Fratel Silvestro, la vite di Dio
Di Cristina Siccardi (del 23/11/2010 @ 11:33:43, in Letteratura, linkato 1805 volte)

L'avventura di un missionario italiano, fratel Silvestro Pia (1920-2003), dei Fratelli della Sacra Famiglia, innamorato di Dio e dell'azione apostolica della Chiesa. Nel 1958, assieme a due confratelli, è inviato dalla Congregazione in Africa. Nel 1966 fonda a Goundì, in Burkina Faso, il Centro di formazione agricola e di accoglienza dei giovani abbandonati o orfani. Fratel Silvestro, come scrive l'Autrice del volume, è stato un "uomo d'azione e di lavoro, uomo di preghiera e di contemplazione. Un uomo di pace, della vera pace... Un uomo che si è lasciato consumare dall'amore, dalla carità, dall'agape". Un libro che guida il lettore nel profondo dei sentimenti, della fede e dell'opera di quest'umile missionario delle Langhe.

1. Dalle Langhe al deserto

Occhi neri, penetranti, intensi, accesi e mobilissimi, da furetto. Profondi solchi su una pelle macerata e arata dal sole, dalla terra, dalla fatica e dalla sofferenza. Grandi orecchie e labbra sottili, sorridenti. Sempre pronto all’incontro, alla condivisione, alla partecipazione, al soccorso. Quando parlava di Dio o dei poveri teneva spesso l’indice sollevato. Aspetto semplice, umile, da contadino. Aria smarrita, stupita, con una forza d’animo impressionante ed una tenacia smisurata, dettata da una fede incrollabile. Magro come un fuso, quasi arso da una siccità corporea, talloni screpolati dentro sandali scassati e polverosi. Innamorato di Cristo, della Madonna, della Sindone. Mani grandi, nevrili, nutrite di lavoro e di amore, mani in grado di lenire, di alleviare, di guarire… Mani inchiodate alla Croce, quella Croce che ha sempre portato dentro di sé: «Qu’il est beau de mourir quand on a vécu sur la croix»[1], abbiamo trovato scritto di suo pugno su un’immagine raffigurante il volto di Cristo sofferente che custodiva nel suo breviario. Era il breviario di Fratel Silvestro Pia. Breviario e Croce, Croce e breviario i suoi compagni inseparabili. L’uomo del Piemonte, dalle idee chiare, precise, forti, dall’animo gonfio di carità, è stato salutato, per l’ultima volta, nel gennaio del 2003, da una folla grandiosa, eterogenea, variopinta e da tutti i suoi ragazzi che hanno reso omaggio ad un padre che li aveva sollevati dalla sofferenza migliaia di volte e per quarantacinque anni di seguito. I «notabili» in prima fila, gli uomini con lo sguardo attento, molte donne con il capo coperto e chino, i giovani seduti a terra. Qualcuno traccia segni sulla sabbia, altri sussurrano parole, qualche mamma allatta il proprio piccolo e, più in là, sotto il sole, un asino e delle pecore pascolano tranquillamente. Una tortora emette suoni dal ramo di un mango.

Poi domina su tutto la voce di Fratel Silvestro: è una registrazione di un incontro di preghiera con i suoi giovani. È un momento toccante, particolarmente forte e sono in tanti a piangere. L’uomo che aveva fatto crescere gli alberi e i frutti e le verdure e l’uva nell’arida terra africana, l’uomo che aveva portato il verde, la speranza, la rinascita nei corpi e nei cuori del Burkina Faso, non c’è più. «Lo stregone bianco» che rendeva fertile la sterile terra, che assisteva i bisognosi, che curava i lebbrosi, che formava giovani contadini, che dava lavoro ai poliomielitici, che battezzava e portava Cristo alle genti… e ancora scriveva, al lume della lampada a petrolio, fino a notte fonda, lettere in tutto il mondo per chiedere aiuti economici e per soffiare nel vento mille parole di conforto, di amore e di pace, non c’è più.

