Due giorni dopo la morte, avvenuta tre anni fa tra la notte dei Santi e quella dei Morti, il quotidiano Avvenire pubblicò la foto della sua camera: un comodino con sopra un volume corposo, verosimilmente la Bibbia, un paio di pantofole ai piedi del letto e nient’altro. Una stanza da letto povera e disadorna, insomma, simile a quella di chissà quanti altri. Perché don Oreste Benzi aveva capito che delle cose di quaggiù, in fondo, si può fare a meno. Che dedicare la vita a sé stessi equivale a sprecarla, ad aspettarsi da qualcosa una gratificazione che può giungerci solo da Qualcuno: Gesù Cristo.
Tanti aprono gli occhi su questa realtà solo quando invecchiano e iniziano a capire che le ricchezze che hanno cercato di costruirsi per tutta una vita, quando si avvicina la morte, non servono a niente. E magari trascorrono i loro ultimi giorni nel tormento di essersela spassata, ma di non aver amato abbastanza, di non aver dato alla vita che una minima parte di quello che hanno ricevuto da lei. Un vero e proprio incubo. Don Oreste no, lui non ha certo avuto di questi rimorsi. E non solo perché si è spento nel sonno, ma perché ha dedicato al prossimo tutta la sua esistenza, senza badare a spese e senza chiedersi se l’aiuto che porgeva alla prostituta o al drogato di turno avrebbe mai potuto, un domani, essere in qualche modo ricambiato.
“Se chiama qualcuno della strada e vuole venire via, dare subito il numero di cellulare di don Oreste”. In questa semplice scritta, che campeggiava a caratteri cubitali a ricordare ai collaboratori del prete romagnolo i loro doveri, c’era tutto don Benzi: la sua disponibilità, durante tutti i giorni dell’anno e a tutte le ore, per chiunque avesse bisogno. E quando nessuno chiamava era lui stesso, infaticabile e fiducioso, a cercare qualcuno cui prestare aiuto; avvicinava nottetempo le lucciole e, col sorriso sulle labbra e un rosario in mano, diceva loro che il mondo è molto più bello e grande di un marciapiede, che avevano ancora tutto il modo e il tempo di voltare pagina, di riscattarsi e rifarsi una vita. Ne ha salvate oltre 6.000.
Ma la cosa che più colpisce della sua opera , al di là dei risultati ottenuti, è il coraggio con cui don Benzi andava avanti sempre e comunque, talora snobbato dallo stesso ambiente curiale, pur di continuare la sua evangelizzazione. La statura di questo “apostolo della carità”, come lo definì Benedetto XVI, fu evidente anche nella sua amorevole ma intransigente battaglia contro l’aborto. Una battaglia che don Oreste, ancora una volta, intese combattere sul terreno dell’accoglienza: offriamo ad ogni madre la possibilità di accogliere con dignità il proprio bambino, diceva, anche se disabile e senza farla sentire in colpa di averlo messo al mondo. Non parole, dunque, ma fatti concreti.
Così come concreta, oltre che ideale, è l’eredità lasciataci da questo straordinario sacerdote: più di 200 case-famiglia, una quindicina di cooperative sociali, oltre 30 comunità terapeutiche, una casa editrice e un numero imprecisato di case di preghiera, case di fraternità e centri diurni. Un impero d’amore sorto in Italia e approdato ovunque: Albania, Tanzania, Brasile, Croazia, Venezuela, Russia, Cina, Zambia e Australia. Imprese simili, evidentemente, richiedono una forza d’animo non comune. Ma lui, tutto questo, ce l’aveva nel sangue. Aveva capito che Dio è talmente grande che per amarlo del tutto non c’è che una possibilità: amare tutti, a partire da coloro che sono giudicati inutili e insignificanti. E lo aveva capito presto:”decisi da piccolo che nel mio sacerdozio avrei scelto di essere al fianco di chi si sente una nullità”. Missione compiuta, caro don Oreste.