di Lorenza Perfori
Il primo aspetto che emerge, dopo aver conosciuto la vita vissuta di Margherita Cagol, Barbara Balzerani, Anna Laura Braghetti e Adriana Faranda, è l’apparente contrasto tra il periodo pre Brigate Rosse e quello della vera e propria lotta armata. Risulta difficile capire quale sia stato il passaggio che abbia condotto delle brave ragazze a diventare donne spietate e sanguinarie. La sola motivazione politica non sembra essere sufficiente – peraltro riconosciuta loro a fatica da parte dell’immaginario collettivo – per spiegare un così radicale e assoluto cambiamento.
Barbara Balzerani nasce a Colleferro nel 1949, in una povera famiglia operaia, con pochi giocattoli e pochi stimoli culturali. Una vita di sacrifici, vissuta “in mezzo ai veleni delle ciminiere”, con una mamma totalmente assorbita dal pesante lavoro di fabbrica, sempre troppo stanca per dispensare affetto e carezze alla propria bambina. Una studentessa, Barbara, che quando arriva a Roma per studiare e laurearsi non ha ancora vent’anni.
Adriana Faranda è “la testarda ragazza siciliana, che aveva amato l’arte, la musica, la trasgressione, la libertà e il rispetto per gli individui”. Un’aristocratica e madre di una figlia di nome Alexandra.
Anna Laura Braghetti, è un’impiegata “truccata, ben vestita [e] profumata”. Inserita in una normale quotidianità fatta di lavoro in ufficio e chiacchierate al telefono con le zie.
Margherita Cagol, trentina di buona famiglia, nasce nel 1945. I primi anni li trascorre serenamente come quelli successivi dell’adolescenza caratterizzati dall’assenza di inquietudini e ribellioni. Margherita è una ragazza attiva e piena di interessi: ama le camminate in montagna, sciare e giocare a tennis. A quattordici anni impara da sola a suonare la chitarra dimostrando da subito un notevole talento che esprimerà nei numerosi concerti di chitarra classica a cui partecipa con successo. Dopo essersi diplomata in ragioneria si iscrive alla facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. La scelta viene fatta senza alcuna particolare vocazione ma solo perché l’università si trova vicino a dove abita. L’impegno nello studio la porterà a laurearsi, nel 1969, con il massimo dei voti e poi a vincere una borsa di studio per frequentare un corso di sociologia in un istituto di ricerca.
Una vita lineare e senza sbavature, caratterizzata anche da una forte fede cattolica espressa - piuttosto che come “adesione ai dogmi” - attraverso l’amore per gli ultimi e il desiderio di lottare contro le ingiustizie per costruire un mondo migliore. Le domeniche a messa e i pomeriggi a fare volontariato con gli anziani negli ospizi di Trento.
Quattro donne: un’aristocratica madre, un’impiegata e due studentesse di estrazione sociale opposta. Quattro mondi, quattro vite completamente diverse ma accomunate per sensibilità, idealismo, passionalità… e dirette verso un unico approdo: il terrorismo armato nelle Brigate Rosse.
Si insiste sull’aspetto di normalità e tranquillità di queste donne prima della scelta della militanza, la scelta senza ritorno. Le brigatiste? Sono state tutte un tempo brave ragazze, figlie affezionate, studiose, timide, generose. Poi improvvisamente e senza alcun motivo apparente, ecco arrivare la svolta. La brava fanciulla con sani principi non si riconosce più. Sfuggente, misteriosa, insomma trasformata ha scelto la via della guerriglia.
In realtà, andando ad analizzare il periodo storico di quegli anni e, in particolare, le radici storico-politiche delle Brigate Rosse, il percorso delle nostre donne non appare più così imprevedibile e inspiegabile, ma ne emerge una lineare coerenza tra la vita di prima e quella seguente. La stessa svolta della cattolica Margherita Cagol, che dalla messa e dal volontariato passa ad impugnare le armi nella lotta armata, non appare, alla fine, così incomprensibile e assurda.
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La religione delle Brigate rosse
Il movimento delle Brigate rosse, che prende forma in Italia nel 1970, ha le sue radici nella corrente marxista-leninista che abbiamo appena esaminato, e come tale, pur essendo la matrice dichiaratamente atea, nella pratica ripropone anch’essa la religiosità immanente e totalitaria che le è propria.
Le Brigate rosse sono
un’organizzazione terroristica di estrema sinistra che persegue lo scopo di combattere lo Stato, colpendolo nella sua essenza, al fine di creare un sistema in cui, chi deve essere alla base di ogni tipo di esigenza, è la classe operaia.
L’ideologia della prima ora è “quella presunta “epoca felice” […] in cui si rivendicano, prima di tutto, i diritti dei più deboli [e che] a partire del 1976, assume tratti ben più militarizzati
Tutto il resto assume un aspetto secondario, la lotta contro lo Stato rappresenta l’unico scopo da perseguire. La lotta di classe domina su tutto contro un capitalismo sfrenato e disumano, che finisce inesorabilmente con lo schiacciare i più deboli.”. “Una scelta sovversiva da portare fino in fondo, a cui credere come si crede a un dogma.
Un credo assoluto e totalitario, quindi, che assorbe tutta l’esistenza di chi aderisce:
La sfera privata diviene funzionale alla sola causa rivoluzionaria, perché, l’adesione al credo terroristico, coincide con un’assolutizzazione incapace di lasciare spazio ad altro.
come testimonia Adriana Faranda:
“Senza contare che chi sceglie di militare nelle Br lo fa con un’adesione quasi religiosa ad una chiesa: l’organizzazione diventa la nuova famiglia ed è poi difficile rompere i legami umani che si sono creati…”
Appartenere alle Br significa, dunque, perdere la propria individualità: non viene riconosciuta la libertà di pensiero, la possibilità di critica, non è consentito in alcun modo un momento di ritiro per ripensare e ritrovare se stessi in quel groviglio inestricabile di fatti, divenuto percorso obbligato e mostruoso, in cui non si è più padroni di decidere.
Quando si entra in clandestinità, si è costretti a dimenticare la famiglia, ad abbandonare le amicizie esterne e tutto ciò diviene spesso un modo per mettere alla prova la propria abnegazione di militante. Il militante “rosso” deve, dunque, rispettare regole ben precise, inderogabili, facendo continui sacrifici e rinunciando ad affetti e interessi estranei al fine sovversivo, in nome di quell’ideale rivoluzionario cui ha deciso di dedicarsi totalmente. Il gruppo diviene così ancora di salvezza e trappola. Se da un lato permette al soggetto di attuare “scelte audaci”, crea dall’altro una sorta di dipendenza psicologica.
Si deduce con chiarezza – nonostante alcune diversità - come nelle Brigate Rosse ci siano gli stessi ingredienti della religione immanente della Russia di Lenin.
Le masse proletarie dell’Urss vengono sostituite dalla classe operaia che deve essere liberata dallo sfruttamento dei “padroni" (la nuova borghesia). Dio non è lo Stato, come nel socialcomunismo, lo Stato qui va combattuto, perché accusato di commistione con quel capitalismo che schiaccia i più deboli. Dio è il gruppo armato, è lui il nuovo Gesù, liberatore dei poveri e degli oppressi. Una liberazione da realizzare a qualsiasi costo, l’uso della forza e delle armi diviene legittima, uccidere o morire durante un’azione diviene un fatto normale, anzi, una necessità per portare avanti la rivoluzione, l’unico strumento per abbattere il capitalismo.
E, al pari di un dio, è il gruppo che va “adorato”, l’idolo cui va sacrificato tutto. A lui va immolata ogni cosa: la propria famiglia, le vecchie amicizie, la vita di prima. Un’abnegazione totale, fatta di continui sacrifici e regole da rispettare come dei dogmi.
Più che una caricatura del cristianesimo, le Brigate rosse assumono, a tratti, il fanatismo tipico di una setta religiosa. L’entrata nel gruppo avviene lentamente, un passo dopo l’altro, con una sorta di pressione morale e psicologica, finché non si riesce più a venirne fuori:
entrare in un’organizzazione clandestina è molto più facile del dire “non ci sto più, faccio marcia indietro”. In quest’ultimo caso, si è subito un traditore e diventa seriamente complicato uscire da quel vortice che assume forme risucchianti e totali. È questa paura di tradire e il senso di colpa che assale, ad impedire alla maggior parte dei militanti di staccarsi da questo tipo di politica. Al contrario, avvicinarsi al gruppo clandestino, risulta decisamente più semplice. Molte volte si tratta di un coinvolgimento progressivo, di una pressione morale, un passo dopo l’altro. Magari si comincia ospitando in casa propria un ricercato, finché non ci si ritrova coinvolti in azioni sempre più pesanti, fino al collo, in uno spazio che si stringe sempre di più.
