Rosetta e Giovanni Gheddo
Di Rassegna Stampa (del 10/11/2010 @ 08:00:00, in Letteratura, linkato 1283 volte)

di Cristina Siccardi

La coppia di sposi Rosetta Franzi (1902-1934) e Giovanni Gheddo (1900-1942), candidata alla beatificazione, emerge come alternativa forte a una società mediatica e culturale, editoriale, televisiva e cinematografica che propone il matrimonio come atto fragile e costantemente in bilico. Invece Rosetta e Giovanni offrono, in quanto testimoni del Vangelo, un modello di sodalizio sponsale dove l'amore è realmente inteso per sempre. Non hanno inseguito sogni o illusioni, né banalità o superficialità. Il loro amore si è concretizzato in una casa solida edificata sulla roccia e che ha avuto, per cemento armato, la fede in Cristo. Sacrifici, dolori, tragedie sono stati sublimati sull'altare del sacramento nuziale e attraversati con lo stesso spirito che anima i martiri. È in corso la causa canonica per la loro beatificazione.

12. A tutto pensa

Il 10 giugno 1940 l’Italia dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. La preparazione bellica per questa iniziativa è decisamente inadeguata. L’impresa etiopica e la partecipazione alla guerra civile spagnola, contrariamente a quanto sostenuto dalla propaganda, non erano servite ad accrescere e a rinnovare gli apparati militari. Delle tre armi soltanto la Marina aveva completato i propri piani di ammodernamento. L’esercito aveva in dotazione sistemi d’arma obsoleti e in numero insufficiente. I mezzi corazzati, che fin dalle prime fasi del conflitto si erano imposti come i protagonisti della nuova tattica della Blitzkrieg (guerra lampo), basata sull’estrema rapidità e decisione delle manovre offensive, erano scarsissimi e limitati ai modelli leggeri e medi; totalmente assenti, invece, i carri pesanti, arma che sarà determinante. Gli aerei su cui l’aeronautica militare poteva contare erano, comunque, per velocità, armamento, autonomia e installazioni di bordo, meno efficienti di quelli delle altre forze in campo. Pure l’equipaggiamento e l’addestramento degli uomini, così come l’organizzazione dei reparti e degli stessi comandi, presentavano deficienze consistenti. Tuttavia Mussolini decise l’entrata in guerra a causa dei successi schiaccianti dell’esercito tedesco e la repentina capitolazione della Francia. Pareva sensibile ed evidente una guerra lampo, veloce e vittoriosa. Ma la scelta della Gran Bretagna di proseguire nel conflitto anche da sola, con il sostegno, per il moneto solo economico degli Stati Uniti, dimostrò ben presto la fallacia del calcolo.


Gli effetti della guerra piombarono anche in casa Gheddo. Il geometra di Tronzano venne subito richiamato sotto le armi. Compì il suo servizio dal 9 giugno al 15 agosto 1940. Venne inviato, in qualità di capitano d’artiglieria della Divisione Cosseria, alla frontiera con la Francia, dove non sparò alcunché. In luglio il capitano scrive al direttore dell’ «Associazione d’irrigazione agro ovest Sesia» di Vercelli, domandandogli una dichiarazione per poter presentare «domanda per ottenere una licenza illimitata» dal servizio militare: era vedovo, padre di tre figli minorenni. Nella lettera egli scrive che il suo dovere militare l’ha compiuto e desidera richiedere l’esenzione dal servizio militare a causa della sua otosclerosi (patologia ereditaria che rende sordastri), «arretramento dei timpani in seguito a rinite», come egli stesso scrive.


Il 26 ottobre 1941 da Civitavecchia descrive in questi termini il suo tragitto sanitario:
«Quanto alla mia posizione sanitaria, saprete che all’ospedale di Novara ove sono stato visitato minutamente dalle dita dei piedi fino alla punta dei capelli (tanto che mi hanno trovato il fegato leggermente gonfio, mentre io non ho mai, grazie a Dio, avvertito alcun disturbo) sono stato dichiarato “idoneo incondizionato”.
