La prima riguarda la libertà religiosa e a tal proposito riprendo un intervento del Card. Herranz del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi che risale al 1 luglio 2004. La libertà religiosa si fonda, sia nella “Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo”, che nella Dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano II, sul concetto fondamentale di “dignità della persona umana”. Il Card. Herranz in quell'occasione si chiedeva se “si può ancora sostenere, come nel 1948 e nel 1965, il carattere universale del concetto di persona umana” e, citando Giovanni Paolo II nel discorso del 1995 alle Nazioni Unite, ricordava a tal proposito come “è motivo di seria preoccupazione il fatto che alcuni neghino l'universalità dei diritti umani, così come negano che vi sia una natura umana condivisa da tutti”. In sostanza - dice Herranz – c'è il pericolo che la “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” “venga progressivamente svuotata di autorità morale e di forza vincolante, a causa della crescente diffusione del pensiero filosofico e politico di individualismo libertario, o di matrice nichilista e agnostica”.
Questa preoccupazione non va mai dimenticata in merito al dialogo tra le civiltà, anzi - diceva il Cardinale - “con un falso concetto di libertà disgiunta dalla verità, tal individualismo libertario…nemmeno ammette l'esistenza di valori obiettivi e universali moralmente e giuridicamente vincolanti, tra i quali il retto concetto di “libertà religiosa” e il giusto esercizio di questo diritto”.
In questo contesto mi chiedo: quanto è facile confondere, a livello di opinione pubblica, il concetto di “libertà religiosa” con l'idea che tutte le religioni sono uguali? Può un incontro come quello di Assisi aiutare a diffondere un corretto concetto di “libertà religiosa”? Probabilmente sì, se non verrà interpretato come nel 1986. D'altra parte è vero che lo stesso Benedetto XVI ricordava proprio queste cose nella sua lettera nel XX dell'evento: “per non equivocare sul senso di quanto, nel 1986, Giovanni Paolo II volle realizzare, e che, con una sua stessa espressione, si suole qualificare come “spirito di Assisi”, è importante non dimenticare l’attenzione che allora fu posta perché l’incontro interreligioso di preghiera non si prestasse ad interpretazioni sincretistiche, fondate su una concezione relativistica.”
Una seconda considerazione riguarda una questione di buon senso. Indubbiamente la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede “Dominus Iesus”(2000), circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo, è un documento importantissimo e di cui ad un certo punto si sentiva la mancanza. Di questo documento occorre essere grati a Giovanni Paolo II e all'allora Card. Ratzinger. Il magistero dell'uno e dell'altro è certamente da considerarsi la chiave interpretativa ineludibile per comprendere la vita ecclesiale degli ultimi quaranta anni, inclusa ovviamente la fondamentale questione ermeneutica del Vaticano II. A proposito della “Dominus Iesus” mi chiedo però da quanti fedeli sia stata letta, in confronto all'impatto che un evento come Assisi 1986 ha avuto. Non sono un esperto di comunicazione, ma con il semplice buon senso mi pare di poter dire che la potenza di immagini e slogan mass-mediatici è molto più incisiva sulle menti e sul cuore delle persone di quanto non lo sia un discorso articolato, complesso e di non immediata reperibilità. La preoccupazione che abbiamo manifestato nell'appello al Santo Padre in sostanza riflette questa semplice considerazione, confido che gli organizzatori del prossimo incontro ad Assisi sapranno come difendersi da questo rischio.
Infine un apprezzamento per le parole dell'editoriale “Violenza polemica, profezia, laicità” pubblicato su “Il Foglio” del 13/01/2011 relativo ad alcune reazioni eccessive al nostro appello. Dico questo non per captatio benevolentiae, ma nel merito di un interrogativo davvero serio: “è legittimo avere un punto di vista difforme da quello corrente in materia religiosa, in ambito cattolico in particolare, quando questo punto di vista non sia modernista, ma tradizionalista?” Ancor più interessante poi è la constatazione del fatto che “la stampa occidentale – ma direi la cultura predominante in genere – tende a relegare in una specie di clandestinità le posizioni antisecolariste” che vengono a collocarsi fuori dall'orbita del politically correct intra ed extra ecclesiale. E' vero, purtroppo oggi esprimere una voce fuori dal coro significa “morte civile”, indipendentemente dagli argomenti e dalle ragioni che si portano. In ambito cattolico poi si pongono etichette con una certa facilità che avranno una loro immediatezza giornalistica, ma finiscono spesso per eludere l'argomento. Si fa presto a dire “tradizionalista” o “progressista”, purtroppo c'è molta confusione. Se essere “tradizionalista” significa battersi per un ritorno ad un sapere di “portata autenticamente metafisica” (Lett. Enc. Fides et Ratio, n°83) allora, con tutte le conseguenze teologiche del caso, io sono “tradizionalista”, se, invece, ciò significasse la semplice e confusa appartenenza ad un certo mondo culturale dai confini “liquidi”, allora non mi sento né “tradizionalista”, né tantomeno “progressista”.
Sinceramente sono profondamente devoto al papato e in particolare a Papa Bendetto XVI, la lezione di Ratisbona, con quel grande richiamo al rapporto corretto tra ragione e fede, è “lampada ai miei passi”, nell'ambito dei limiti personali con cui ogni cristiano tenta di combattere quotidianamente per cercare di non offendere il suo Signore e la Sua Sposa.
Link: per leggere l'appello vedi QUI, per leggere l'editoriale del Foglio del 13/01/2011 vedi QUI, un commento di Sandro Magister vedi QUI