Come testimonia Anna Laura Braghetti:
“La mia scelta di entrare in un’organizzazione armata è stata il frutto di un lungo, lento corteggiamento, un avvicinamento graduale, passo per passo. Come un meccanismo che, prima di mettersi in moto faccia scattare tanti clic impercettibili, uno dopo l’altro, fino al momento finale quando ogni passaggio è compiuto e la macchina è avviata in tutta la sua potenza… “
Una dipendenza psicologica progressiva unita al senso di colpa, alimentato dalla paura di tradire, di tirarsi indietro. Una paura, di fatto, assolutamente motivata, perché chi decide di uscire dal gruppo passa immediatamente dalla parte di coloro che hanno tradito subendone la conseguente condanna a morte. Come accadrà a Adriana Faranda e Valerio Morucci e come accadeva nella Russia di Lenin a chi non condivideva e non si uniformava. La loro opposizione all’uccisione di Moro, li porterà fuori dalle Br:
inizieranno così a condurre una vita da latitanti, ricercati dallo Stato e dagli stessi ex compagni di lotta, che ora li vedevano come traditori, infiltrati e che presto li avrebbero condannati a morte.
Una persecuzione che per Adriana proseguirà anche durante gli anni del carcere. Le Brigate Rosse non esistono più, ma le altre brigatiste detenute continueranno a vessarla con diverse intimazioni.
Una chiesa, quindi, le Brigate Rosse. Con le sue regole e i suoi dogmi. Una religione. E proprio dalla tradizione religiosa è assimilato il rito del cambio del proprio nome in uno nuovo. Una consuetudine questa, per rimarcare una scelta definitiva, una vocazione da portare fino in fondo con totale dedizione, l’inizio di una nuova vita da quel momento in poi, un nuovo e decisivo percorso… Margherita Cagol diventerà “Mara”; Barbara Balzerani, prima “Maria” e poi “Sara”; Adriana Faranda diventerà “Alexandra” e Anna Laura Braghetti sceglierà come nome di battaglia “Camilla”. Un rituale che non funzionerà appieno, un distacco riuscito solo a metà: le proprie radici continueranno a farsi sentire e a suscitare sensi di colpa; la separazione non sarà, come vedremo, né serena né definitiva.
La decisione
Dopo aver analizzato brevemente l’apparente natura atea delle ideologie del Novecento, la religiosità immanente del socialcomunismo e il carattere religioso di quel movimento che da essa trae le sue radici: le Brigate rosse, torniamo al punto di partenza, e proviamo a rispondere all’istanza con cui abbiamo iniziato e cioè quale sia stato il passaggio che abbia condotto le nostre quattro donne alla decisione estrema e radicale della lotta armata, passando da una vita normale alla guerriglia. Una scelta alla quale l’opinione pubblica non riesce a dare una spiegazione plausibile, una scelta la cui sola motivazione politica non sembra essere sufficiente.
La svolta di Barbara Balzerani è quella di più facile comprensione. Lei proviene da quel proletariato oppresso dal sistema capitalista, lo ha vissuto sulla sua pelle sin da piccola. Il pesante lavoro di fabbrica e quel mondo rassegnato e ingiusto, fatto di sacrifici e mortificazioni, si è preso tutte le energie e le carezze di sua mamma. E’ durante l’infanzia che cresce in Barbara quella conflittualità nei confronti della madre, che poi diverrà odio folle e disperato, oltre che nei confronti di lei, anche verso i padroni e l’intero quartiere operaio in cui è cresciuta. Il rapporto con il padre non è dei migliori, anch’esso caratterizzato da una forte ostilità, come gli anni dell’adolescenza e della scuola, vissuta questa, al pari della famiglia, come un’istituzione contro cui ribellarsi.
Un mondo che non offre prospettive, immobile, chiuso,… Barbara è giovane e la Colleferro di allora, non ha orizzonti, né risposte per una ragazza come lei.
All’età di vent’anni, finalmente la svolta, la possibilità di andare a Roma per studiare e laurearsi. L’occasione finalmente di lasciarsi alle spalle l’odiato mondo. A Roma, con tanta rabbia dentro, la rabbia, ma anche il dolore, di tutta la sua vita.
Prima aderisce al Movimento Studentesco romano, poi a Potere Operaio, fino all’approdo nel Partito armato, dove nel 1976 incontra il suo compagno ideale Mario Moretti. Nella militanza Barbara non trova solo l’affetto che le è mancato: qui per la prima volta sperimenta la sensazione di sentirsi veramente a “casa”.
La scelta di entrare nelle Brigate Rosse è quindi la logica conseguenza dei suoi primi vent’anni di vita vissuta. Finalmente ha trovato quel significato esistenziale che Colleferro non offriva, finalmente la vita ha un senso, non più un futuro rassegnato e senza prospettive o, in alternativa, la rovina. Le cose si possono cambiare alla fine, si può lottare contro lo sfruttamento e l’oppressione. Barbara aveva accantonato venti anni di rabbia, era finalmente arrivato il momento di tirarli fuori.
Anna Laura Braghetti è una femminista che, con le Brigate rosse, condivide la figliolanza a quel movimento di contestazione sorto alla fine degli anni ’60 passato alla storia come il Sessantotto. Un movimento che si declinerà in tre forme principali: studentesco, operaio e femminista che – pur con tutte le relative diversità – è qualificato con una visione critica della società nella quale, il ruolo dell’individuo e le sue esigenze, devono essere radicalmente ridefiniti.
All’interno dei gruppi guerriglieri
non esistono motivi di donna […]: non ci sono, non c’erano, non ci sono mai stati. I motivi sono di “ordine generale”, sono lo sfruttamento, la voglia di rivoluzione, motivi neutri, da uomo come da donna.
Ciò non significa che non ci possa essere una forma di attrazione, anche da parte delle femministe, nei confronti della lotta armata quale mezzo estremo per manifestare il proprio rifiuto verso un sistema che relega la donna al solo ruolo tradizionale di casalinga, moglie e madre. Quasi come una prova di forza, una dimostrazione di energia anche fisica, determinazione e coraggio, nei confronti di un immaginario collettivo che vede nella figura femminile solo sottomissione, debolezza e fragilità. Un ribaltare i valori tradizionali con la forza, un’emancipazione armata. Come conferma questa testimonianza:
Nel 1978 esce uno dei tanti articoli-inchiesta sull’argomento in questione dal titolo “Donne e terrore”, a firma di Gian Paolo Rossetti. Il giornalista, a circa tre settimane dal rapimento Moro, chiede un parere sulla situazione dei gruppi armati a un anonimo funzionario del Vicinale, che gli confessa: “Nell’Italia del ’78 il terrorismo è donna, ormai siamo arrivati al femminismo armato. Non passa giorno senza che una ragazza sia protagonista delle cronache della violenza… carine, viso da brave figliole, sui 25 anni di età… sono fredde e padrone di sé e sparano da professioniste…”
Una femminista, dunque, Anna Laura, con un lavoro di impiegata in un’impresa edile. La sua vita sarebbe potuta andare avanti così, senza bisogno di entrare nell’organizzazione armata, se non fosse intervenuto, come lei stessa testimonia, quel “lungo, lento corteggiamento, quell’avvicinamento graduale [fatto di] tanti clic impercettibili, uno dopo l’altro [fino a] quando ogni passaggio è compiuto e la macchina è avviata in tutta la sua potenza…”.
Un’impressionante analogia – come abbiamo già visto – con i metodi di reclutamento di nuovi seguaci usati dalle sette. Si parte facendo leva su debolezze o passioni personali. La persona viene posta al centro dell’attenzione, le si fa credere di essere unica e indispensabile, le si offrono gratificazioni in vario modo, si mettono in moto tutta una serie di allettamenti, finché il nuovo adepto non entra, con la convinzione di aver fatto tutto da solo, che la sua decisione sia stata libera e volontaria, ma così non è.
Anna Laura cercava un modo per cambiare il mondo: ecco la passione da cui partire per il suo coinvolgimento.
Forse il periodo in cui sono stata una spettatrice in platea è servito a decidere se farmi o no da parte definitivamente. Era un tempo di attesa, cercavo un modo per cambiare il mondo e tentavo di capire se le Brigate Rosse fossero o meno uno strumento per far diventare realtà il sogno rivoluzionario […] Perché anche se non avevo nessun peso politico nell’organizzazione e non ero passata per la normale trafila dei militanti Br, avevo un ruolo essenziale per i suoi progetti […] Fino a quel momento ero stata a guardare, avevo un atteggiamento di indulgente tolleranza […] non ero una protagonista, ero semplicemente la ragazza di Bruno…
Anna Laura Braghetti osserva, pondera, è titubante, si chiede se quella sia la strada giusta per realizzare il suo sogno, nel gruppo milita anche Bruno, il suo ragazzo del momento, così entra come irregolare iniziando a condurre una doppia vita. Nemmeno un anno dopo le viene assegnato il ruolo fondamentale di prestanome dell’appartamento in via Montalcini 8 acquistato per il sequestro Moro. Inoltre, sarà proprio lei a sostenere economicamente l’operazione sia come vivandiera del Presidente, sia per la sopravvivenza degli altri inquilini.
