Cuba è uno dei tanti miti atei del ventesimo secolo, che sopravvive nel ventunesimo, senza più essere un mito, nell’oblio. Per tanti anni a sinistra si è voluto fare di quell’isola il mondo felice, utopico, realizzato dall’uomo: l’isola incantata che, seppure lontana, però c’è. Ci hanno creduto in tanti, a partire da intellettuali come J. Paul Sartre e Simone de Beauvoir, che mentre buttavano a mare con odio due millenni di cristianità, si godevano bagni di folla cubani organizzati dal regime, e ricambiavano con tanto rumoroso affetto.
Ci ha creduto il premio Nobel Gabriel Garcia Marquez, divenuto un narratore alla corte di Castro, di cui Carlos Franqui, celebre rivoluzionario castrista poi pentito, ebbe a scrivere: “La patente di sinistra consente a Garcia Marquez di possedere una villa, milioni e ricchezze in Colombia, in Messico e a Cuba, conti bancari… ma lui non condanna il narcotraffico che distrugge il suo paese, non denuncia i crimini della guerriglia colombiana e tace su delitti atroci come quello di padre Camilo Torres. Sceglie la zuppa comunista per interesse…”.
Alla rivoluzione cubana credettero anche molti cattolici di sinistra, che nel post Concilio, approfittando della mancata scomunica al comunismo e dell’iniqua ostpolitik vaticana, approfittarono per mescolare il verbo di Marx con quello di Cristo: mons Ernesto Balducci, in Italia, e i teologi della liberazione, in America Latina.
Tra questi quell’Ernesto Cardenal che in suo reportage da Cuba, undici anni dopo la Rivoluzione, pur ammettendo l’esistenza dei campi di concentramento e la persecuzione, tra gli altri, dei cattolici, proclamava Cuba capitale dell’umanità e del benessere, anche materiale, e concludeva entusiasta: “A Cuba avevo visto che il socialismo fa sì che sia possibile vivere l’Evangelo nella società”.
Ecco, oggi si sa bene cosa succeda a Cuba: miseria, mancanza di libertà e oppositori coraggiosi, per lo più cattolici e neri, che continuano a lottare, costituendo la testimonianza più evidente del fallimento di una dittatura familiare, che dura da ormai cinquant’anni, immobile e feroce.
Scriveva alcuni mesi orsono Lucio Caracciolo, su Limes: “Sotto il velo di una propaganda in cui nessuno crede più, la vita quotidiana di Cuba è quella di un paese che non produce quasi nulla. E quindi deve importare il necessario, compresa la frutta tropicale surgelata servita nei paladares (ristorantini privati ad uso dei turisti e altri privilegiati) che viene dritta dalle serre canadesi. Le tessere alimentari offrono sempre meno”.
E concludeva: “Sullo sfondo dell’eroica rivoluzione contro Batista e delle grandiose ambizioni geopolitiche del carismatico Fidel, questa Cuba immiserita e sopravvivente, cucita su misura di turista (sessuale, non più ideologico), sembra rassegnata a recitar se stessa”.
Eppure, di questo fallimento, così eclatante, si parla poco, almeno in confronto alla esaltazione che se ne fece, per tanti anni, a sinistra. E rimangono quasi introvabili le denunce fatte spesso da cubani cattolici come Armando Valladares, o anche da comunisti un tempo entusiasti come il fotografo d’arte parigino Pierre Golendorf, autori il primo di “Contro ogni speranza. 22 anni nel gulag delle Americhe dal fondo delle carceri di Fidel Castro”, il secondo de “Un comunista nelle prigioni di Fidel Castro".
Tanto clamore, dunque, in passato, tanto silenzio oggi. E’ difficile ammettere, anche stavolta, che ci si era sbagliati.
Per questo la recente autobiografia di Juanita Castro, “I miei fratelli Fidel e Raùl” (Fazi), ha ricevuto molta meno attenzione di quella che meritava. Poche recensioni e le stroncature di qualche nostalgico incanaglito, come Maria R. Calderoni, sul quotidiano comunista Liberazione, che indignata per le parole di Juanita, concludeva così la sue considerazioni: “Libro chiuso. A lettura finita ci viene in mente, chissà perché, quella frase di Sartre: «L’anticomunista è un cane»”.
Eppure il libro di Juanita è molto interessante, perché scritto dalla sorella del dittatore cubano, che per anni aveva lavorato attivamente per la vittoria della Rivoluzione. Juanita - che ha pagato la sua rettitudine: costretta a scappare da Cuba perché avversa ai fratelli, e spesso insultata, negli Usa, dagli esuli cubani, perché pur sempre sorella del dittatore- ci descrive quello che ha vissuto, e che coincide con quanto raccontano tanti altri testimoni.
La Rivoluzione contro Batista, testimonia, non era in origine di matrice comunista: vi erano ad appoggiarla, in diverso modo, operai, borghesi, ecclesiastici come il vescovo Enrique Pèrez Serante, cui Castro dovette la sua salvezza dopo una missione fallita. Si volevano la libertà, l’equità sociale, la fine della dittatura, e la gran parte dei protagonisti non voleva saperne né del comunismo né dell’ Unione Sovietica. Furono Fidel, per motivi di potere e null’altro, Raul, per convinzioni più ideologiche, e soprattutto il Che, descritto come un personaggio fanatico, volgare e sanguinario, a impadronirsi della rivoluzione, eliminando tutti i loro stessi compagni di lotta che non vedevano di buon occhio il comunismo e la dittatura.
Fu il Che, “che trasudava ateismo da tutti i pori”, a spingere sulla iniqua e crudele “persecuzione religiosa” e sulle fucilazioni indiscriminate di massa. Di fronte a tanta iniquità, ricorda Juanita, mi schierai con quelli che mio fratello Fidel chiamava “vermi” e cercai di salvarne il più possibile, finché non fui costretta, anch’io come ad altri due milioni di cubani, ad emigrare. Il Foglio, 25 agosto 2010
Sotto: immagini di cubani in sciopero della fame, anche sino alla morte, contro il regime