Gianfranco Fini ha tentato di porre parziale riparo al grave smacco subito il 14 dicembre col fallimento alla Camera della spallata antiberlusconiana, accelerando il varo con Casini, Rutelli e (pare) Lombardo del cosiddetto “terzo polo”, che, forse per sfruttare gli echi risorgimentalisti del 150° dell'Unità, prenderà probabilmente il nome di Partito della Nazione.
Una formazione politica dalle prospettive piuttosto incerte e in ogni caso, anche a prescindere da Lombardo, confinato nel suo traballante feudo siciliano, con un numero di galli eccessivo per un pollaietto, anche se, per effetto di una sconfitta che è tutta sua, avendo solo sfiorato gli altri leader dell'opposizione, Fini, che contava di avere, di fatto, il ruolo di re del pollaio, vi entra invece alquanto spiumato e spennacchiato e consapevole (a meno che l'ambizione, come gli è troppo spesso accaduto, non lo acciechi una volta di più) di dovere lasciare, bene che gli vada, almeno per il momento la leadership a Casini, destinatario difatti di tutti gli appelli e di tutte le suggestioni provenienti tanto dalla maggioranza quanto dall'opposizione.
Il passaggio da erede di Berlusconi nella guida del PdL e, sperabilmente, del governo, a secondo uomo di Casini non è certo un successo per l'ambiziosisimo ex-leader di Alleanza nazionale, che comunque può accusare solo sé stesso e i propri errori. Tralasciando il giudizio sulla strategia, anche la tattica è stata sbagliata a cominciare dalla nomina a capogruppo alla Camera (con conseguente costante visibilità televisiva) di un energumeno vociante e indisponente della forza dell'on. Bocchino (non per nulla l'on. Moffa al momento dell'ultima esitazione sul suo voto in occasione della mozione di sfiducia ne ha chiesto la rimozione dall'incarico).
Per non parlare dei continui ammiccamenti a sinistra di un altro esponente di primo piano dei “futuristi”, l'on. Granata. In realtà Fini è alle prese con un insolubile problema di fondo. La sua lunghissima carriera politica (della quale è pressoché totalmente debitore alle ali protettrici della chioccia Almirante) lo costringe a rivolgersi pressoché esclusivamente ad un elettorato di destra, che nella massima parte lo sente ormai estraneo ai propri ideali o, forse più esattamente, ai propri sentimenti più profondi.
Del resto giustamente, perché, quale che sia la causa del mutamento (qualcuno lo attribuisce addirittura al suo ingresso nella famiglia Tulliani) Fini non è più un uomo di destra e lo ha confessato lui stesso quando, in un intervista in occasione di un convegno della Fondazione Adenauer ha detto:“La Patria non è quella degli avi, non è la terra natia, l'intimo della propria famiglia, non sono i valori della fede e della tradizione. Niente di tutto ciò. La patria è quella che uno si sceglie, il posto dove uno vuole andare a vivere”.
Ora è vero che le differenze fra destra e sinistra si sono molto attenuate, tuttavia, per quanto riguarda la gente comune assai meno di quanto credano politici e intellettuali e comunque permangono caratteristiche di fondo che più che della politica derivano dai cromosomi e dall'educazione che ciascuno riceve dalla natura e dalla propria famiglia.
Ora ha certamente ragione Marcello Veneziani ad individuare l'essenza di ogni persona definibile di destra nel suo “credere molto alle radici, ai valori di un radicamento”. Fini non ci crede più e, soprattutto, ha avuto, per un politico, il torto di farlo vedere. Probabilmente non ha potuto evitarlo per assicurarsi, in Italia e all'estero, altre sponde e altre amicizie, che ha ritenuto indispensabili per realizzare i suoi ambiziosi progetti dopo avere bilanciato il peso dell'amicizia di questi potenti con le simpatie e i consensi dei suoi seguaci in patria, magari contando di riuscire a mantenerli nell'antica illusione di una non più esistente comunanza di sentire. Forse una volta di più ha sbagliato i conti.(Da la voce della Romagna)