A giudicare dal pochissimo spazio con cui viene ricordato da giornali e trasmissioni televisive, non ci sarebbe di che stupirsi se a tanti giovani - compresi i sedicenti paladini della legalità – il nome Rosario Livatino dicesse poco o nulla. Il mondo catodico, si sa, da tempo ama incensare la mediocrità a scapito dell’eroismo, che viene relegato, quando va bene, in seconda serata. Per questo non ci sarebbe nulla di strano se molti apprendessero della storia del “giudice ragazzino” freddato ad appena 38 anni dalla mafia, per la prima volta, solamente adesso. Nato in quel di Canicattì nell’ottobre del ’52, il piccolo Rosario Angelo Livatino, figlio dell'avvocato Vincenzo e della signora Rosalia, diede subito prova, sin dai banchi delle elementari, di un’intelligenza prodigiosa. Al punto da indurre il maestro a definirlo eccezionale, perché l’eccellenza, per quanto qualificante, parve voce restrittiva per le qualità, assolutamente sbalorditive, di quel bambino così saggio e ingegnoso. Stesso discorso per gli insegnanti delle medie e del liceo classico, che in Rosario Livatino videro qualcosa di più di un semplice alunno modello.
Conseguito con lode il diploma universitario di perfezionamento in Diritto regionale, vinse dapprima il concorso per vicedirettore in prova presso la sede dell'Ufficio del Registro di Agrigento e poi, pochi mesi più tardi, quello in magistratura, che lo porterà, per un decennio, a ricoprire la carica Sostituto Procuratore della Repubblica. Nel corso della sua intensa attività seguirà delicate indagini antimafia e sarà tra i primi ad interrogare un ministro dello Stato. Tutto ciò infastidì non poco la mafia, che decise di eliminarlo la mattina del 21 settembre '90 mentre Livatino stava recandosi, come ogni mattina, al lavoro a bordo della sua Ford Fiesta amaranto. Senza scorta. Ma gli aspetti più commoventi della vicenda del “giudice ragazzino”, come veniva chiamato per il suo aspetto giovanile e la rapidità con la quale aveva fatto carriera, più che nella rettitudine morale e nella sua prontezza al sacrificio, stanno nella sua fede, della quale non mancò mai, seppur con discrezione, di offrire testimonianza.
Lo provano gli scritti straordinari che ci ha lasciato, nei quali, da magistrato preparato e competente, ebbe a riconoscere come “il più alto simbolo e il più alto segno giuridico è la dettatura dei dieci comandamenti, il decalogo, nel quale il legislatore, il "facitore del diritto", è Jhwh, Dio della giustizia e dell’amore”. In un altro scritto, con parole che colpiscono per acume e profondità, Livatino ha scritto:” Tutto l’universo, per quanto immenso, si identifica in questo essere. Dio è come un perno su cui gira tutto ciò che è. Tutto viene e ritorna a Dio, Dio è principio e fine”. A partire dal ‘93 il vescovado di Agrigento ha iniziato a raccogliere testimonianze per la causa di beatificazione di questo straordinario martire cristiano, che non si è tirato mai indietro, ben consapevole di rischiare la morte, di fronte ai suoi doveri di cittadino e di magistrato.
Com’è noto, per la canonizzazione è necessario il riconoscimento di almeno un miracolo. Ebbene, pare che una donna sia stata guarita da una grave forma di leucemia grazie al “giudice ragazzino”, che le sarebbe apparso in sogno in abiti sacerdotali, spronandola ad avere fiducia nel Signore. Nonostante gli accertamenti su questo miracolo siano ancora in corso, non possiamo che esprimere a nostra volta i nostri più sinceri ringraziamenti, per la sua testimonianza di vita, a Rosario Livatino. Una testimonianza che aggiunge ulteriormente credibilità alla Resurrezione di Cristo. Ed è questo l’importante. Perché, come ha scritto Livatino, “quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”.