La macchina si è messa in moto e ha iniziato la sua folle corsa e lei è uno dei passeggeri. La doppia vita che conduce inizia a pesarle sempre più. Di sera rivoluzionaria a tempo pieno nonché vivandiera del prigioniero Aldo Moro; di giorno truccata, ben vestita e profumata a lavorare in ufficio e a inventare scuse con le zie per giustificare come mai non aveva risposto alle loro telefonate: un giorno dall’amica del cuore, un altro al cinema, in pizzeria… bugie, bugie, bugie.
Con il passare dei giorni cominciavo ad apprezzare le dieci ore che trascorrevo fuori da quella casa, la possibilità di lasciare alle spalle Camilla e rientrare nei panni di Laura, truccata, ben vestita, profumata. Tutto il giorno vivevo nel mondo, lavoravo, chiacchieravo al telefono con la zia Franca…
La situazione precipita. Le Brigate rosse condannano a morte Moro. I dubbi di Anna Laura aumentano, lei ritiene che il Presidente abbia già subito un lungo periodo di prigionia che l’ha profondamente segnato ma, alla fine, accetta la decisione senza battere ciglio. L’uccisione di Aldo Moro avvenuta il 9 maggio 1978 segna la fine della sua doppia vita. Ormai non può più tornare indietro e anche per lei iniziano la clandestinità e la militanza: è giunta l’ora di diventare una terrorista a tutti gli effetti.
Anna Laura Braghetti nelle Brigate Rosse non ci entra, lei ne è lentamente inglobata, assorbita, coinvolta poco a poco fino a rimanerne imprigionata… dopotutto quello che voleva era solo realizzare un sogno: trovare un modo per cambiare il mondo.
Anche Adriana Faranda ha un sogno: “una rivoluzione totale che possa liberare il mondo dal dolore”. Un dolore che – in questi anni sessantottini - non è mai il proprio. Non un fatto privato, “il dolore riconosciuto e ammesso [è] sempre quello dei poveri del terzo mondo, degli ultimi, della classe operaia, delle vittime dell’oppressione, dello sfruttamento, del razzismo. Il dolore e la morte [possono] essere considerati soltanto nella sfera strettamente legata alla politica e alla lotta di classe”.
“Liberare il mondo dal dolore”: un’utopia atea perfetta. Infatti, se Dio non esiste e Gesù non è il figlio di Dio, di lui resta solo l’immagine di un rivoluzionario che ha fatto una brutta fine. E se Gesù è solo un uomo, non è nemmeno risorto, allora la morte non ha più nessun significato. Non l’inizio di una nuova vita, non un “ritorno a casa” tra le braccia amorevoli di un Padre, ma la drammatica fine di questa vita in un ipotetico nulla. Allo stesso modo, anche il dolore non ha più alcun significato, non un’istanza redentiva di comunione dell’uomo con la Croce di Cristo, “uno strumento di salvezza e un cammino di santità che aiuta a raggiungere il cielo”; ma un ospite importuno e sgradito da mettere alla porta.
Gesù ha mostrato che il dolore c’è e non può essere eliminato. Tuttavia non l’ha né cercato né esaltato, bensì accettato e portato fino in fondo. Il cristianesimo, infatti, non è la religione che esalta il dolore, ma quella che alla sofferenza dà un significato. Il patire e il morire, infatti, non sono l’ultima parola, perché alla passione e alla morte segue la resurrezione: il sepolcro è un sepolcro vuoto.
Se Dio non esiste, non esiste nemmeno un Paradiso futuro dove la sofferenza e la morte saranno bandite per sempre. Quindi, l’unico paradiso concesso è racchiuso in confini esclusivamente terreni e spetta all’uomo realizzarlo, con le sole proprie forze, per poter raggiungere la felicità. In una visione siffatta il dolore è un ingrediente amaro, una realtà drammatica che impedisce il raggiungimento di questa felicità, ecco perché bisogna eliminarlo, ed ecco perché, per realizzare il paradiso terreno, Adriana sceglie la rivoluzione:
Per realizzare questo mondo le dissero, è necessario lottare, bisogna essere disposti a combattere, forse a morire.
unendosi alle Brigate rosse, il dio-idolo armato, il messia rivoluzionario e combattente, redentore del dolore secolare e restauratore della felicità terrena perduta. Infatti, Adriana Faranda considera il suo ingresso nelle Brigate Rosse alla stregua di un’adesione religiosa, come lei stessa conferma:
Senza contare che chi sceglie di militare nelle Br lo fa con un’adesione quasi religiosa ad una chiesa: l’organizzazione diventa la nuova famiglia ed è poi difficile rompere i legami umani che si sono creati…
Una setta religiosa, che si prenderà tutto, che le chiederà il sacrificio di ogni aspetto umano della sua vita, compreso il distacco affettivo dalla propria figlia. Un’adesione religiosa che, anziché condurla al paradiso agognato, le riserverà una crescente desolazione interiore, un dolore non pubblico e collettivo, ma personale, proprio, privato, sino all’apice di un totale smarrimento:
Aveva condannato i suoi sogni senza saperlo, la sua anima celava ora un buco nero, così profondo da fagocitare la vita, contro il suo volere, era ormai sperduta di fronte ad un’esistenza nella quale non riusciva più a identificarsi totalmente.
In definitiva, Adriana entra nelle Brigate rosse per motivi religiosi, la sua è adesione a una chiesa, un vero e proprio atto di fede, ma - come scrive Martian - “un atto di fede rovesciato”. Non crede, Adriana, in un Dio trascendente che rimette ogni cosa al suo posto, dolore compreso, dando a ognuna il suo peso assolutamente relativo; ma affiderà la sua vita a un dio assassino e spietato che le chiederà tutto, le toglierà tutto e la lascerà sola e sperduta… con il suo dolore.
Per concludere l’analisi sulle motivazioni che hanno segnato l’ingresso delle nostre donne all’interno delle Brigate Rosse, non resta che esaminare la decisione di Margherita Cagol, che nel gruppo armato non ci entra, lei è tra quelli che lo fondano.
Di Margherita si dice che
sentiva […] come imperativo, il dover dare il suo contributo per una società migliore […] Se fosse stato necessario imbracciare un fucile, l’avrebbe fatto, perché moralmente accettabile, oltre che politicamente doveroso. […] contro un capitalismo sfrenato e disumano, che finiva inesorabilmente con lo schiacciare i più deboli.
Di fronte a tutto questo, la risposta non poteva essere quella evangelica, attinta dal cristianesimo, del porgere l’altra guancia ma quella più laica del “ribellarsi è giusto”. Sarà proprio la sua potente formazione cattolica a fornirle la determinazione utile ad agire concretamente. Una fede senza dubbi e incrinature: prima in Dio, poi nella Rivoluzione. Una scelta sovversiva da portare fino in fondo, a cui credere come si crede a un dogma.
“Una fede senza dubbi e incrinature, prima in Dio e poi nella Rivoluzione”. Ma una fede forte non porta automaticamente a passare da Dio alla Rivoluzione, dalla messa domenicale alla rivolta armata; il passaggio dall’una all’altra sponda non è così scontato, evidente e, soprattutto, diffuso. Non è, infatti, la “potente formazione cattolica” che convince Margherita a fare il grande salto nella militanza ma… prima di dare una risposta, dobbiamo fare alcune considerazioni.
Abbiamo lasciato Margherita all’università di sociologia di Trento, dove – abbiamo visto – si è iscritta più per una questione di comodità che per vocazione. Qui inizia a far parte del Movimento Studentesco dove incontra Renato Curcio. Margherita è entusiasta quando nel 1966 a Trento scoppia il Sessantotto: sfila nei cortei e prende parte all’occupazione della facoltà. Quando nel 1967 il clima idilliaco si incrina - a causa della protesta contro la guerra in Vietnam – partecipa alla formazione teorica dell’Università Negativa ideata da Curcio, dove vengono approfonditi i testi ignorati dai corsi universitari, tra i quali quelli di Mao, Marcuse, Guevara. Nello stesso anno lei e Renato entrano a far parte della rivista Lavoro Politico di ispirazione marxista-leninista. Margherita lavora con passione in redazione: fa ricerche e passa intere giornate sui libri. Più tardi, tutta la redazione aderisce – anche se per pochissimo tempo – al partito comunista marxista-leninista d’Italia, una piccola formazione con il mito di un’imminente vittoriosa rivoluzione. Agitazioni e occupazioni continuano finché nel luglio del 1969 si laurea discutendo una tesi sulle diverse fasi dello sviluppo capitalistico. Si dice che, al termine della discussione della tesi, abbia alzato il braccio sinistro con il pugno chiuso. Il professore Francesco Alberoni dirà di lei:
Devo dire che è stata una cosa assolutamente inaspettata. Come dire, non era nel personaggio. Non credevo che fosse così politicizzata.
