Dopo la notizia che Gianna Nannini aspetta un figlio, a 54 anni, il Corriere ha aperto il dibattito invitando solo donne a commentare il fatto.
L’iniziativa dice, a mio avviso, di quanto la mentalità femminista sia penetrata ovunque, portando danni enormi all’idea della necessità dell’alleanza maschio-femmina. Eppure (ammesso che sia vero quello che si dice sulla vicenda), sarebbe stato interessante chiedere anche a degli uomini: voi vendereste il vostro seme per un bambino, che poi non vedrete forse mai, come è accaduto nel caso della Nannini? E’ giusto utilizzare il seme maschile come una merce qualsiasi? Oppure (ma la domanda potrebbe essere fatta, ovviamente, anche alle donne): le piacerebbe essere stato progettato, da sua madre, coscientemente, già orfano di padre? Così purtroppo non è: c’è tutta una cultura che ritiene che il padre, in fondo, importi poco; come ce n’è un’altra, quella che sponsorizza i matrimoni gay, che ritiene che né padre né madre, in fondo, servano più a nulla.
Per questa cultura il diritto è solo quello dell’adulto, del più forte, di chi può decidere: il bambino chiamato all’esistenza non viene neppure contemplato, e i suoi diritti non esistono affatto. Detto questo vorrei provare a dare una lettura cattolica della vicenda, visto che non è molto facile trovarne una. Si parte dal dato razionale, scientifico: a spese di chi sono stati prelevati gli ovuli per il figlio della Nannini? Mi spiego: quale donna ha venduto i suoi ovuli, pur correndo il rischio, causa l’iperstimolazione ovarica sempre necessaria in questi casi, di incorrere in tumori, sterilità e quant’altro? Quale sarà la salute fisica del bambino nato in un corpo non più naturalmente adatto a condurre una gravidanza? Ancora: quale sarà la condizione spirituale di un figlio che all’età di soli sedici anni si troverà, oltre che senza un padre, con una mamma-nonna, di settant’anni, certamente incapace di comprenderlo al meglio, e di seguirlo nella sua crescita? E come si sentirà, la mamma, quando il figlio, verosimilmente, si vergognerà di lei di fronte agli amici? Quando le chiederà conto dell’assenza di un padre? Quando magari, come non è raro accada, la accuserà per le sue sconfitte adolescenziali?
Non c’è alcun dubbio: secondo l’ottica cattolica, che a mio avviso coincide con quella naturale, razionale, quello di Gianna Nannini è stato un gesto non d’amore, ma di sommo egoismo. Un egoismo che la fecondazione artificiale sta trasformando in regola. Una dottoressa britannica del centro per la salute riproduttiva di Leeds, infatti, ha dimostrato in una sua ricerca che il fenomeno del social freezing, cioè del prelievo e del congelamento dei propri ovociti in età giovane, perché siano utilizzati più avanti, sta diventando parte della cultura inglese. “Nonostante fosse chiaro il costo economico e quello fisico…otto studentesse di medicina e quattro di sport su dieci si sono dette pronte a iniziare questo percorso per assicurarsi una gravidanza futura (cioè volutamente procrastinata, ndr) con ovociti giovani. Per non rinunciare alla carriera” (la Repubblica, 6/7/2010).
Sommo egoismo, dicevo. Questo è il giudizio cattolico, che gran parte dei cattolici non vogliono più dare, in nome di una vago sentimentalismo. Dimentichi che Cristo è venuto per indicarci cosa è bene e cosa è male; dimentichi del passo di san Paolo: "Giudicate ogni cosa, trattenete ciò che vale" (1 Tess 5,21).
Ma se il giudizio sul fatto è inequivocabile, oggettivo, quello sulla persona è altra cosa. Il cristiano lo sa bene: non rifugge dal prendere posizione, dall’opera faticosa del discernimento, anzitutto riguardo alle sue proprie scelte, ma non giudica mai l’intenzione, la colpevolezza soggettiva, di chi il peccato ha compiuto. Perché, secondo il catechismo di san Pio X, affinchè un peccato grave oggettivo sia tale anche soggettivamente, occorrono, oltre alla materia grave, anche la piena avvertenza ed il deliberato consenso. Sa la Nannini, ciò che sta facendo? Lo sa pienamente, e pienamente vi assentisce? Lo sa solo Dio. In questo senso va inteso il detto evangelico: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (Luca 6,37).
Chi sono io per giudicare la colpevolezza insita nel gesto, oggettivamente egoista, della Nannini? Scriveva il compianto cardinal Giuseppe Siri, che aveva una concezione cattolica dell’esistenza che molti suoi confratelli, nel post concilio, non possedevano più, scambiando la carità con il cedimento all’errore: “Noi siamo sempre pronti a condannare. E invece di condannare faremmo meglio a dire che, nelle condizioni in cui si sono trovati tanti nostri fratelli, saremmo stati probabilmente molto peggio di loro. Questo, non per decurtare l’orrore del peccato: il peccato è peccato, è quello che è. Ma gli uomini si distinguono dal loro peccato; ne saranno macchiati, ma sono un’altra cosa. Il peccato loro può essere grande, ma la capacità loro di risorgere può essere ancora più grande. Ed è con questo sguardo che si debbono vedere gli altri”. Verità e Carità, ancora una volta, non vanno disgiunte: perché nel cristianesimo una non può stare senza l’altra. Il Foglio, 2 settembre