciò che mi si sta chiedendo… Ho pianto la mia sofferenza».
Quando è già in Italia (è il 25 marzo 1970), Gian Paola con tristezza confida l’immenso dolore provato in quell’aereo che la portava via dall’Africa e poi «che cosa terribile questo ritorno senza mamma, senza più casa – senza neppure Fausta, perché è malata… con padre Giuseppe che invecchia, Rina vicina e lontana». E da queste righe comprendiamo tutta la fatica che Gian Paola ha dovuto superare per reinserirsi in Italia, una fatica spossante, logorante. Si sente amata nell’Istituto di Torino «tutti mi vogliono bene – troppo – Ho tutto quello che voglio. Ma sono così sola, perché non so dire nulla di me. So ascoltare: non so ricambiare le confidenze… Sento che non so esprimere, senza lasciar urlare l’anima; meglio tacere». Il destino di Gian Paola è stato spesso quello di disboscare, di aprire varchi, di preparare il terreno per altri e battere vie nuove «L’eterno mio destino di battistrada, di Giovanni Battista» e la fatica del «pagare di persona» è immensa. Ma è comunque in grado di scuotersi la polvere di dosso e rinnovarsi e ringiovanire. Il suo grido d’amore si fa alto e sublime: «Mio Dio, ch’io ti ami. Che voglia di te, di te solo. Come una volta. Come sempre. Di te, il Fedele, l’immutabile, mia Roccia e Speranza!». Gian Paola ha già sessant’anni (1977) e il suo canto d’amore si fa frutto maturo, radioso come grano al sole: «Il grano della mia spiga, i chicchi dei miei giorni – 60 per 360 – finalmente unificati/frantumati perduti/ in farina pura/ servono per una piccola ostia/una povera ostia/un poco di pane» ed è bello notare come, nel suo diario di viaggio spirituale, non ci sia più il bisogno di annotare tutti i pensieri e i propositi. Passano cinque anni prima di trovare altre sue meditazioni.
Dall’anno Santo 1983 (quarantesimo di professione), si passa poi direttamente al 1987, quando esprime la sua volontà di porsi sotto il giogo del Signore «proprio in questi tempi in cui i pesi si succedono ai pesi e le spalle sono stanche. Prenderlo però con Lui, aggiogta con Lui che è il più Forte – il forte – e che porterà anche il mio peso… Nella speranza in cui devo crescere [è stanca nel fisico, ma non è mai stanca di crescere dentro] in questo mio prossimo settantennio, con gratitudine per “ciò che è stato il mio ieri”, con fede tranquilla, per ciò che è il mio “oggi”; con speranza per quello che sarà il mio “domani”, se ci sarà ancora. Non c’è del resto nulla di “mio” – Cristo solo è ieri, oggi, domani. Cristo è la nostra Pace!». Potrebbero, con tranquillità, essere le riflessioni di una suora di clausura e invece è suor Gian Paola, apostola delle genti, la missionaria impavida che ora segue la mitezza e si ripete: «Beati i miti perché possederanno la terra». L’ultimo messaggio è datato gennaio 1992. Ormai si propone programmi a termini brevi «che possano essere interrotti serenamente al suo arrivo, ad ogni ora». L’arrivo di Cristo che giunge a prendere la sua sposa innamorata e fedele.