Inizia l’università senza alcuna vocazione e la conclude con il “braccio alzato”. Margherita si è “fortemente politicizzata”. In pochi ma intensi anni di studio, ha già compiuto il primo passo importante per il salto finale nel gruppo armato: il passaggio dalla Chiesa cattolica al socialcomunismo.
Dopo aver analizzato le caratteristiche religiose del socialcomunismo, questa svolta non ci sembra più così immotivata o assurda. Abbiamo visto, infatti, come il socialcomunismo - pur essendo dichiaratamente ateo - si presenti in realtà come una caricatura del cristianesimo. Lowith, lo definisce una “forma secolarizzata del pensiero biblico” evidenziandone le similitudini; Berdjaev come una “caricatura dell’universalismo cristiano e della Chiesa cattolica”. Il socialcomunismo ha, infatti, un carattere attraente e universale nella sua lotta dei deboli e dei poveri contro i forti e i padroni e, a suo modo, fornisce una risposta (materialista) al problema della giustizia e dell’equità.
Margherita è una donna vivace, curiosa e si immerge nello studio con quella passione che le è propria. Partecipa alle attività del Movimento Studentesco; all’Università Negativa approfondisce Mao, Marcuse e Guevara, e poi le teorie del marxismo-leninismo; entra a far parte di gruppi con questa ispirazione politica, prima nella redazione di Lavoro Politico e poi nel partito comunista marxista-leninista d’Italia. Studia Margherita, si appassiona, fa ricerche passando intere giornate sui libri e, piano piano si accorge di quanto quelle teorie siano simili ai valori cattolici che le sono sempre appartenuti. Ci sono anche dei religiosi che le condividono: il frate francescano che celebrerà il suo matrimonio con Curcio lo incontra nelle battaglie del ’68. Lo sappiamo, il socialcomunismo affascinerà anche tanti cattolici secolarizzati, soprattutto dopo gli anni del Concilio Vaticano II. In realtà
si trattò di un abbaglio colossale: la violenza rimane necessaria, come lotta di classe, e funge da levatrice della storia; la discriminazione è assolutamente presente, via via nei confronti degli anarchici, dei cattolici e degli ortodossi, dei borghesi, dei compagni che non obbediscono, e di tutti coloro che si oppongono.
Anche Margherita ne rimane abbagliata… dallo studio teorico passa a quello pratico. Inizia così il periodo milanese con il relativo “autunno caldo” del 1969. Un mondo in ebollizione Milano, e un punto di osservazione privilegiato per studiare le contraddizioni del capitalismo. Tra riunioni e incontri a non finire nasce il Collettivo Politico Metropolitano, e proprio in queste occasioni Margherita e Renato conoscono i giovani che faranno parte delle future Brigate Rosse. Dopo la strage di Piazza Fontana, del 12 dicembre 1969, il gruppo si trasforma in “Sinistra Proletaria” e, per la prima volta, matura l’idea di passare alla lotta armata. Presto si trasformerà di nuovo prendendo il nome definitivo di Brigate Rosse dando inizio a quegli anni violenti e sanguinari fatti di sequestri di persona, ferimenti “dimostrativi” e una lunga catena di omicidi.
Sarà proprio Margherita a spingere per passare alla lotta armata
Margherita sceglie la lotta armata con convinzione e testardaggine, senza più voltarsi indietro. Non è Renato Curcio a trascinarla, è lei che trascina lui, nella convinzione che sia giusto, inevitabile, che quella sarà l’ultima delle guerre necessarie.
come testimoniano Curcio
Lei ha voluto l’organizzazione armata quanto me, se non più di me, è un fatto.
e Franceschini
Renato passava il tempo a elaborare teorie e a scrivere documenti politici, ma quando si trattò di passare dalla teoria alla pratica, non so cosa avremmo fatto senza Mara.
Così scrive Margherita ai genitori per rassicurarli dopo l’arresto di Curcio:
Ora che Renato non c’è, tocca a me e ai tanti compagni che vogliono combattere questo potere borghese ormai marcio, continuare la lotta. Non pensate per favore che io sia incosciente… Voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi non ce ne sono altri. Questo Stato di polizia si regge sulla forza delle armi e chi lo vuol combattere si deve mettere sul suo stesso piano…
“L’ultima delle guerre necessarie”… anche Marx lo pensava: la violenza levatrice della storia; e pure Mao: la fine del passato oscuro e l’inizio di una nuova era, e anche i socialdarwinisti: un’esigenza di natura, e molti altri rivoluzionari ancora... chissà quante volte lo aveva sentito e letto nei suoi studi “alternativi” all’università; si trattava solo di mettere in pratica quello che aveva studiato con curiosità e passione, del resto la Storia aveva avuto più di un rivoluzionario convinto della bontà della guerra.
Una “fede cattolica potente”, dunque, quella di Margherita? Direi di no, più che una fede forte il suo è un cattolicesimo secolarizzato. Del resto, più che aderire ai dogmi della Chiesa, Margherita preferisce occuparsi di volontariato, gli altri aspetti della Chiesa non l’appassionano più di tanto: è una credente “del fare” lei. Anche la “religione” ateistica e immanente di Marx e Lenin è solo azione – come abbiamo visto - così simile alla visione cattolica fattiva in cui lei si riconosce.
Una fede zoppa, mutilata, parziale, un cattolicesimo a metà. O forse solo un cattolicesimo superficiale, come le sue analisi politiche e sociali:
le descrizioni che fa della Milano del 69-70 come di una metropoli disperata, assassina, concentrazionaria, in cui masse di uomini in catene aspettano da un’ora all’altra la fiammata rivoluzionaria, sono al limite del delirio. Manca qualsiasi analisi sociale, una seria distinzione tra proletariato emarginato e operaismo garantito, un qualche confronto internazionale.
La lotta armata
Una scelta sbagliata e foriera di tragedie, frutto di un’analisi culturalmente fragile e politicamente ingenua ma mossa da un sentire leale, che questo sia l’unico modo per combattere quelle ingiustizie che, abbandonato il tranquillo nido di Trento, le appaiono insostenibili, una volta vissute in prima persona a Milano.
“culturalmente fragile”, “politicamente ingenua”… e religiosamente superficiale.
Ora possiamo finalmente rispondere alla fatidica domanda: Perché Margherita Cagol fonda le Brigate Rosse? A causa di un abbaglio colossale dovuto ad un’analisi culturalmente fragile, politicamente ingenua e a una fede cattolica monca intrisa di ideologia marxista-leninista.
Nonostante queste premesse, le Brigate Rosse vedranno l’ingresso di numerosi seguaci, divenendo una forma rimpicciolita della “chiesa” di Lenin. Più che una religione immanente, quindi, una setta, con i suoi dogmi e le sue regole, anch’essa totalitaria, discriminante verso chi non si adegua e la violenza come unico metodo per realizzare la giustizia sociale.
Non interessavano a Margherita i dogmi della Chiesa cattolica, ma sarà l’artefice di un gruppo terroristico dogmatico e violento, un dio-idolo rivoluzionario che le chiederà un prezzo sempre più alto da pagare, sino al sacrificio del bene più grande: la sua vita, all’età di soli trent’anni.
Un breve riepilogo prima di proseguire
Quattro donne completamente diverse, confluite nel medesimo gruppo armato, ognuna con il suo percorso di vita e differente motivazione, molto sinteticamente:
- Barbara Balzerani è spinta dalla rabbia
- Anna Laura Braghetti da un sogno
- Adriana Faranda da un’utopia
- Margherita Cagol da un abbaglio su tre livelli
Motivazioni non solo politiche, ma che nascondono moti personalissimi e, in generale, una ricerca di senso per la propria vita, come una mancanza che dev’essere sanata, un vuoto da riempire, un celato desiderio di trascendenza da ricercare nell’immanenza.
E’ chiaro, allora, che quanto detto finora non ci può bastare. Ci sono altri aspetti che dobbiamo considerare i quali, vuoi più all’una, piuttosto che all’altra, hanno permesso di agevolare la scelta, o di renderla dubbiosa; di procedere con audacia o di ritrarsi con irresolutezza; di ritrovarsi o di perdersi.
Gli aspetti che andremo quindi a considerare sono: la passione, la riflessione morale, essere madre, le radici, la libertà, essere come un uomo.