Tuttavia c’è tanto sole in questo 1° febbraio del 2003 a Goundì e il sole più forte proviene dalle persone che al passaggio della bara, lungo la strada che conduce da Koudougou a Goundì, ripete: «Dai Silvestro, se l’acqua si compra a 5 franchi, che tu possa bere gratuitamente»; «Bravo Silvestro, che la terra d’Africa, la terra dei nostri antenati, ti sia leggera». Lo segue un corteo di automobili, di motorini, di biciclette, di persone. Ad un chilometro dal centro della missione, si forma un gruppo che danza, canta, lancia grida benauguranti al ritmo dei tam-tam, dei flauti e delle calebasse. A Goundì, il suono del tam-tam risuona fino alla veglia di preghiera: dalle ore 20 alle 6,00 del mattino seguente. La popolazione di Goundì aveva scavato la tomba, nella terra adiacente alla cappella della missione. Dopo la sepoltura, vengono collocati una sua fotografia, un ramo d’orchidee ed un crocifisso. «È la Croce per tanta gente», aveva detto Fratel Silvestro il 19 novembre 2002, «Questa sofferenza salverà l’umanità. È l’ora della sofferenza, del Crocifisso: Cristo soffre con noi. Non si pensa abbastanza a questo compagno dolente che abbiamo accanto. È lui che valorizza tutta la nostra sofferenza. Quando la Croce mi opprime penso alla Croce di Gesù e il coraggio ritorna» e poi «Il Signore ci manda la Croce. La sofferenza riscatterà l’uomo».

Considerava il dolore dei suoi figli africani un mezzo per salvare tante anime e si beava quando vedeva pregare la sua gente, una preghiera convinta, concentrata, vera, capace di sollevare il mondo nella stessa misura della preghiera delle monache e dei monaci. Fratel Silvestro era figlio di una numerosa famiglia di viticoltori, gente con tanta voglia di lavorare. Era nato a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, il 26 ottobre 1920. Guarda caso nel mese missionario. Era stato battezzato con il nome di Ettore. I primi undici anni li trascorse in famiglia fra vitigni, scuola e parrocchia. Acquisì tutte le caratteristiche langarole: amore per la terra, attitudine alla coltivazione, senso del dovere, propensione al sacrificio. Fin da ragazzo, caratteristica che sempre manterrà, sapeva cogliere le occasioni per sorridere e si distingueva per quel suo muoversi in mimiche facciali simpatiche e accattivanti. Santo Stefano[2] è disposto sui due lati del fiume Belbo, fra il Monferrato e le Langhe. La parte più alta dell’abitato conserva ancora tracce del suo passato storico, come i ruderi dell’antica Abbazia di San Gaudenzio, dove papa Innocenzo IV sostò nel 1244, e la torre medioevale, unico residuo dell’antico castello distrutto nel 1635 dagli eserciti spagnolo ed austriaco. L’Abbazia di San Gaudenzio [3] risale al X secolo ed oggi è incorporata in un edificio privato. Essa sorge lungo la riva sinistra del Belbo.

Fu innalzata su di un tempio romano preesistente, come testimonia una stele funeraria che adorna l’attuale facciata. I luoghi più conosciuti di Santo Stefano Belbo sono quelli cosiddetti «pavesiani»: paesaggi e località resi celebri dallo scrittore nei suoi romanzi e nei suoi racconti. Così scopriamo la casa Museo di Nuto Revelli, che Pavese descrisse come «il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo». Un altro edificio, meta continua di visitatori, è la casa contadina dove nel 1908 nacque Cesare Pavese, peraltro molto amato e stimato da Fratel Silvestro Pia. Dal 1914 al 1947 è di proprietà dei Padri Giuseppini che la trasformarono in collegio. La Casa di Pavese conserva la caratteristica struttura della cascina d’inizio secolo, con quattro camere disposte su due piani, divise da una scala[4]. In viale San Maurizio si trova la sede del Centro Studi Cesare Pavese dove, oltre ad una fornita biblioteca, si trova una mostra documentaria permanente sulla vita e l’opera dello scrittore piemontese. La valle del Belbo ha ispirato lo scenario naturale di alcune fra le principali opere letterarie di Pavese: il paesaggio dell’infanzia, il palcoscenico straordinario delle vigne e delle colline, i colori e i sapori di questa meravigliosa terra dove nasce il Moscato, dove si svolge la tradizionale fiera di San Rocco con i suoi falò (accesi lungo la dorsale delle colline che giungono a Moncucco) e la settembrina festa dello spumante. Torna alla mente, dunque, il più famoso romanzo pavesiano, La luna e i falò, vicenda ambientata nell’area geografica fra Santo Stefano e Canelli. È stato proprio grazie a Cesare Pavese che questo luogo, celebre per i prodotti del lavoro della sua gente, è uscito dai suoi confini per trasformarsi in simbolo di riferimento culturale e letterario[5], nazionale e internazionale.

