Tra le tante ragioni per cui rattristarsi del divorzio, introdotto del nostro ordinamento quarant’anni fa esatti, ci sono in primo luogo gli effetti che questo istituto ha prodotto nel tessuto sociale. Si fa un gran parlare di libertà e di conquista civile, ma quasi nessuno osa soffermarsi, al di là della retorica, sui benefici che l’introduzione del divorzio avrebbe concretamente apportato. Forse perché non ce ne sono stati. Forse perché col pretesto di evitare matrimoni lunghi ma "infelici", si sono penalizzati tutti i matrimoni, mettendo in soffitta il valore dell’indissolubilità e favorendo la diffusione dell’“usa e getta” anche tra i sentimenti.
Con risultati pessimi, come dimostra l’incremento spaventoso del numero dei divorzi: nel 2008, secondo l’Istat, in Italia sono stati 54.351, mentre dieci anni prima erano 27.038, meno della metà. Il danno sociale del divorzio, quindi, sta prima di tutto nella mentalità - a dir poco devastante - che ha contribuito a diffondere; quella per cui amarsi per sempre è un rischio, e se qualcosa non fila per il verso giusto, tanto vale ricominciare daccapo con qualcun altro, e non perdere tempo nel cercare di venirsi incontro, nel riscoprire le ragioni originali dello stare insieme, nel mettere nuovamente al centro la scommessa di potersi amare ancora. Il progressivo accorciamento della durata dei matrimoni, purtroppo, dimostra che non si tratta nemmeno più di una mentalità, bensì di una tendenza.
Legalizzare il divorzio non è servito nemmeno a contrastare la violenza nella coppia. Perché non prevedere, dicevano allora i divorzisti, la possibilità della rottura di un’unione quando questa risulti contrassegnata da violenza o abusi? Osservazione legittima, che però confonde i termini del discorso. Se infatti il problema è la violenza o il malessere all’interno di alcune coppie, il contemplare a livello legislativo la possibilità del divorzio non può prevenire né arginare il fenomeno, mentre rischia di favorirlo perché mette coloro che hanno dei dubbi - o anche solo dei presagi sfavorevoli - circa la stabilità e l’equilibro della propria relazione nella condizione di tentare comunque di sposarsi, perché “tanto, al limite, c’è il divorzio”.
Dicendo questo non si intende esprimere alcun giudizio sulle persone, sia chiaro, ma solo sottolineare come introdurre il divorzio sia stato un passo falso, inutile e pericoloso, come documenta il preoccupante aumento di violenze all’interno della famiglia. Mentre, quarant’anni dopo, se davvero il divorzio fosse servito in qualche modo a debellarle, esse avrebbero dovuto essere pressoché estinte. Un altro aspetto decisamente negativo del divorzio, riguarda gli effetti che questo produce sui bambini. Effetti gravissimi. Basti ricordare che una ricerca eseguita sui bambini dell’asilo ricoverati negli ospedali di New Orleans negli anni ottanta, quali pazienti del reparto di psichiatria, ha rivelato che nell’80% dei casi la patologia era originata dall’assenza del padre” (Jack Block et al., Parental functioning and the home environment in families of divorce, in «Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry», 27 (1988), pp. 297-213).
Oppure che i bambini con un solo genitore hanno il triplo di probabilità, rispetto agli altri, di andare male a scuola, il doppio di contrarre malattie psicosomatiche, di avere la depressione, di avere problemi relazionali (Sweeting, H. - West, P. - Richards, M. Teenage Family life, lifestyles and life chances, in «International Journal of Law, Policy and the Family», 12 (1998), pp. 15-46; Mauldon, J. The effects of marital disruption on children’s health, in «Demography», 27 (1990), pp. 431-446). Altre ricerche condotte in America hanno messo in luce come il 63% dei suicidi in età giovanile si sia verificato in famiglie col padre assente (Cfr. David A. Brente et al., Post-traumatic stress disorder in peers of adolescent suicide victims, in «Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry», 34 (1995), pp.209-215).
Se questi sono i rischi della salute dei figli di chi divorzia, non se la passano bene nemmeno coloro che, la rottura matrimoniale, la vivono in prima persona: dai dati di un’indagine effettuata dall’Istat negli anni 1987-91 sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari si rileva come il tasso di morbilità cronica per disturbi nervosi dei divorziati sia il doppio di quella dei coniugati, con un valore del 62,2‰. I divorziati, inoltre, fanno maggiore ricorso a farmaci antidolorifici e antinevralgici - 119‰ rispetto ai 106‰ dei coniugati -, di tranquillanti e antidepressivi - 48‰ rispetto 39,5‰. Altre ricerche, eseguite sempre in Italia, hanno messo in luce una differenza consistente per quanto riguarda i ricoveri classificati come disturbi psichici di cui soffre il 7,7% dei divorziati ricoverati, rispetto allo 0,8% dei coniugati.
I numeri, come si dice, parlano chiaro anche se, a ben vedere, è sufficiente il buon senso per capire come quarant’anni di divorzio siano una ricorrenza piuttosto avvilente. Ci vorrebbe il coraggio, a livello istituzionale, di tornare davvero a scommettere sul matrimonio. Tralasciando, se possibile, le polemiche e tenendo a mente, come ha detto un saggio, che «in tutti i matrimoni che hanno più di una settimana, ci sono motivi di divorzio. Il segreto sta nel trovare, e nel continuare a trovare, motivi di matrimonio».