Passione
Margherita: dalla chitarra alla rivoltella
Margherita è una vera forza della natura. Prima, piena di interessi e di entusiasmo; sportiva; amante del volontariato; studentessa esemplare. Poi, i giorni, le notti e la sua vita con Curcio interamente assorbiti dal lavoro politico; perfezionista, concreta, sicura di sé e delle sue capacità; convinta della strada che sta per intraprendere; un vulcano di idee, sempre pronta a escogitare nuovi sistemi; una donna “del fare”: del fare tutto e subito; una ragazza forte, un vero comandante che, con la medesima abilità mostrata nell’apprendere a suonare la chitarra, impara ad usare anche la pistola
Una guerra che passa, quindi, anche attraverso la pratica delle armi, nella quale Margherita eccelle, dimostrandosi molto più brava dei suoi compagni brigatisti: impara in fretta, concentrata e determinata com’è.
Una “capocolonna”, una guerrigliera estrema e totale, testarda, idealista sino all’estremo sacrificio di sé, in nome della rivoluzione.
Una passione, quella di Margherita Cagol, che parte da radici buone e positive. Lei è mossa da un’idea di giustizia e dall’amore per il prossimo oppresso; dal desiderio di cambiare il mondo, di poterlo rendere migliore. Il volontariato con gli anziani della sua giovinezza a Trento, cede il posto, a Milano, alla lotta contro un capitalismo padrone, foriero di insostenibili ingiustizie verso le masse operaie. Amore per gli ultimi, quindi, bisogno di dare in prima persona, perché non si può cambiare il mondo restando indifferenti e delegando ad altri il compito di combattere le ingiustizie.
Le qualità per fare qualcosa di buono, di bello e di grande ci sono tutte, purtroppo Margherita si perderà sui mezzi da utilizzare: la lotta armata, la violenza come prassi, anzi, un dovere civile, l’unico mezzo per la rivoluzione contro un capitalismo sfrenato e disumano.
Margherita sentiva, quindi, come imperativo, il dover dare il suo contributo per una società migliore, poco importavano i mezzi, ciò che contava era il risultato. Se fosse stato necessario imbracciare un fucile, l’avrebbe fatto, perché moralmente accettabile, oltre che politicamente doveroso. […] Di fronte a tutto questo, la risposta non poteva essere quella evangelica, attinta dal cristianesimo, del porgere l’altra guancia ma quella più laica del “ribellarsi è giusto”. […] Una scelta sovversiva da portare fino in fondo, a cui credere come si crede a un dogma.
Barbara: il dolore sotto la rabbia
Barbara, come Margherita, si distingue da subito per la sua convinzione e determinazione nel portare avanti la lotta armata. Appena aderisce alle Br (1976) ricopre da subito un ruolo di primo piano entrando prestissimo nell’esecutivo brigatista, dove vi rimarrà per quasi nove anni, cioè fino al giorno del suo arresto (19 giugno 1985).
Sia Mara che Barbara […] sebbene in periodi molto diversi, affrontano la sfida della latitanza con una convinzione che le contraddistingue dalle tante altre donne brigatiste che attraversano lo scenario della lotta armata e della clandestinità. Il loro coraggio e la loro forza non possono passare inosservate e in tutte le ricostruzioni storiche dell’esperienza politica e militare delle Br, i loro nomi risaltano e spiccano con decisione, lasciando in un modo o nell’altro il segno.
Entrambe le donne si troveranno ad assumere la guida del Partito armato. Margherita, dopo l’arresto di Renato Curcio, oltre ad avere la responsabilità della Colonna torinese con il compito di riannodare le fila di un’organizzazione allo sbando, sarà anche colei che ne organizzerà con successo la liberazione dal carcere dove è detenuto. Analogamente Barbara, dopo l’arresto del compagno Mario Moretti, diventa la militante di anzianità maggiore ancora in libertà, assumendo la guida dell’ultima generazione delle Brigate rosse.
Pur avendo con Margherita, aspetti in comune e affinità; per ciò che concerne la passionalità, quella di Barbara ha radici opposte: non l’amore per gli ultimi e gli oppressi, ma il dolore degli ultimi e degli oppressi. Quel dolore sotto la rabbia, - che abbiamo già descritto - unito ad un senso di impotenza, sperimentato sulla propria pelle durante l’infanzia e la giovinezza a Colleferro.
Due passionalità fortissime e decisamente sbilanciate. Quella di Margherita, dall’amore verso l’incoscienza, l’irriflessione, la temerarietà, la sconsideratezza; e quella di Barbara, dal dolore verso la rabbia, il senso di riscatto, la vendetta, il furore.
La passione: vizio o virtù?
La passione è un moto della sensibilità, pertanto in se stessa non è né buona né cattiva. Questa neutralità può trasformare la passione in un vizio se associata a un’azione cattiva, o in una virtù nel caso contrario. La passione per il vino - giusto per fare un esempio - può fare di un uomo un degustatore professionale, oppure un alcolizzato.
Analogamente, la passione per gli ultimi e gli oppressi, può suscitare una Margherita Cagol, sguardo diritto e fiero e il braccio sinistro alzato con pugno chiuso, liberatrice rivoluzionaria con le armi in mano e l’intenzione di usarle; oppure una Teresa dalla schiena piegata, lo sguardo in basso verso le polverose strade di Calcutta, alla ricerca degli scartati della società, a cui tendere mani vuote ma carezzevoli che curino e fascino le ferite delle malattie più contagiose e temute.
Il fatto è che, quando si parla di passione, un’analisi morale si impone per forza, la conseguenza drammatica può essere l’annientamento di chi ne è alla mercé; come evidenzia Giovanni Paolo II:
E vero che, ove la passione sia inserita nell’insieme delle più profonde energie dello spirito, essa può anche divenire forza creatrice; in tal caso, però, deve subire una trasformazione radicale. Se invece soffoca le forze più profonde del cuore e della coscienza, si consuma e, in modo indiretto, in essa si consuma l’uomo che ne è preda.
Se si mettono a tacere cuore e coscienza, escludendo qualsiasi previa riflessione sulla bontà o meno delle azioni che si vanno a intraprendere, riducendo così al silenzio l’interiorità, è come se si concedesse “carta bianca” alla passione da cui si è presi, una totale libertà di azione in grado di trascinare chi ne è animato sino a consumarlo e distruggerlo.
Pertanto, pur non essendo in sé, né buona né cattiva, la passione può condurre l’uomo a meravigliose altezze di bontà e bellezza salvifica, o sprofondarlo in bassezze autodistruttive e mortali.
All’interno del gruppo delle brigatiste in esame, Margherita e Barbara sono quelle che più di tutte sono mosse da questo moto della sensibilità. Una “virtù” che ha condizionato le loro iniziative e azioni; una passione travolgente che, venuta a mancare una riflessione morale, ha trascinato le due donne con il moto che le è proprio conducendole rispettivamente alla morte e al carcere a vita.
Una riflessione morale
Anna Laura e Adriana: dubbi e conflitti
Il partito armato ha visto al suo interno anche donne meno pasionarie, donne che sono state attraversate da conflitti interiori e dubbi, che hanno sentito la “vocina” nel profondo e si sono interrogate sul bene e sul male delle scelte che andavano a fare. Rientrano tra queste Anna Laura e Adriana:
Esistono donne che in questo percorso restano più nell’ombra, presentandosi come figure meno nette, incisive e convinte, almeno in un primo momento (è per esempio il caso di Anna Laura Braghetti…) od offuscate e lacerate dentro. Il caso più evidente è ravvisabile in Adriana Farandra. Soffermandosi sulla sua storia, pare che questa donna esista, tra grandi conflitti, in rapporto ad una realtà con la quale non si fonde mai interamente, mantenendo un distacco, seppure sottile, dal quale non riesce a separarsi.
I dubbi di Anna Laura li abbiamo già evidenziati nella trattazione sulla decisione delle brigatiste. Abbiamo visto che Anna Laura si interroga a lungo, vuole valutare bene se la realizzazione del suo sogno di cambiare il mondo possa avvenire attraverso le Brigate rosse. Osserva come una spettatrice, rimane in platea… intanto ne viene inglobata piano piano; ma lei non entra, non è persuasa, inizia a condurre una doppia vita, divisa tra il ruolo di impiegata di giorno e di rivoluzionaria la sera. Una posizione che, con il passare dei giorni, le pesa sempre più. Non è convinta nemmeno quando si sentenzia di uccidere Aldo Moro, anche se poi accetta la decisione senza opporsi. Solo dopo l’assassinio del Presidente, quando gli eventi la travolgono totalmente, entra in clandestinità diventando una terrorista a tutti gli effetti.
Una riflessione morale, quella di Anna Laura, che rimane sempre presente e che viene interrotta solo dal precipitare della situazione. Nel momento in cui entrerà come regolare nel partito armato, cesseranno anche le sue remore morali ed inizierà ad agire come una terrorista vera e propria.