Ottantaduenne, Fratel Silvestro così esprimeva agli «Amici di Pavese», il suo amore per il grande scrittore compaesano (Goundì 3 dicembre 2002): «Grazie per la vostra così bella e interessante rivista “Le colline di Pavese”. Mi fa molto piacere leggere i bei articoli, così ben fatti e molto interessanti, che toccano un po’ tutti i settori della nostra bella Langa. Dio ci ha dato delle belle meraviglie che non sempre si valorizzano. Anche il nostro caro Pavese è un dono di Dio, che non sempre si valorizza». Fratel Silvestro, dal Burkina Faso, pensa al valore umano e letterario dello scrittore piemontese. Il suo animo raffinato tocca il cuore di chi lo legge: «Certo che era un carattere un po’ melanconico. Forse siamo noi un po’ colpevoli nel non apprezzarlo e amarlo con una giusta misura. Per me, non si è sentito abbastanza amato, era troppo sensibile. Ma Dio è buono, ha dovuto fargli una buona accoglienza alla morte per il bene che ha fatto con i suoi meravigliosi scritti. Lui amava la Natura; dunque amava Dio.

Dio lo si trova in modo particolare nella Natura. Si può dire che la Natura è Dio». Ora è il mistico Silvestro, l’uomo avvezzo a parlare del Signore e con il Signore, che afferma: «Cristo mi diceva: “Dietro ogni fiore, ogni foglia c’è il mio animo”. Cesare amava Dio. C’è pure un bravissimo signore, amico mio, di Abbiategrasso (MI) che, ogni volta che mi scrive, mi scrive in poesia, è un grande ammiratore di Pavese ed è già venuto parecchie volte in pellegrinaggio a Santo Stefano Belbo». Da notare la definizione «in pellegrinaggio», dimostrando così che Fratel Silvestro aveva non solo rispetto, ma «culto» per le persone, ognuna aveva in sé la sacralità di Cristo perché, come sostiene san Paolo, l’uomo può, se vuole, essere tempio di Dio.

E prosegue: «Pavese aveva un cuore grande: un grande amore verso Dio, perché amava la Natura e il prossimo. È forse l’amore del prossimo che gli è mancato. L’uomo ha bisogno di essere amato e compreso! Ma Dio l’ha amato e compreso; anche voi state amandolo e comprendendolo. Mi felicito. Quel che ci manca oggi è quest’amore dell’uomo, lo vediamo e constatiamo tutti i giorni». Nel 1932 Ettore Pia si reca a Chieri dai Fratelli della Sacra Famiglia, dove prosegue gli studi e dove matura l’idea di farsi religioso. «Da ragazzo, nei momenti di ricreazione», racconta Fratel Angelo Raimondo che fu suo amico ed oggi ci racconta con affetto la straordinaria vita del suo amato confratello, «nei momenti di ricreazione non si lasciava affascinare dal gioco individuale o di squadra. Aveva sempre qualche cosa da fare: era sempre a disposizione del superiore o dell’assistente, pronto a qualsiasi lavoro extra o normalissimo.

Dava l’impressione di non aver tempo da perdere». E i ricordi proseguono: «Negli ultimi mesi di guerra, quando i caccia inglesi spadroneggiavano nei nostri cieli e prendevano di mira persone o macchine in movimento, Silvestro non rimaneva tappato in casa, si dedicava con passione alle sue colture, e non si arrendeva se non quando il rombo degli Spitfire diventava troppo minaccioso e solo allora si mimetizzava tra i filari o nel verde tenue degli asparagi». Il 9 marzo 1939 emette i primi voti come Fratello della Congregazione religiosa laicale fondata nel 1835 dal venerabile Gabriele Taborin (Belleydoux, 1° novembre 1799 - Belley, 24 novembre 1864)[6].