Siccome poi dovevo firmare per accettazione o meno, io ho scritto testualmente: “Il sottoscritto non accetta perché realmente affetto da sordità come risulta dalle note caratteristiche”. Dovevo quindi passare una visita superiore a Torino; e speravo almeno di restare a casa fino al corso successivo. Invece niente. Mi han fatto partire dicendo che la visita superiore l’avrei fatta a Roma; e giorni or sono ho saputo dalla Scuola che la Commissione Medica, in base al reperto della prima visita collegiale, ha giudicato non necessaria la richiesta visita superiore. Eccomi servito.
Si vede che s’accontentano di poco perché sono sordo e vedo poco, il naso è ammalato, i denti se ne sono andati in gran parte e quei pochi sono guasti, ho il fegato gonfio, ecc. ecc. Avrò certamente anche un poco di mattoide, e con tutto questo po’ po’ di roba, sono “idoneo incondizionato”. Sono proprio di facile contentatura!» . Giovanni richiese più volte visite mediche specialistiche a causa della sua scarsa salute.
Avrebbe avuto la possibilità di far intervenire amici influenti, lo stesso cognato Lancia avrebbe potuto agire in qualche modo. Invece non lo fece. A Roma ebbe l’opportunità di incontrare il conte Emilio Pagliano, vercellese, ambasciatore di Stato in Filandia, poi in Brasile ed Egitto, del quale Giovanni Gheddo amministrava due sue proprietà: una a Tronzano e l’altra a Villareggia. Il conte Pagliano invitò a pranzo il suo amministratore nell’albergo Plaza. Avrebbe avuto la possibilità di chiedere una sua raccomandazione se non proprio per tornare a casa, almeno per rimanere a Civitavecchia, in una batteria da costa.

Ai familiari, proprio da Civitavecchia il 19 ottobre 1941, scrisse:
«Ma che cosa dovevo chiedere a Sua Eccellenza? Che mi faccia mandare a casa? Non so se mi conviene, anzi temo di no. Mi son limitato a dire, cose ovvie del resto, che mi spiacerebbe andare in Russia per il freddo, e in Africa per il viaggio».
Il direttore dell’Associazione redasse una dichiarazione in cui si afferma che egli è «l’unico impiegato amministrativo e tecnico del Distretto irriguo di Tronzano», pertanto, «la sua presenza in servizio sarebbe particolarmente utile e necessaria».
La domanda viene inviata. Ma non arriverà alcuna risposta.
Nel 1941 il suo stipendio mensile subì una diminuzione: da 2.174 lire si passò a 1.739. Di fronte a tale «palese, patente ingiustizia», come egli stesso definisce, non riuscì ad ottenere una variazione. Protestò, ma nessuno gli diede, nuovamente, risposta.
Su tali decisioni deve aver influito la sua posizione nettamente antifascista. Come membro attivo dell’Azione Cattolica era fortemente contrario all’ideologia del Regime, il quale cercava, soprattutto prima dei Patti Lateranensi (che suggellarono la conciliazione fra Stato e Chiesa, chiudendo definitivamente la “questione romana” iniziata con la presa di Roma da parte del regno sabaudo) di imbavagliare i movimenti cattolici, insidiando la loro autonomia. Eppure la famiglia veniva sempre prima di tutto, anche della politica. Afferma Mario Gheddo: «Durante l’anno i due fratelli del papà, Giuseppe e Paolo, abitanti a Torino, venivano a Tronzano a trovare la mamma e tutti noi. Succedeva che i due fratelli (uno di orientamento socialista e l’altro vicino all’ideologia fascista) alzassero il tono della conversazione. Mio padre, dichiaratamente non fascista (nel senso che n on ha mai dato il consenso al progetto fascista, ma allo stesso tempo non ha mai compiuto atti di resistenza attiva) non alzava mai la voce, ma richiamava i fratelli sostenendo che il vero valore era volersi bene ad incominciare dalla famiglia».