Anche Adriana non è convinta:
La Faranda, arrivata nelle Br tra mille dubbi e indecisioni, aveva sempre avuto nei confronti di quell’organizzazione, parecchie perplessità politiche.[…] Entrare nelle Brigate Rosse, avrebbe voluto dire distaccarsi, per chissà quanto tempo, dalla figlia Alexandra ma è il momento di agire, di saltare il fosso e di entrare in clandestinità. […]I primi tempi ne soffrì fortemente ma non poteva caricare di certo i compagni con la sua angoscia che forse non avrebbero nemmeno capito. […]Eppure, benché vivesse una desolazione tutta interiore, non riusciva però a nascondere fino in fondo il suo dolore, trapelava dal suo sguardo, tanto che se ne accorse persino una sua compagna brigatista, Anna Laura Braghetti. […] Adriana, durante tutta la permanenza nelle Br, assume atteggiamenti spesso contraddittori alle regole da seguire […]e si ribella all’idea di sacrificare ogni aspetto umano alla causa collettiva della rivoluzione.
Allo stesso modo di Anna Laura, non è d’accordo con la decisione di uccidere Moro, ma, al contrario di questa, Adriana si oppone apertamente con un dissenso che pagherà molto caro:
Insieme a Morucci, Adriana condivide l’opposizione alla condanna a morte di Moro, che la condurrà fuori dalle Br: inizieranno così a condurre una vita da latitanti, ricercati dallo Stato e dagli stessi ex compagni di lotta, che ora li vedevano come traditori, infiltrati e che presto li avrebbero condannati a morte.
Il Partito armato non ammette riflessioni morali
Entrare nelle Brigate rosse, significa essere costretti a rinunciare a qualsiasi analisi morale. Non è consentito fermarsi nemmeno un attimo per riflettere e per verificare se quello che si sta facendo è giusto o sbagliato; semplicemente ogni decisione che il dio-partito-armato prende è legittima e buona, perché lui ha stabilito così, questa è la sua legge e non ve ne sono altre. È a questa legge assoluta e totalitaria che i “seguaci” devono conformarsi, riflessioni sul bene e sul male non sono concesse. L’”adepto” ha perso il diritto ad ogni libero arbitrio nel momento in cui ha deciso di fare parte del gruppo armato, come dimostra questa testimonianza di una militante anonima:
Senti che incidi davvero, che conti, che la stampa parla di te ma tutto questo diventa frustrante quando dici, voglio pensare davvero, vedere se tutto questo è giusto o sbagliato, capire e chiederti come combattere lo Stato […] L’unica salvezza che hai è la durezza, devi difenderti sempre, non puoi mollare un attimo la tensione ideologica, è questo l’unico mantello di sicurezza che hai. Non puoi avere un dubbio. Se dai segni di debolezza sei finito…
L’unico sistema per soffocare e zittire la voce della coscienza, che tenta di emergere sollecitando un giudizio morale, consiste nel procurarsi una cecità volontaria e consapevole non mollando mai l’ideologia per non essere costretti a “vedere”, e poi nel reagire con durezza, un metodo, quest’ultimo, che adotta anche Adriana per reprimere tutti i dubbi e i rimorsi che ha:
se sembrano ancora più “dure” dei loro compagni è anche perché le brigatiste, rispetto agli uomini, fanno più fatica a saltare il fosso della lotta armata e quando lo fanno vogliono dimostrare a se stesse, con il massimo della coerenza, che è stata una scelta giusta.
Anche i protagonisti della rivoluzione comunista ritenevano la legge morale un inutile orpello. Lenin avrebbe affermato: “Per noi non esiste e non può esistere il vecchio sistema di moralità e di umanità […]. La nostra moralità è nuova […]. A noi tutto è permesso […]. Sangue? E sangue sia…”. Mentre Stalin avrebbe detto: “Ivan il Terribile era estremamente crudele. Ma bisogna far vedere perché doveva essere crudele. Uno degli errori di Ivan il Terribile sta nel fatto che non ha sterminato fino alla fine cinque grandi famiglie feudali […] lui ammazzava qualcuno e poi pregava e si pentiva a lungo. Dio era per lui un impaccio in questa opera. Bisognava essere ancor più risoluti”.
Appunto, assoluta coerenza e fedeltà alla propria matrice di provenienza.
Madri e rivoluzione
La maternità e l’essere madre è un altro di quegli aspetti che è andato a incidere sulle decisioni e sul percorso delle brigatiste. Una componente propria e esclusiva dell’essere donna che si è intrecciata e mescolata tra le rivoluzionarie e la rivoluzione; che ha creato lacerazioni e sofferenze, come a evidenziare una incompatibilità di fondo tra il diventare madre e la lotta armata, tra il “dare la vita” e il “dare la morte”.
Margherita: la maternità sottratta
Siamo all’inizio del 1971 - il gruppo è già passato alla lotta armata, ma non è ancora clandestino -, quando Margherita scopre di aspettare un figlio. Il bambino è subito accolto con gioia da lei e Renato, visto che è da tempo che lo desiderano. Iniziano così a fare quei progetti che ogni coppia sposata fa quando si concretizza un lieto evento del genere anche se, nel loro caso, vi è in più la necessità di conciliare la cura del piccolo con gli impegni politici che occupano la totalità delle loro vite. I coniugi Curcio sono uniti e felici e certi di riuscire nell’impresa, anzi, quel bambino che aspettano potrebbe essere l’occasione per rimettere tutto in discussione, visto che scelte definitive non ne hanno ancora fatte.
Appena un mese dopo, Margherita e Renato prendono parte a durissimi scontri con la polizia, in seguito a un’occupazione di case organizzata a favore dei proletari in un quartiere di Milano. E accade la tragedia: Margherita viene arrestata e le percosse inflittele dagli agenti le causano la perdita del bambino. Il fermo di polizia e la perquisizione nel loro appartamento provoca anche il licenziamento di Renato dalla Mondadori dove lavora. Sarà dopo questi avvenimenti che prenderanno la decisione di cambiare casa e, poco dopo, di optare definitivamente per la clandestinità.
Un figlio, quello aspettato da Margherita, desiderato, accolto e amato da subito. Un bimbo che la rivoluzione si è portato via, sottraendoglielo con la forza, strappandoglielo violentemente dal grembo, e con esso annientati anche tutti i progetti e il senso di famiglia che si completa; ma soprattutto cancellato col sangue, di quel ventre prima traboccante di vita poi mortifero e vuoto, il suo essere madre.
Perché madri si è, non già quando il figlio nasce, ma subito, quando minuscolo e impercettibile agli occhi si radica e cresce nel profondo, intessendo un silenzioso dialogo di amore come un filo invisibile che dalla pancia si unisce al cuore.
Una madre sa cosa significhi perdere un figlio, anche se non è ancora nato; con un più di dolore e sofferenza se il figlio era desiderato e accolto, ma con un sovrappiù di angoscia e strazio se quel bimbo è andato perduto a causa dei propri ideali, a cagione di quella rivoluzione e quella lotta armata che sono state messe a fondamento del proprio agire.
Credo che dopo la perdita del figlio lei non abbia più pensato alla sua vita in termini “normali”, vale a dire con la prospettiva di una famiglia… certo, se fosse nato quel figlio credo che la vita sua come quella di Renato sarebbe stata profondamente diversa
Così testimonia il compagno di lotta Franceschini.
Una sola strada si apre ora davanti, fare in modo che un sacrificio così incommensurabile non sia stato inutile, che questa perdita immensa possa avere almeno un significato: credere nei propri ideali fino in fondo; sacrificare se stessa in maniera totale, estrema, assoluta per la causa rivoluzionaria; unire alla passione degli ideali, il dolore per la perdita e la rabbia moltiplicata per uno Stato di polizia odiato; dare tutto col rischio di perdere tutto fino all’annientamento, come è successo al suo bambino che d’improvviso non c’è più.
Barbara: la maternità rifiutata
Della maternità mancata di Barbara abbiamo solo un accenno, solo un piccolo pensiero:
cosa mi attraversava la mente alla vigilia del mio ingresso nelle Brigate Rosse?... Avrei dovuto riflettere su quanto sarebbe mutata la mia vita. (…) anche per me si avvicinava il tempo di mettere da parte, fino a conservarli solo nell’amorevolezza del ricordo, affetti, amicizie, vissuto e prospettive di futuro… compresa le gelida sensazione di sterile vuotezza per l’amore di quel figlio che non ho consentito di crescermi dentro.
Barbara rinuncia volontariamente alla maternità, una rinuncia consapevole la sua: lei non vuole essere madre.
Un rifiuto, se vogliamo, coerente con il percorso di vita che ha scelto: una donna che sceglie la lotta armata, che accetta di usare le armi e di sparare per uccidere, può sentirsi incompatibile con una natura che genera, sebbene sia innata.
