Oggi viene beatificato padre Vismara. Ecco un suo vecchio ritratto.
A breve ci saranno le elezioni in Birmania, oggi Myanmar. Sui giornali leggeremo i soliti superficiali resoconti su questa feroce dittatura impiantata nel cuore del XXI secolo.
Difficilmente ci diranno che si tratta di una dittatura comunista. Ormai lo sappiamo da tempo: del materialismo ateo e comunista, come dei morti, nihil, nisi bonum. Benché il comunismo non sia defunto davvero, purtroppo, come dimostrano Cina, Corea del Nord, Cuba, Bielorussia… Comunque, per capire qualcosa di più su questo lontano paese asiatico, che confina con l’India, la Cina, il Laos e la Thailandia, si possono consultare soprattutto due libri: “Missione Birmania” e “Clemente Vismara, il santo dei bambini”.
Entrambi questi preziosi lavori sono di padre Piero Gheddo, un instancabile viaggiatore ed un prolifico giornalista che conosce la Birmania molto bene da vicino. Ricorrerò a Gheddo per illustrare due concetti: l’essenza del comunismo birmano; l’influenza del cristianesimo in questo paese. Anzitutto Gheddo ci ricorda che il fondatore della dittatura birmana odierna è Ne Win, il creatore di una via buddista al socialismo. Ne Win, ricorda Gheddo “professa fin dall’inizio il materialismo, nega l’esistenza dell’anima umana, insegna che tutti i fondatori di religione, passato il loro tempo, sono decaduti, introduce l’insegnamento dell’ateismo e della filosofia marxista nelle scuole; e assume come verità indiscussa che la proprietà è un furto”.
Ne Win è convinto, come scrive nel suo “La filosofia del socialismo birmano” del 1962, che “l’uomo è il più importante degli esseri, è l’ Essere Supremo. Al posto di dio bisogna mettere l’Uomo”. E a garanzia dell’Uomo occorre porre lo Stato: la società socialista futura, scrive ancora Ne Win, è “fondata sulla giustizia”, sulla prosperità, e in essa “non c’è posto per la carità”, perché lo “Stato pensa a tutto”.
Nazionalizza le banche, le imprese, i negozi, abolisce le scuole private ecc. Ma questo progetto utopico del “regno dell’Uomo”, si rivela subito portatore di oppressione, di degrado e di violenza, e fallisce miseramente. Quando ci si accorge che il comunismo non garantisce né equità né ricchezza, l’elite birmana si converte al modello cinese del libero mercato: dal materialismo egualitario, al materialismo tout court, mantenendo la struttura dittatoriale. Una trasformazione piuttosto facile, quasi automatica, che sembra stia per essere adottata anche dal comunismo cubano.
Così la Birmania è oggi non il regno dell’Uomo, ma una grande prigione e uno dei più grandi esportatori di oppio al mondo. Anche in questo caso lo Stato, cioè la dittatura militare, “pensa a tutto”.
Ma Piero Gheddo non parla solo del comunismo birmano e del fallimento dell’ “uomo nuovo” socialista. Nei due libri citati ripercorre la vita di alcuni missionari europei giunti in queste terre d’Asia per portare il Vangelo e ben altro tipo di “uomo nuovo”.
Con grande successo, non tanto tra l’etnia dominante, i Birmani, buddisti, quanto tra le etnie minori. Le minoranze tribali, cariani, kachin, kayah, blimò, chin, padaung, lahu… non erano affatto formate da “buoni selvaggi”, secondo il mito del proto-comunista Rousseau. Erano, al contrario, popoli nomadi, sempre in guerra, a caccia di schiavi e di prede, terrorizzati dalla natura divinizzata, superstiziosi, convinti che ogni malattia o ogni disgrazia fosse legata alla presenza di spiriti da esorcizzare o da placare. Come in tutte le religioni animiste della storia. I missionari, racconta Gheddo, portarono loro le medicine europee, la scrittura, la credenza in un Dio ragionevole e buono. Insegnarono a costruire case e introdussero nuove coltivazioni che permisero la vita stanziale e civile: il caffè, il chinino, le patate, la coltivazione dei gelsi e l’arte della seta. Tra questi uomini che abbandonarono la ricca Europa per andare tra genti lontane, Gheddo privilegia la figura di Padre Vismara (nella foto un monumento a lui dedicato).
Un uomo che giunse in Birmania nel 1935, insieme ad un solo compagno, morto subito di tifo. Padre Vismara era solo, e scriveva: “Sono l’unico cristiano nel raggio di un centinaio di chilometri. Se voglio incontrare un altro battezzato debbo guardarmi allo specchio”.
Era prete, medico, farmacista, dentista, carpentiere.... Insegnava ai suoi tribali, che disprezzavano il lavoro, affidandolo alle donne, ai bambini, e agli schiavi, la bellezza della fatica e di un mestiere. “Evangelizzare, cioè insegnare a lavorare”, scriveva; e aggiungeva: “Il cristianesimo è l’unica religione che ha il fondatore che è stato un lavoratore, un falegname”. In uno dei tanti suoi articoli, del dicembre 1953, notava: “ Che il paganesimo renda l’uomo di ambo i sessi pigro e, di conseguenza, povero, è un fatto indiscutbile. Venite e vedrete”. Padre Vismara sgobbava come un matto, e faceva sgobbare quelli gli stavano accanto.
Per raccogliere “orfani e orfane di famiglie distrutte o disperse da carestie, epidemie, guerre tribali”; “lebbrosi, ladri scacciati dai villaggi, handicappati” rifiutati da tutti. Perfetta incarnazione di quello che avevano scritto i pagani Celso e Porfirio, e nel Novecento, Nietszche: che i cristiani scelgono ciò che è debole e malriuscito (senza attendere il futuro superuomo). Con grande ironia, prima di morire, Vismara preparò la sua epigrafe funeraria. Recitava: “Passeggero, fermati e piangi!/ Qui giacciono le mie ossa./ Vorrei tanto che fossero le tue. Clemente Vismara”. Il Foglio, 29 ottobre 2010