Francesco Ansermino di Trozano ha spiegato molto bene l’antifascismo del geometra Gheddo e le ripercussioni su tale manifesta scelta: suo padre era socialista e dunque non aveva preso la tessera fascista, perciò si era messo a lavorare per conto proprio, ma nessuno andava da lui perché era etichettato, un “sovversivo”. Uno dei pochi che gli commissionavano lavori era proprio Giovanni Gheddo e lo aiutò molto proprio perché era segretario del Distretto Irriguo Ovest –Sesia, perciò lo chiamava per le riparazioni delle opere in muratura della distribuzione delle acque. Negli anni Trenta i non iscritti al partito fascista, in età da lavoro, erano pochissimi, perché essere antifascisti significava non lavorare. Soltanto uomini forti e coraggiosi prendevano tale strada. Tuttavia Giovanni continuò a lavorare perché era molto stimato in paese, considerato uomo retto e di chiesa, sempre pronto ad aiutare gli altri e a mettere pace fra le famiglie.
Giovanni non voleva che i suoi bambini mettessero la divisa di figli della lupa o da balilla, divisa che però la zia Adelaide fece indossare per non creare disparità con i compagni di scuola. Inoltre aveva sempre appuntato alla giacca il distintivo dell’Azione Cattolica che urtava non poco le autorità e non si iscrisse mai al Partito fascista, un fatto alquanto riprovevole per un uomo che in paese ricopriva un ruolo di responsabilità cittadina.
Partecipava, con la propria famiglia, a tutte le processioni religiose del paese, ma non si vedeva mai ai cortei civili. Ha raccontato alla figlia Chiara, Mario Gheddo:
«Questi cortei percorrevano in lungo e in largo il paese con la banda musicale, che suonava il Piave (“Il Piave mormorò, non passa lo straniero...”) e altri inni patriottici, il Montegrappa (“Montegrappa, tu sei la mia patria...”).
Sentire la banda che suonava queste cose e tutti che cantavano, erano cose che a noi bambini ci riempivano il cuore. Ma papà non partecipava. Ho un ricordo preciso di questo perché io, bambino di 7-8-9 anni, sognavo di partecipare a questi cortei per le vie del paese vestito da ufficiale. Papà era ufficiale, aveva la divisa in casa, aveva gli stivali, persino il cinturone, persino la spada (che si usava nelle sfilate) e la pistola (che teneva nel cassetto: il primo cassetto del comò chiuso a chiave, altrimenti noi andavamo a toccare). Io sognavo di partecipare a questi cortei e papà invece... non partecipava.
La zia mi diceva, abbiamo parlato spesso, lei e io, di suo fratello e nostro padre Giovanni, che il papà era stato sollecitato non solo dal Partito Fascista, ma anche dagli altri ufficiali in congedo che c’erano in paese – due o tre, non ricordo più – ma lui diceva che partecipare a questi cortei con la banda musicale era una esaltazione patriottica che elettrizzava, inebriava troppo le persone. Lui rifuggiva dalle infatuazioni, era schivo di queste cose. Per cui non partecipava, mentre aveva il diritto di essere in prima fila in divisa, come reduce della prima guerra mondiale. Allora il fascismo esaltava gli ufficiali e i militari in congedo, gli uomini che avevano partecipato alla prima guerra mondiale. Papà non ci stava e il suo dissenso chiaramente dava fastidio» .


Così fastidio da mandarlo, poi, sul fronte russo...
A Civitavecchia frequentò la Scuola Centrale di Artiglieria per ufficiali. Per tre volte sperò di tornare a Tronzano: ottobre, novembre, dicembre 1941. Prese appuntamenti precisi, assicurò la sorella Adelaide che si sarebbe occupato di molte questioni, si propose di stare un po’ con la famiglia, di andare a far visita a Piero in seminario e Francesco in collegio a Vercelli.