Completa i suoi studi e gli vengono affidate mansioni all’interno e all’esterno della comunità. Non era portato alla teoria e alle discipline astratte. Era un giovane pratico, concreto, un gran lavoratore. Non ha perciò conseguito lauree; ma ebbe comunque l’occasione di svolgere l’attività di maestro al Collegio Sacra Famiglia di Torino quando per un trimestre fu chiamato a sostituire in seconda elementare Fratel Raimondo, assente per malattia. Afferma quest’ultimo: «La figura di Fratel Silvestro sta a dimostrare che nel lavoro per il Regno di Dio possono contare studi, conoscenza, cultura ma contano soprattutto passione, abnegazione-altruismo, fede e fiducia in Dio e soprattutto uno smisurato amore per il prossimo, visto come immagine di Dio, in particolare per il povero e il diseredato, dal volto sfigurato dalla sofferenza, come quello del Maestro crocifisso. Defunctus adhuc loquitur, soprattutto additandoci la fede intesa come fiducia e la grande povertà che lo teneva vicino al Cristo in croce e ai fratelli crocifissi».

Questo operaio nella Vigna del Signore trascorre poi alcuni anni in Francia dove accresce la sua formazione. Qui ha modo di conoscere più a fondo Taborin ed entra perfettamente nel carisma e nella spiritualità del suo fondatore. Si racconta che il Padre fondatore della Sacra Famiglia, trovandosi in ristrettezze economiche la sua Comunità, decise di allungare abbondantemente con acqua il vino. Un episodio che si ripeterà con Fratel Silvestro quando, nel tempo in cui ricoprirà la carica di economo, senza alcun rimorso, colmerà gli otri con acqua di fonte. Fratel Silvestro, che ha appreso alla Scuola di Fratel Gabriele, chiamato la «Tonaca senza prete», l’amore di portare Cristo alle genti, ha la vocazione per la missione e con sua grande gioia gli viene domandato di partire il 3 ottobre 1958 per l’Alto Volta, oggi Burkina Faso[7], con altri due confratelli (primo insediamento della Sacra Famiglia in Africa). Qui diventerà pioniere missionario, avviando un progetto di promozione umana sociale e religiosa. «La mia vocazione?», dirà un giorno ad alcuni giovani che gli posero delle domande a Villa Brea, sede della Sacra Famiglia in Chieri, «Non sono io che me la son messa nel cuore, è il Signore che l’ha data, è un dono di Dio la vocazione, è una chiamata. San Giovanni Bosco diceva che il 95 % dei giovani ha la chiamata nel cuore, ma ordinariamente questa è soffocata da tante cose, generalmente è soffocata dal benessere e dalla poca corrispondenza che abbiamo verso il Signore. Bisogna fare attenzione perché il male si serve del benessere per distogliere l’uomo da Dio. Benessere, ricchezza; guardate: la ricchezza è lo strumento con cui il diavolo ha allontanato l’umanità dal Signore. È terribile. E l’uomo ne ha fatto il suo dio. Con la ricchezza l’uomo non pensa più a Dio, non pensa più, non si pensa, siamo allontanati da Dio e allora quando uno è in una nebbia fitta, fitta non vede più la sua strada».

Fino al 1965, secondo le indicazioni e lo spirito del fondatore dei Fratelli della Sacra Famiglia, si occupa dei giovani e delle famiglie, realizzando alcuni brevi viaggi ricognitivi per comprendere la realtà del Paese, con particolare attenzione al territorio e alle attività agricole, in vista di un riscatto dell’uomo e della nazione. Nel 1966, per favorire uno sviluppo socio-economico nella lotta contro la fame, Fratel Silvestro viene incaricato di erigere un Centro pilota con indirizzo ortofrutticolo. Tanto coraggio, tanta voglia di fare, molta competenza, sono gli ingredienti utilizzati da Fratel Silvestro per portare a compimento questa impresa che servirà come modello per la popolazione locale e per le stesse autorità governative. Mago agricoltore, sapeva praticamente tutto dei segreti della terra e da essa riusciva a trarre il più e il meglio. Goundì, villaggio a pochi chilometri da Koudougou, è la destinazione di Fratel Silvestro.