“Avrei dovuto riflettere su quanto sarebbe mutata la mia vita”…- dice Barbara - entrare nelle Brigate Rosse non le avrebbe consentito di diventare madre. Dopotutto, come conciliare il “dare la vita” con il “dare la morte”, il “venire al mondo” con il “mandare all’altro mondo”? Non è facile passare dall’uno all’altro ruolo senza provare il benché minimo turbamento, senza non sentirsi attraversare neppure da un brivido.
Sembra che Barbara avverta questa incongruenza, questa inconciliabilità e così pronuncia il suo “no”. Nonostante ciò, quella maternità rifiutata, non cancella l’intimo e innato sentire materno che – pur sperimentato per pochissimo tempo – come un piccolissimo seme di fiore ha attecchito, è cresciuto ed è sbocciato. Quando parla del suo bambino non nato, è con un sentire di madre che lo chiama “figlio”, ed è con quel sentimento profondo e viscerale delle madri, che parla dell’“amore di quel figlio”; un figlio rifiutato che ha lasciato una “gelida sensazione di sterile vuotezza” ma che non ha soffocato quell’amore di madre che le madri portano con sé, anche se interrotte o mancate. Quell’amore capace di generare una nuova vita, così agli antipodi da quello strumento di morte che sono diventate le Brigate Rosse: “sì” vorrebbe dire andarsene, “no” restare, Barbara resta.
Adriana: una madre
Adriana, quando entra nelle Brigate Rosse è già madre, ha una figlia di nome Alexandra ma, per portare avanti la rivoluzione totale in cui crede, si convince che tutto deve essere sacrificato anche il ruolo di genitore.
Nella pratica questo suo proposito fallirà, i legami di sangue continueranno a farsi sentire creandole conflitti e desolazioni interiori, nonché una non celata insofferenza verso le regole totalitarie imposte dal partito armato, il quale - come sappiamo - esige distacco totale dalla vita di prima e assoluta abnegazione alla causa collettiva.
Adriana si ribella non interrompendo mai completamente i contatti con la sua famiglia, perché sono l’unico mezzo per avere notizie della figlia. Per averla vicina, seppur in modo virtuale, sceglie proprio Alexandra come nome di battaglia; ma tutto questo non è sufficiente, Adriana non è felice, e non riesce a nasconderlo, tanto che la compagna di lotta Anna Laura Braghetti se ne accorge:
Adriana parlava con gli occhi. E i suoi nerissimi e sempre lucidi, dicevano con chiarezza che era triste. Che si portava dentro un’eterna malinconia, un magone ignoto agli altri.
Sono proprio i tormenti per il distacco dalla figlia a mantenere vivi i dubbi iniziali nutriti nei confronti delle Brigate Rosse. Un “dogma” - quello di sacrificare ogni aspetto umano alla causa collettiva – che non condivide, che non accetta e che la fa stare male. E’ proprio questo malessere a condurla verso una riflessione morale, ad interrogarsi sulla bontà o meno della propria scelta.
Ed è come reazione a questa imposizione, a questo sacrificio che per lei è troppo grande, che si comporta con estrema fermezza e durezza, come lei stessa testimonia:
se sembrano ancora più “dure” dei loro compagni è anche perché le brigatiste, rispetto agli uomini, fanno più fatica a saltare il fosso della lotta armata e quando lo fanno vogliono dimostrare a se stesse, con il massimo della coerenza, che è stata una scelta giusta. Le donne che per loro natura sono più portate a scelte solidaristiche ci si dedicano quindi con la stessa passione totalizzante con cui si dedicano all’amore per il proprio uomo e con cui curano i figli.
Insomma, visto che il prezzo da pagare è così alto tanto vale essere coerenti fino in fondo, crederci fino all’ultimo agendo in modo estremo e radicale; come ricorda anche il suo compagno di vita e di lotta Valerio Morucci:
Seguire le regole le costava un enorme sacrificio, eppure generalmente era molto pignola… Come le altre donne che militavano nelle Br, anche Adriana si comportava con estrema fermezza. Insomma anche se la guerra era estranea alla sua natura, proprio perché l’aveva intrapresa facendo innanzi tutto violenza su se stessa, agiva in un modo estremo e radicale…
Un agire estremo e radicale che, non solo non sanerà i suoi tormenti, ma che li amplierà, li dilaterà sino a precipitarla in un profondo smarrimento esistenziale.
Le madri sono madri per sempre
“La maternità è un fatto fisico. […]. Le donne restano sempre lì, accanto ai loro figli, restano madri. Per vocazione, per natura, per istinto, per convenzione, per tradizione... non so, comunque non scappano, non mollano. Le madri sono madri per sempre, non esistono le ex madri, come non esistono gli ex assassini: se hai dato la vita, se hai tolto la vita farai sempre i conti con quello che hai fatto. Nel bene, nel male. Dolorosamente, felicemente, nel profondo.”
E questo vale anche se il figlio non è mai nato come osserva - con un’analisi tutt’altro che morale o religiosa - il noto professore di psicologia della personalità Aldo Carotenuto: “Se possibile, quindi, l’aborto dovrebbe essere evitato in tutti i modi e questo non per particolari valori o principi, ma semplicemente per il fatto che la ferita che un aborto lascia aperta nell’anima della donna non si rimargina mai. Il ricordo, le emozioni, il pensiero per il figlio che sarebbe potuto nascere ma che è stato strappato non si affievoliscono e continuano a tormentare la persona giorno dopo giorno. […] Abortire equivale a distruggere un’opera d’arte, è come se un grande pittore, creato un bellissimo quadro, lo distruggesse all’improvviso. Eliminare un’opera immortale, non è un’azione sulla quale si può passare sopra, rappresenta un grande problema che mai potrà essere del tutto superato. La perdita di un figlio, quindi, è un aspetto delicatissimo e difficile nell’esistenza di una donna, un aspetto con il quale occorre fare i conti”..
Radici
Abbiamo già osservato come - la condizione tassativa per entrare nel gruppo armato di recidere vita e legami precedenti -, abbia creato grandi conflitti a Adriana a causa della sua condizione di madre, e ad Anna Laura, che si ritroverà a vivere una doppia vita; dobbiamo ora vedere qual è stato il rapporto delle pasionarie Margherita Cagol e Barbara Balzerani con questa ferrea regola, ovvero con il distacco dalla propria famiglia come conseguenza della clandestinità.
Margherita: amate radici
Il legame profondo e connaturato con le proprie origini, sarà una costante in tutto l’arco della vita di Margherita. Un amore grande e assolutamente ricambiato: la sua famiglia non le farà mai mancare l’affetto e il sostegno, nemmeno durante gli anni più duri della clandestinità.
Sappiamo che Margherita trascorre un’infanzia e una giovinezza felici, sappiamo poi che la scelta dell’università da frequentare avverrà esclusivamente sulla base della vicinanza di questa alla propria casa. Durante gli anni di studio – come ricorda Renato Curcio – non frequenterà più di tanto l’ambiente del Movimento Studentesco, perché il padre vuole che la sera sua figlia rientri a casa presto. Margherita non si ribella, lui è un genitore affettuoso e presente e accettare le sue regole non è mai stato un problema. Quando entra a far parte della redazione di Lavoro Politico - mentre Renato è in viaggio da una città all’altra del sud - è proprio lei a tenere saldi anche i contatti con la famiglia di lui, scrivendo alla cara mammy per aggiornarla sull’attività politica del figlio. La decisione del luogo dove celebrare il matrimonio con Renato – dopo la laurea - ricadrà sul Santuario di San Romedio nella Val di Non al fine di non creare rotture con i propri cari, nonostante abbia ormai deciso di farsi una nuova famiglia con l’uomo che ama.
I coniugi Curcio si trasferiscono a Milano e – benché abbia ormai acquisito una totale libertà dalle vecchie regole familiari – Margherita non interrompe i contatti e, appena l’attività politica glielo consente, scrive lunghe lettere alla madre per raccontarle della sua nuova vita e di quello che fa. È in questo periodo che la vita di “Mara” comincia a correre, prima con le lotte e gli scontri di fabbrica, poi con la decisione di passare alla rivolta armata, infine con la scelta della clandestinità. Nonostante siano mesi caotici e confusi, trova comunque il tempo di rassicurare i genitori:
Abbiate fiducia nelle mie capacità e nella mia ormai grossa esperienza. So cavarmela in qualunque situazione e nessuna prospettiva mi impressiona o impaurisce. Vi voglio più bene che mai.
anche quando si trova costretta a prendere in mano la Colonna torinese dopo che Renato è stato arrestato e quando tutti i giornali li dipingono come pericolosi e sovversivi:
Ora che Renato non c’è, tocca a me e ai tanti compagni che vogliono combattere questo potere borghese ormai marcio, continuare la lotta. Non pensate per favore che io sia incosciente… Voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi non ce ne sono altri. Questo Stato di polizia si regge sulla forza delle armi e chi lo vuol combattere si deve mettere sul suo stesso piano…
Solo dopo la scelta definitiva della clandestinità Margherita non comunicherà il nuovo indirizzo ai familiari. Ora è diventata un soldato effettivo, sa che non può voltarsi indietro perché la sua vita di prima non esiste più. Adesso ha una nuova famiglia che, oltre al marito, include anche i compagni della lotta armata con i quali condivide il sogno di ribaltare il sistema. Ma, come testimonia Franceschini:
“… Mara era sempre in prima linea. Nell’organizzazione, nel pensare nuove campagne, nell’immaginare future operazioni. Aveva solo un grande problema: il rapporto con la sua famiglia, con la madre in particolare. Viveva in maniera lacerante l’idea di dare un dispiacere ai genitori e alle sorelle, aveva dei fortissimi sensi di colpa. Per quel che poteva, cercava di spiegare le sue ragioni. Poi, con la clandestinità, ha dovuto per forza tacere una parte della sua vita e ne soffriva perché sapeva che i suoi genitori erano preoccupati…”
la brigatista Mara
non riuscirà mai davvero ad abbandonare la sua “vecchia famiglia”, lei così esigente, con sé e con gli altri, talmente rigida nella convinzione di dover sacrificare tutto alla causa, non si libererà mai dall’idea di dover ricevere, in qualche modo, se non l’approvazione, almeno la comprensione dei suoi cari..
