Un uomo
Di Marco Luscia (del 20/10/2010 @ 17:41:58, in Storia contemporanea, linkato 1325 volte)
Ha il volto buono e intelligente è elegante, di un’eleganza sobria e discreta. Quando parla avverti una leggera inflessione del sud, ma la lingua è trasparente, precisa, nobilmente forbita. E’ un uomo semplice e innamorato del proprio lavoro, un sorta di monaco che ha giurato fedeltà alla verità, consacrando l’esistenza al faticoso lavoro di giudice. Nel chiuso di uno studio, perennemente sorvegliato e protetto, analizzando le carte processuali Giovanni Scopelliti rivela di sentirsi realizzato; scavando nella miniera dai mille anfratti di un processo, il giudice, spera di appurare responsabilità e omissioni. Per lui, il colpevole resta comunque un uomo, seppure responsabile di un atroce delitto. Un uomo nel cui petto, solo lo si sappia cogliere, arde un frammento di verità e di bontà. Quella verità che il giudice cerca. Il giudice non “giudica la persona” è troppo grande il mistero, troppo profondo il fondo dell’umana vicenda; egli si limita ad applicare la giustizia per recuperare la piena dignità del colpevole. Non ha grandi traguardi, soddisfazioni, non ama la vetrina il giudice. Si accontenta di svolgere secondo umanità il suo lavoro e per questo si affida alla corretta applicazione della legge. Si accontenta a volte di incontrare un ex detenuto uscito di galera, e di scoprire che questi non porta rancore, anzi si avvicina per ringraziare e salutare il giudice che un giorno lo ha condannato. Anche questa è una soddisfazione, forse la pena ha veramente restituito il giudicato alla propria condizione di uomo a pieno titolo. Tutto questo per Scopelliti è fonte di gioia, la più grande. Perché quello fra giudice e imputato dovrebbe pur sempre essere un rapporto fra esseri umani nel quale il reo “chiede” una pena che gli restituisca la “libertà perduta”, quella della propria coscienza. Più o meno questo ho visto in una puntata di Bontà loro, un programma datato 1978. Il giudice che rispondeva alle domande di Maurizio Costanzo tratteggiava forse inconsapevolmente il profilo di un uomo giusto. Semplicemente onesto. Tutto questo, tanto più mi ferisce quando scopro che nell’estate del 1992, il giudice, durante una vacanza in Calabria viene trucidato con alcuni colpi di pistola da un’azione congiunta di mafia e camorra. Così ripenso al garbo, agli occhi, alla parola misurata di un uomo, di un giusto che svolgeva i proprio lavoro con la speranza di recuperare ogni essere umano. Per uccidere una persona di questo tipo era necessario, non conoscerla, o meglio, farne un simbolo negativo di persecuzione. Con la stessa noncurante spietatezza manifestata innumerevoli volte dai terroristi quando colpivano un “nemico del popolo.” Per uccidere è necessario cancellare il volto di un uomo prima di tutto simbolicamente, non guardarlo negli occhi, non ascoltarlo, non capire che egli è un altro noi, oltre ogni divisa e ogni ruolo.