Lui non ha problemi di sorta. Abbraccia la povertà con lo slancio dell’uomo libero, perché spogliatosi di tutto: la missionarietà e la carità scorrono nelle sue vigorose vene e non impara ad amare i poveri, li ama già. Il paesaggio di Goundì è caratterizzato dalla savana, in parte erbacea, in parte arborea. Il clima è sudanese di tipo tropicale, con una stagione molto secca (da novembre a maggio) ed una stagione delle piogge (da giugno a ottobre); stagioni che condizionano e regolano tutte le attività della popolazione. La vegetazione è varia. Si possono trovare il gigantesco baobab (ritenuto benefico e anche sacro), il formagere o lapok (che produce una lanugine), il karatè (dal cui frutto si ricavano burro e sapone), il neré (i cui baccelli sono utilizzati come condimento nelle salse), il tamarindo, ma anche acacie, mimose ed alberi da frutta come il mango, la papaia e l’anacardio. I principali prodotti agricoli sono: il miglio, che costituisce la base dell’alimentazione dei gourounsi, il sorgo, il mais, l’arachide, l’igname, il sesamo.

Nella stagione secca si riescono a coltivare ortaggi come il pomodoro, le cipolle, i cavoli, le melanzane, i fagioli ed una specie di grosso pisello. L’allevamento si basa sui caprini, i maiali e gli animali da cortile. Nei limitati e fangosi bacini d’acqua si pratica una misera pesca e in queste acque vivono anche i caimani. L’artigianato è poco sviluppato e si basa sulla falegnameria, la carpenteria, la saldatura, la tessitura con telai a mano. La popolazione è suddivisa per clan e vive in gruppi familiari e in «concessioni», un insieme di abitazioni e granai in terra cruda, raggruppati e chiusi verso l’esterno. Al centro dell’area abitativa, cioè nella corte, si svolgono praticamente tutte le attività quotidiane delle persone e qui si tengono anche le principali cerimonie previste dalla tradizione[8] della comunità dove è tuttora presente e vivo un forte legame con la terra e gli antenati, un costume che continua a scandire i ritmi della vita di ogni giorno. Normalmente un gruppo familiare è costituito da più famiglie legate da parentela e composto da circa 15-20 persone. Il 60 % è in età di lavoro (dai 10 anni in su) e di essi oltre il 50 % sono donne[9].

Lascia scritto in uno dei suoi molteplici messaggi, illuminanti ed invitanti, che abbiamo spigolato qua e là e che non conoscevano né ipocrisie, né edulcorazioni di sorta; la medicina amara ed evangelica arrivava dritta al destinatario: «Voi offrite un digiuno nel breve periodo della Quaresima, ma quanti milioni di uomini, soprattutto bambini, digiunano per lunghi mesi! Parlo di gente che mangia, quando può e non sempre a volontà, al massimo una volta al giorno. «Gente che ha fame, tanta, da morire. Polenta e frittelle di miglio, qualche arachide, alcune foglie di radici… Costituiscono la loro principale fonte di alimentazione. Disgraziatamente non ce n’è sempre. «Un giorno il capo villaggio di Goundì, mi chiama perché saluti e battezzi la sorella lebbrosa che sta per morire. Accorro. Le parlo di Dio, della Madonna… Lei ascolta, sorride… Poi con un filo di voce: “Mi porti della farina, tanta farina…”. Sì, le ho portato farina, olio, una coperta nuova… «Come dimenticare quella richiesta estrema, quel grido di una vita passata nella fame, negli stenti, nella sofferenza? «Come dimenticare quella donna con tre bambini aggrappati alla gonna che mi supplica di darle un po’ di miglio perché, lei e i suoi, stanno per morire di fame? «Le riempio un sacchetto di miglio, mi ringrazia con ampi gesti, mi saluta con uno sguardo radioso… riprende la strada. «Poco dopo, vengono a dirmi che è morta di fame prima di arrivare a casa sua».

In una radura ai margini della savana, Silvestro costruì, in meno di due anni, un agglomerato di sei piccoli edifici che costituivano la sua missione: una comunità di accoglienza e di lavoro. Il corpo centrale era un basso fabbricato che aveva per tetto delle semplici assi poste l’una accanto all’altra, senza nessun’altra copertura. Al suo interno c’era un cucina, una camera usata come infermeria e una stanza-magazzino dove Silvestro dormiva. Alle spalle dell’edificio centrale c’era un fabbricato più piccolo, composto da tre stanzette destinate agli ospiti. Sul davanti, nei pressi della recinzione, aveva eretto con amore una piccola cappella. Sul lato opposto, c’era invece la «casetta-laboratorio», con dei piccoli telai che Silvestro aveva costruito per insegnare ai ragazzi poliomielitici a tessere filati e tessuti. Dietro a questi edifici, ai margini della savana, si trovavano la casetta per gli attrezzi, il pollaio, gli orti, il frutteto e la vigna, tutti in uno spazio ordinato e ampio che Silvestro aveva sottratto all’aridità di una durissima terra.

