Verginità e sacrificio: due termini che nell'ottica cristiana assumono un significato fondamentale
Comunemente il termine verginità viene inteso in senso prettamente fisico, esattamente come il termine sacrificio viene caricato in primo luogo di un significato negativo. Ebbene, il cristianesimo ci insegna che ci sono delle altre accezioni con cui questi due termini possono essere intesi: mi riferisco alla verginità del cuore e al valore di cui è stato investito il sacrificio dopo la morte di Cristo.
Per cogliere il significato profondo di questi concetti è necessario, però, partire da un presupposto fondamentale: Cristo si è fatto uomo ed è morto per noi. Se non si ha ben chiaro in mente questo primo elemento da cui ha origine tutto, è impossibile capire quello che viene dopo. Infatti, se non ci fosse Cristo chi ce lo farebbe fare di guardare agli altri senza anteporre il nostro egoismo al loro bene, magari sacrificandoci anche per loro?
Ma andiamo con ordine. Dicevamo: Dio si è fatto uomo. Se si riflette seriamente su questa affermazione non si può che rimanere basiti: è una cosa che non ha eguali!
Come testimoniano le Sacre Scritture, durante gli anni che Cristo ha trascorso sulla terra ha proposto un modello di vita al quale ogni cristiano dovrebbe cercare il più possibile di conformarsi e che ha origine da un assunto fondamentale: “Ama Dio e il prossimo tuo come te stesso”. Gesù, infatti, ha dimostrato a tutti noi – sia nel corso della sua vita che nell’atto estremo della morte in croce – di concepire la propria vita “per il mondo, per il disegno di Dio nel mondo, cioè per tutti gli uomini” (L. Giussani, Si può vivere così, Milano, Rizzoli, p. 419). Anche a noi fedeli, gravati come siamo dalla nostra umanità, è chiesto di guardare agli uomini secondo il loro destino, che è primario ed è deciso da Dio. E’ il concetto di verginità del cuore: trattare il proprio prossimo come un re, anteponendo il suo bene al nostro egoismo ed egocentrismo. Naturalmente, ripeto, questo sguardo verso gli altri è possibile solo se siamo pieni di Cristo, perché la nostra indole ci spingerebbe, in prima istanza, a “possedere” l’altro, a primeggiare. In sostanza, quindi, la verginità non è altro che il culmine della carità e ha come effetto la gioia, perché ci permette di “affermare” l’altro, di vederlo inserito in un’ottica eterna.
Per guardare all’altro secondo il suo destino, però, è necessario compiere un sacrificio: bisogna, infatti, “sacrificare la reazione immediata, di piacere o di dispiacere, di simpatia o di antipatia” (L. Giussani, ibidem, p. 420). Anche questo passaggio del sacrificio sarebbe incomprensibile se non si avesse come punto di riferimento Cristo: se Dio non fosse diventato uomo, il sacrificio sarebbe una comportamento irrazionale, quasi “bestiale”. Il sacrificio cristiano è, in definitiva, l’accettare una Presenza che viene prima di noi e che è infinitamente grande: comporta l’affermare l’altro ancora prima che noi stessi.
Se nella quotidianità si riescono a vivere i due concetti cristiani di sacrificio e verginità, la prospettiva che si ha della vita cambia radicalmente. Si comincia a vivere con gli altri e con se stessi in una maniera molto più libera. Infatti, l’unico valore di riferimento nelle relazioni comincerebbe ad essere un amore gratuito e totalizzante, scevro da ogni qualsivoglia giudizio di merito o di opinione. Esattamente come non si sarebbe più costretti ad affannarsi per conseguire vani successi, perché si sarebbe consapevoli che è Dio che ci fa: è solo la verginità che può portarci a dire, assieme con Maria, “fa di me ciò che vuoi”, sacrificando la nostra umanità.
E poi, in conclusione, questo abbandono totale a Dio ci renderebbe enormemente più felici.
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