Dunque non erano stati presi in considerazione né la sua vedovanza con tre figli minorenni, né la sua sordità; inoltre, come una sorta di punizione il suo stipendio era addirittura calato. Che fare? Per lui, così religioso e fidente in Dio, non spera meglio per sé, ma si abbandona alla volontà del Padre, rassegnandosi: «Pazienza», scrive, «è così e bisogna rassegnarsi, poiché non c’è rimedio» e «poi sarà quel che Dio vuole».
Lavora molto e lo comunica alla famiglia. Scrive, infatti, il 26 ottobre 1941:
«Mi vorrete scusare se non vi ho risposto subito come era mio dovere, ma sono veramente molto occupato. Non per studiare, no, ma per il tempo che si passa a scuola (da 6 a 8 ore al giorno) e per i compiti che dobbiamo fare a casa; e quelli bisogna farli. Mi consolo pensando che gli ufficiali del Genio hanno molto più lavoro di noi e devono alcune volte stare alzati fino alle 2-3 del mattino per fare i compiti. Non vi pare che si esageri un pochettino!? Io almeno non ho mai lavorato oltre le 10 ore, ed è anche troppo per lo stipendio che ci danno!!!».
Dai suoi scritti si evince la sua capacità di accettare la realtà com’è, essendone ben cosciente, ma non ribellandosi ad essa. Ancora da Civittavecchia scrive (10 novembre 1941):
«... non ho mai saputo, nemmeno ora so con certezza, se finito il corso ci trattengono in servizio o se ci mandano a casa in attesa di un prossimo richiamo. Le voci che circolano sono parecchie e contraddittorie.
Pare però che per ora ci mandino a casa. Se è vero, martedì mattina, al più tardi, sarei costì [...] a giorni sarò congedato e potrò sbrigare il mio lavoro. Se poi non fosse... pazienza, non sarebbe colpa mia.
Non mi dicono nulla, anzi, neanche al comando della Scuola sanno nulla di preciso. A pochi giorni dalla fine del corso!!!
Quello che si sa è che si costituiscono parecchie batterie di costa e penso che mi metteranno a comandarne una, per tanti motivi. Ci andrei volentieri per lo stipendio (3.400-3.500, quindi 2.500 mensili netti a casa), per la relativa tranquillità nel senso che non ci sarebbe più pericolo di andare né in Russia né in Libia; per il soggiorno al mare ove non fa freddo e mi curo l’orecchio».
Riuscì a tornare a casa nella metà di novembre del 1941. Cinque giorni appena.
Nel prezioso epistolario l’attenzione è costantemente rivolta ai suoi figli: a Piero, che si trovava nel Seminario di Moncrivello, a Francesco, che studiava presso il collegio di Vercelli, a Mario, che frequentava le scuole elementari e viveva con la nonna e le zie.
Papà Giovanni proseguiva la sua opera pedagogica attraverso le epistole. Bellissima la lettera da Civitavecchia del 26 ottobre 1941:
«Carissimo Piero,
da qualche po’ di tempo non ho tue notizie e naturalmente desidero averne.
Intanto ti ricordo che oggi è il VII° anniversario della morte della povera Mamma, che è spirata esattamente alle ore 4 del mattino di venerdì 26 ottobre 1934. Ricorda questa triste data, caro Pierino, e prega per l’anima bella e nobile della povera Mamma e Lei pregherà il Signore perché ti dia la vocazione Sacerdotale, e perché tu vi corrisponda con slancio, con entusiasmo, con spirito di sacrificio (indispensabile per la Missione) cosicché tu possa un giorno essere un santo Sacerdote di Cristo.
Questo era il Suo desiderio vivissimo, l’aspirazione della Sua anima, di avere almeno un figlio sacerdote.
E io pure, carissimo Piero, ti raccomando tutti i giorni durante il Memento dei vivi nella S. Messa e durante la Comunione che ho la fortuna di poter fare quotidianamente anche qui a Civitavecchia. E speriamo che il Signore ti benedica».
Il capitano Gheddo continuava ad accostarsi quotidianamente all’Eucaristia, doveva rinunciarvi quando i suoi superiori gli davano incarichi ed incombenze.