Fratel Silvestro amava scrivere: lettere, appunti, meditazioni, preghiere, riflessioni, dove Cristo e Maria erano sempre al centro dei suoi pensieri, come del resto erano al centro delle sue azioni. Qualsiasi foglio, foglietto o pezzettino di carta erano utili per scrivere le sue considerazioni, le sue esortazioni, i suoi consigli… insomma, tutto ciò che gli sgorgava dal suo paterno e straripante cuore. Maturava pensieri, colloquiava con Cristo e Maria Santissima, dialogava con l’Altissimo, pertanto soliloqui e dialoghi venivano impressi sulla carta, ma anche monologhi di Gesù, e noi oggi possiamo così leggerli, meditarli e goderne. Recitava il Padre nostro riflettendo parola per parola, indicandola come preghiera che unisce nello stesso spirito i fratelli in Cristo: «Padre nostro! E ci ha dato la grazia di esserci Padre; per amore ci ha creati, ci ha tratti dal Suo amore per portarci nell’amore! «Padre nostro! Sei nei Cieli e ovunque perché tutto ciò che è armonioso, buono, bello, santo, è opera tua. «Dacci la forza d’essere sempre nel giusto e questo avverrà se il pane dello spirito sarà per noi forza e salvezza. «E dacci la tua Provvidenza divina affinché noi possiamo meglio passare dal mondo in pace con Te… Aiutaci Padre, ad essere buoni e leali, fa’ che non dobbiamo avere bisogno d’essere perdonati, col tuo aiuto rendici forti per sapere perdonare. Fa’ che non ci tenti il maligno! Noi con la volontà nostra, Tu col Tuo aiuto divino. «Sia santificato il Tuo nome attraverso le opere sante dell’umanità in grazia. «E venga sulla terra il Tuo Regno di grazia. «Sia fatta la tua volontà. La tua volontà è la più giusta: tu conosci e sai ciò che per la mia anima è bene. «Pregatemi per coloro che non mi sentono! E se confidate in Me molte anime mi saprete portare». E Fratel Silvestro di anime al Signore ne porterà in abbondanza.

