Politica e potere nel Vangelo
Di Francesco Agnoli (del 22/11/2010 @ 22:44:18, in Religione, linkato 1143 volte)

Nel Vangelo di politica si parla molto poco. Certamente sono più interessati all’argomento certi preti e certi vescovi, che mettono la politica, la sociologia, prima o al posto di Cristo. Invece: “Cercate il regno di Dio, il resto vi sarà dato in sovrappiù”.

C’è una chiara gerarchia, per il cristiano: è la sua fede che orienta la sua azione politica. Non esiste una politica cristiana scissa dalla visione cristiana dell’esistenza. Non è la politica la via maestra per cambiare il mondo, come invece hanno insegnato tutte le rivoluzioni, da quella francese a quella comunista sino a quella nazionalsocialista: ogni vera rivoluzione è prima di tutto interiore; dal basso e non dall’alto; sboccia dall’amore per la legge di Dio, non da un’ ideologia umana che si fa legge o dittatura.

 Ma non è tanto questo di cui vorrei parlare oggi, quanto di altre due frasi evengeliche su cui si può costruire la concezione politica cristiana: “date a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è Dio”; “nessun potere, se non da Dio”. In queste due frasi è racchiusa tutta la concezione cristiana del potere.

Anzitutto la distinzione tra potere temporale e potere religioso. Il cristianesimo non ha faraoni o imperatori divinizzati in cui sono unificati entrambi i poteri. I primi cristiani servivano e obbedivano ai loro sovrani, riconoscevano la loro autorità, ma si rifiutavano di bruciare l’incenso dinnanzi ai loro simulacri. Così, più avanti nei secoli, la Chiesa avrebbe contrastato la confusione tra potere temporale e religioso portata avanti da Lutero, che affidava ai principi il potere sulle chiese protestanti. Analogamente Tommaso Moro avrebbe preferito perdere la vita piuttosto che piegarsi di fronte ad Enrico VIII, che aveva unito nella sua persona, confondendo fede e politica, a vantaggio di quest’ultima, il titolo di re e quello di capo della Chiesa anglicana.

Ma la distinzione tra i due poteri, “invenzione” del cristianesimo, non è contrasto.

Infatti la frase “Date a Cesare ecc.”, va compresa alla luce dell’altra: “nessun potere se non da Dio”. Dio infatti è creatore di ogni cosa, anche dell’autorità. Il potere di un genitore deriva da Dio; quello del papa, da Dio; quello di Cesare, da Dio…

 In che senso? Sovente la nostra cultura intende questo concetto in modo assolutamente errato, e reagisce così: ma se il potere deriva da Dio, allora ne consegue l’assolutismo! Eppure basterebbe conoscere appena un poco la storia per capire che non è così. L’assolutismo affonda le sue radici nel pensiero ateo di Machiavelli, in quello di Hobbes, nella statolatria di Hegel e di Marx. Tutto fuorché in un pensiero cristiano. Basti pensare al Novecento, il secolo delle dittature: è là dove si nega un Dio trascendente, nell’Urss comunista, nella Germania nazionalsocialista, nella Cina di Mao ecc., che il potere diventa mostruoso, terribile, assoluto nel senso più forte del termine. Perché? Non dovrebbe essere difficile capirlo.

Il fatto che il potere derivi da Dio, infatti, da una parte è garanzia della necessità dell’autorità. In poche parole significa che ogni autorità ha un senso, una funzione, una valore. La prima cosa da dire è dunque che il verso paolino (Nulla potestas nisi a Deo) nega l’anarchia. L’autorità è necessaria, giusta, fa parte del progetto di Dio. Che sia quella di un padre e di una madre o quella di un governante, o quella di un superiore in campo lavorativo. ù

Ma nello stesso tempo “nessuna autorità se non da Dio”, oltre a dare valore all’autorità, lungi dal renderla assoluta, la limita, ne definisce i contorni, le prerogative. Il Potere infatti non si autogiustifica, non si autoassolve, non si autodetermina. Se deriva da Dio deve essere esercitato tenendo conto della sua origine e del suo fine, che costituiscono anche il suo limite. Il padre di famiglia, per intenderci, ha ricevuto da Dio l’autorità sui figli, per educarli al bene: può e deve esercitarla, quindi, non in modo assolutistico, autocratico, come se provenisse da lui, ma obbedendo anzitutto alla legge di Dio, che lo precede e lo supera.

 Il padre non potrà mai, per esempio, ordinare ad un figlio di rubare, senza contraddire all’origine della autorità che, va ripetuto, non è sua, ma per così dire “in affido”. Lo stesso dicasi per un vescovo: la sua autorità deriva da quella del papa, e quella del papa da quella di Dio. Un vescovo che non obbedisce al papa, usurpa un potere non suo; ma neppure il papa può violare qualcosa che lo supera, il depositum fidei, la Rivelazione.

In questo senso, l’autorità diviene servizio, e non privilegio. Analogamente lo Stato non può, in nome di se stesso, stabilire la distruzione di una razza o di una classe sociale, come è avvenuto nel Novecento sotto le dittature che non riconoscevano i diritti di Dio. Neppure, oggi, può legalizzare l’aborto, la clonazione, o qualche altra violazione dell’ordine naturale, cioè dell’ordine delle cose istituito da Dio, precedente all’uomo ed al suo potere. Vi sono diritti divini che precedono i diritti di Cesare e questi diritti sono la garanzia dei diritti individuali e naturali dell’uomo, perché, come scriveva Donoso Cortes, “quando l’uomo divenne figlio di Dio, in quello stesso momento cessò di essere schiavo dell’uomo”. Il Foglio