«Il feto prova dolore». Allora rispettiamolo...
di Carlo Bellieni
Strana la gente: spesso guarda le cose ma non vede l’evidenza. E ancor più strana la stampa, che mentre discetta su quale sia il miglior metodo abortivo, racconta le sensazionali scoperte sulla vitalità e le capacità del feto. È capitato in questi ultimi tempi sulla stampa italiana, e ci ha sconcertato, non perché ci dispiaccia che si parli della bellezza della vita prenatale, ma perché non si vogliono trarre le ovvie conseguenze e rispettarla. È un atteggiamento divergente, che fa in modo che del 'feto' si parli come si parla di un cervo impagliato: bello, ma non ci commuove. Invece dovrebbe, perché le belle capacità descritte sui giornali sono quelle di chiunque di noi prima di essere nato, e dei nostri figli, che imparano a conoscerci già prima della nascita.
Già, perché dentro il pancione il bambino percepisce voci e risate, impara la lingua della mamma e i suoi gusti alimentari. E la ricerca scientifica ci mostra come si muove, come risponde agli stimoli, anche a quelli dolorosi, perché dalla metà della gestazione il feto è in grado di sentire il dolore. Le ricerche in questo campo sono pubblicate sulle maggiori riviste di medicina, insieme agli studi sul
diabete o sulla depressione.
Ad esempio Julie Mennella, dal Texas ha studiato come si formano i gusti alimentari nel feto, l’irlandese Hepper come impara le voci prima di nascere. Hans Veldman e Catherine Dolto hanno studiato come entra in contatto con mamma e papà prima di nascere e come questi possano comunicare con lui/lei attraverso una metodica detta 'aptonomia', basata sulle carezze attraverso la parete del pancione e ormai è un’abitudine mostrare le immagini a tutto tondo del feto che si succhia il dito, che ride, che piange. Sunny Anand ha per primo studiato nel 1987 il dolore del feto che è ormai un’evidenza, nonostante tentativi di screditarla basati su dati obsoleti riguardo l’incapacità di percepire le sensazioni se la corteccia cerebrale non è sviluppata, ben smentite dagli studi recenti sulle capacità percettive degli adulti con danno cerebrale grave. E sull’incomprensibile equazione che, siccome il feto dorme quasi sempre, allora non sentirebbe il dolore: ma queste persone non hanno mai avuto un mal di pancia che li ha fatti svegliare e gridare nel sonno?
Ma non basta: oggi possiamo anche curare il feto, operandolo dentro il pancione per una serie sempre maggiore di malattie, con esiti sempre migliori, trattandolo per quello che in realtà è: un paziente, un bambino malato. Allora come non vedere l’evidenza?
Quello è una persona: soffre, piange, ride, scalcia, ha un cuore che batte, delle piccolissime ovaie se è una bambina e una memoria. Invece assistiamo a paradossi anacronistici.
Il primo è che questa età della vita non abbia un medico specifico, come il pediatra per i bimbi già nati, il ginecologo per le donne, il gerontologo per i vecchi, costringendo il medico della mamma a fare il tuttologo e curare il feto come un paziente ma anche come un’appendice della mamma. Il secondo paradosso è che se muore non viene riconosciuta alla famiglia la possibilità di avere un’astensione dal lavoro per il lutto, a dargli un nome, a iscriverlo all’anagrafe, come invece avviene nella laica Francia.
Terzo paradosso, è che in diversi Paesi occidentali (non in Italia, per fortuna) può essere abortito con un’iniezione di digossina nel cuore anche quando è così sviluppato da poter sopravvivere una volta fuori del pancione, uscito dal quale, un attimo dopo è (per magia?) diventato intoccabile. Non voler vedere l’evidenza ci riporta indietro a memorie che speravamo sepolte: sembra tanto tempo, ma sono pochi anni.
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