[1] “Quanto è bello morire quando si è vissuti sulla croce”; [2] Il nome del protomartire, frequente in numerose località del Piemonte, caratterizza molte istituzioni monastiche che nel Medioevo vennero intitolate al santo. Santo Stefano Belbo fu concesso da Ottone I ad Olderico Manfredi nel 1001 e appartenne a Bonifacio del Vasto che lo lasciò in eredità ai figli, marchesi di Busca e di Saluzzo. I primi cedettero una parte al comune di Asti, donando il rimanente ai marchesi del Monferrato. Successivamente vi ebbero giurisdizione i Del Carretto, gli Incisa e i Corti. Nel 1613 il territorio di Santo Stefano passò a Casa Savoia; [3] La chiesa abbaziale di San Gaudenzio, di probabile origine benedettina, ma dichiarata extra usum religiosum dal 1891 e destinata ad uso privato, si presenta con una navata centrale terminante con un’abside semicircolare che sovrasta le due absidiole laterali e reca un arco trionfale; [4] Al piano superiore della casa di Cesare Pavese è allestita una mostra fotografica permanente nella quale sono esposti alcuni manoscritti pavesiani. Molto interessante è l’allestimento della cantina, dove sono sistemati attrezzi agricoli ed enologici di un tempo; [5] Il fortunato connubio fra produzione letteraria e produzione enogastronomica è evidente nel decennale sodalizio maturato fra «Gli amici del Moscato» e la casa natale di Pavese, dove qui l’ente enologico ha la propria sede sociale con lo scopo di valorizzare, in un’ atmosfera dal sapore culturale e letterario, il vino Moscato, principale attività produttiva dell’area collinare santostefanese; [6] Quando nacque Gabriele Taborin stavano per terminare i giorni dell’infausta Rivoluzione francese, conclusasi con il colpo di Stato del 9 novembre (18 brumaio ) 1799, portando Napoleone Bonaparte all’autoproclamazione di Primo Console. Settimo ed ultimo figlio di Claudio Giuseppe Taborin e di Maria Giuseppina Poncet-Montange, Gabriele fu un precoce chierichetto, crescendo nell’attenzione scrupolosa per le funzioni liturgiche. Amava tutto ciò che riguardava la Chiesa, la preghiera e la devozione alla Vergine Maria. Si mise al servizio della sua parrocchia come sacrestano, catechista ed insegnante. Resosi conto che, usciti dalla Rivoluzione francese, dilagava l’ignoranza e grande disordine morale e religioso, egli volle cercare di essere attivo e disponibile strumento di bene e di rinascita. Gabriele Taborin lasciò Belleydoux e si recò nel vicino capoluogo di St.-Claude, dove diede inizio ad un’esperienza di vita comune, secondo la sua spiritualità e, sostenuto da alcuni sacerdoti, chiamò il neogruppo «Fratelli di San Giuseppe». Esso era composto da cinque giovani, i quali nel 1824 vestirono l’abito religioso, assumendo il compito di servire nella chiesa cattedrale e di gestire una scuola a St.-Claude, con il permesso del vescovo monsignor de Chamon. Ma l’esperienza durò poco, in quanto le difficoltà fecero naufragare il tentativo, per cui i giovani si dispersero e Taborin andò dai Fratelli della Croce di Ménestruel e, in qualità di catechista, a Châtillon-des-Dombes. Era il 1827 quando, nella canonica di Genay, Taborin incontrò il vescovo di Belley, Alexandre-Raymond Devie, al quale espose i propri disegni per il futuro, ne ebbe incoraggiamento e aiuto. Così gli fu possibile aprire un convitto a Belmont nella diocesi di Belley e poi nel 1835 si raccolsero i primi novizi del nuovo Istituto dei Fratelli della Sacra Famiglia. Tre anni dopo si ebbero le prime tre professioni, mentre il venerabile pronunciò i voti perpetui. Nel 1840 lasciò Belmont per Belley, dove fu apostolo instancabile fra i giovani e guida della sua Istituzione fino alla morte, sopraggiunta il 24 novembre 1864. Il primo decreto per la sua beatificazione risale al 13 giugno 1966 e il 14 maggio 1991 è stato dichiarato venerabile. Gabriele Taborin, aveva i titoli accademici per l’insegnamento elementare, ma era fondamentalmente autodidatta, rimase un Fratello laico e fu in grado di reggere una famiglia religiosa. Si recò a Roma due volte e nel 1841 ottenne da papa Gregorio XVI l’approvazione della sua fondazione. Nel 1854 aprì una missione nel Minnesota, negli Stati Uniti, (poi chiusa) e fu disponibile a tutte le richieste provenienti dalla Savoia e dalla Francia. Alla sua morte i religiosi erano più di centosessanta divisi in una cinquantina di piccole comunità. I Fratelli della Sacra Famiglia sono impegnati ad evangelizzare, ad insegnare alla gioventù e oggi sono sparsi in diversi Paesi del mondo;[7] Il Burkina Faso confina con il Mali a nord e a ovest, con il Niger e il Benin a est, con il Togo, il Ghana e la Costa d’Avorio a Sud. Costituito in prevalenza da un vasto altopiano chiuso a est da modesti rilievi e a sudovest dal Téna Kourou (747 metri), è attraversato da corsi d’acqua confluenti nel Volta;[8] Vengono celebrate cerimonie con sacrifici, danze e riti, però non esistono, fra i gourounsi specifiche cerimonie di iniziazione, così indossano le maschere spesso utilizzate dalle altre etnie; [9] La donna partecipa al 60% del lavoro di raccolta nei campi e all’80% nel trasporto a casa dello stesso raccolto. Fornisce circa il 50 % della mano d’opera per la sorveglianza e la cura del bestiame. È suo esclusivo compito la raccolta e il trasporto del legname e dell’acqua, la raccolta dei prodotti naturali non coltivati come foglie, erbe, radici, frutti… usati come integratori alimentari e componenti essenziali per l’igiene e la salute. La donna si occupa della prole, della trasformazione quotidiana dei prodotti alimentari per le necessità familiari. È inoltre esclusiva competenza della donna il piccolo commercio, la vendita e lo scambio dei prodotti, che rappresenta l’unica fonte di guadagno personale. Così, pur avendo un ruolo secondario per molti aspetti della vita del clan e di quella familiare, la donna rappresenta l’elemento di forza e di riferimento della stessa comunità.