Si preoccupava continuamente dei propri figli, così come avrebbe fatto la sua Rosetta: non delegava gli affanni alla mamma e alle sorelle, le prendeva su di sé, ricoprendo il ruolo terreno che la moglie aveva lasciato. Ne è prova questa lettera indirizzata a casa il 19 ottobre 1941:
«Piero mi ha scritto or sono parecchi giorni. M’ha detto in risposta a mia domanda che il vitto è sufficiente e il pane non fa difetto. Quindi m’ha tolto un peso dallo stomaco. In questi giorni ero molto preoccupato per Francesco, perché so che cosa vuol dire a quell’età alzarsi da tavola con parecchio appetito. Io qui ho molto appetito e mangio molto. È effetto del mare e della vita saluberrima che facciamo. Ma vi dico francamente che avevo quasi rimorso a saziarmi completamente e di cibi buoni (perché alla mensa non manca proprio nulla) e pensare che Francesco non avesse pane a sufficienza. Ora sono contento che avete provveduto».
È un papà che pensa alla cura del corpo e dell’anima delle proprie creature. Insegna a sopportare sacrifici e privazioni, per temprare la propria personalità, ma è solerte nel porre rimedi là dove viene a mancare il necessario, perciò, sapendo che Francesco, nel collegio, patisce la fame, provvede affinché le zie facciano recapitare periodicamente al bambino gli alimenti che occorrono alla sua crescita sana.
In una lettera al piccolo Francesco di 10 anni (Civitavecchia, 26 ottobre 1941), rammenta la dipartita della mamma e non ha paura di turbarlo, di creare “traumi” come oggi si direbbe, perché sa che presentare con amore la verità, quindi anche la durezza della vita, aiuta ad essere migliori:
«Ti ricordo che oggi è il VII° anniversario della morte della povera Mamma, che è mancata esattamente alle ore 4 del mattino di venerdì 26 ottobre 1934. Cerca di ricordare questa data, caro Francesco, e prega per la povera Mamma che certo eleva le sue preghiere a Dio per i suoi bambini (perché siano sempre buoni, studiosi, ubbidienti) e per me che ho tanto bisogno di aiuto.
Ho saputo da casa e da te direttamente, che hanno incominciato a mandarti del pane a mezzo di un balilla che viene a scuola al Del Pozzo, vero? Così non soffrirai la fame. Mi ha scritto zia Fiorenza che manderà anche a te qualche cosa, come a Piero, e quindi non ti mancherà neanche il companatico. Sii riconoscente a Dio che ti aiuta e alle zie che ti mandano pane, marmellata e cioccolata.
Sono tempi tristi, caro Francesco, e bisogna essere disposti e pronti a fare dei sacrifici. Sono stato anch’io in collegio col pane e la minestra razionati e so cosa vuol dire. E anche lo zio Pillo [il fratello Paolo] ha sofferto la fame in collegio e si è anche ammalato. Non parliamo poi dello zio Giuseppe che è stato prigioniero 14 lunghi mesi [nella prima guerra mondiale].
Vedi dunque che non sei il primo a fare qualche sacrificio.
Sopporta volentieri queste privazioni e offrile a Dio perché ritorni presto la pace e l’abbondanza in questa povera terra [...] Studia volentieri, caro Francesco, alla fine dell’anno sarai molto, molto contento. Scrivimi qualche volta, prega la Vergine Santissima che ti aiuti e ti conservi sempre buono.
Hai scritto a Piero? È venuto a vederti zio Angelo ? E il cugino Giuseppe Molinaro con Olimpia sono venuti a vederti? Se non sono venuti, verranno perché oggi scrivo loro che sei in collegio e che vengano a vederti.
Tanti affettuosi saluti e baci da Papà».
Insomma, questo padre, con mille affanni, mille angosce, mille problemi continuava, nonostante la sua lontananza da casa, a pensare a tutto, coordinando e guidando la vita dei propri figli.