Barbara: odiate radici
I legami familiari dell’infanzia e della prima giovinezza di Barbara Balzerani sono diametralmente opposti a quelli di Margherita. Abbiamo già osservato come Barbara abbia un mucchio di buoni motivi per andarsene così giovane dalla casa nativa. Lei quel posto lo detesta. Detesta Colleferro e tutta la sua gente con quel modo di fare intriso di sensi di colpa e di rassegnazione; detesta il lavoro opprimente delle fabbriche e lo sfruttamento palese e iniquo perpetuato dai padroni; detesta la scuola come istituzione dove non vi trova alcuno stimolo culturale; ma soprattutto Barbara non sopporta la sua famiglia: il padre, con il quale ha una forte conflittualità che influenzerà le sue relazioni future con gli uomini ma, più di tutto, la madre Maria, verso la quale nutre un profondo odio.
Una donna avara di carezze e sempre stanca, rassegnata verso le ingiustizie, i sacrifici e le mortificazioni del lavoro di fabbrica; una madre fredda, colpevolizzante e sadica, l’estranea da evitare quando rientra a casa.
Appena l’età glielo consente, Barbara scappa via, lasciandosi alle spalle quel mondo nella sua totalità, quel mondo dove non si è sentita amata, che non le ha fornito risposte e nel quale non ha mai sperimentato alcun senso di appartenenza; via lontano, verso la capitale, a Roma dove tutto può accadere, anche diventare una brigatista. Sarà proprio durante la militanza nelle Brigate Rosse che Barbara troverà tutto quello che non ha mai avuto e che anelava: l’affetto dei compagni di lotta, l’amore di Mario Moretti il suo uomo ideale, la voglia concreta di lottare contro la rassegnazione e le ingiustizie a tal punto che, per la prima volta nella sua vita, nel Partito armato si sentirà veramente a “casa”.
Sino a qui, il percorso di Barbara – pur nella sua radicalità – può apparire comprensibile e plausibile, se non si verificasse una strana incongruenza: quando si tratta di scegliere il nome di battaglia lei opterà per “Maria”. Ecco allora sorgere delle comprensibilissime domande: Come è possibile, ma Barbara, non la odiava sua madre? Non rappresentava Maria tutto quello che aveva sempre rifiutato? Non era la madre un’estranea da evitare, fredda, colpevolizzante e sadica? Perché, allora, scegliere proprio il suo nome? Perché tenersela così vicina – come nel caso logico di una Adriana che diventa “Alexandra” – in questo nuovo e felice percorso intrapreso come conseguenza del rifiuto del vecchio mondo di cui “Maria” è l’emblematica immagine?
La sua infanzia è caratterizzata da un odio folle e disperato verso i padroni, verso il quartiere operaio in cui è cresciuta, odio specialmente nei confronti di quella madre che appare fredda, colpevolizzante e sadica, ma che avrebbe comunque tanto amato da scegliere il suo nome, “Maria”, quando entrerà nelle Br, anche se poi lo cambierà in “Sara”.
Era amore, dunque, e non odio, quel sentimento che l’ha fatta scappare dalle sue radici senza voltarsi indietro a soli diciannove anni, per buttarsi con assoluta convinzione nella lotta armata? Oppure c’è dell’altro?
Più che un amore celato sotto l’odio, quello che qui emerge è un bellissimo perdono. Quando Barbara sceglie come nome di battaglia quello della madre e come se le dicesse: “mamma ti perdono”; “mi hai fatto soffrire tanto con la tua durezza e avarizia affettiva, ma io ti perdono”; “ti perdono perché ho capito che forse il tuo comportamento freddo era causato dal pesante e alienante lavoro in fabbrica, che si prendeva tutte le tue energie privandoti dei sorrisi e delle carezze che mi avresti voluto dare”.
Ma non c’è solo perdono in quel “Maria”, emerge anche un senso di riscatto, un farsi paladina contro le ingiustizie: “tu mamma, non hai avuto la forza di ribellarti, o forse non hai potuto, hai subito in silenzio e rassegnata, ma adesso ci sono qui io a vendicarti, ci penso io a combattere anche per te, per sconfiggere questo sistema disumano che ha rovinato la serenità della nostra famiglia e la mia infanzia; ora, mamma, prendo il tuo nome e andiamo a combattere, io e te insieme, finalmente unite contro le iniquità”.
Quel “Maria” è una vera e propria riconciliazione. Solo dopo questa tenerissima elaborazione del doloroso passato, Barbara potrà buttarsi anima e cuore nella rivoluzione con quella passionalità che abbiamo già trattato; è a questo punto che il nome potrà essere nuovamente cambiato: è tempo di spiccare il volo e di lottare con tutte le forze anche per sua madre.
I mezzi saranno tutti sbagliati, la lotta armata si rivelerà un fallimento e il volo terminerà con una rovinosa caduta, ma questo perdono, così difficile da concedere, rimane un fatto assolutamente dolcissimo.
Senza radici non si vola
L’indagine psicologica ha ormai appurato che per poter spiccare il volo verso una vita autonoma, occorre dare un significato al proprio passato, prendere in considerazione le proprie origini sulle quali nessuno può vantare una libera scelta, perché le radici, come la vita, ci sono date.
Per avere ali forti che non si rompano al primo temporale, occorre quindi esplorare e comprendere queste radici che attecchiscono, prima di tutto, nel terreno degli affetti familiari. Il legame con i propri genitori è, quindi, un vincolo incancellabile, la cui natura più radicale non può essere cambiata perché si è padre e madre, figlio e figlia per sempre; ne consegue che la pretesa di liberarsi, con un semplice colpo di spugna del proprio passato, è pura ideologia, come ci hanno dimostrato, di fatto, i comportamenti e i moti interiori delle quattro brigatiste in esame.
Uno dei “dogmi” per entrare a far parte delle Brigate rosse è proprio questo distacco radicale dalla vita di prima con tutto quello che essa porta con sè, come se fosse sufficiente enunciare il principio teorico per realizzare in automatico la separazione. I legami familiari sono visti soltanto come un intralcio alla causa rivoluzionaria, visto che rappresentano un’imposizione involontaria alienante e repressiva dai quali bisogna liberarsi e dai quali si vogliono affrancare tutti quei giovani che hanno aderito alle contestazioni del Sessantotto di cui anche Margherita, Barbara, Anna Laura e Adriana sono figlie.
La loro vicenda ci ha dimostrato - come era prevedibile - che una separazione meccanica di questo tipo non è possibile. Per poter spiccare il volo verso una propria vita autonoma, i legami non vanno cancellati, ma compresi. Non è detto, infatti, che ogni vincolo involontario sia cattivo e che ogni emancipazione da esso sia buona, perché è la qualità del legame che lo rende positivo o negativo. Lo abbiamo visto, per Margherita è stato difficilissimo separarsi dai genitori – e di fatto non avverrà mai - perché ha sempre avuto con essi un legame bellissimo, colmo di affetto, di comprensione e di sostegno. Contrariamente a Barbara, per lei scappare via è stata la logica conseguenza di rapporti familiari freddi e conflittuali ma, prima di poter spiccare il volo, ha dovuto “fare i conti” con la madre, non ha reciso di netto, ha dovuto attribuire un significato alla vita di prima: per poter arrivare a “Sara” è dovuta prima passare attraverso “Maria”.
A Adriana è andata ancora peggio, l’abbiamo visto, tormentata dai dubbi e dai sensi di colpa, non riuscirà mai a staccarsi dalla figlia Alexandra, ed anche Anna Laura, seppur con legami affettivi meno stretti, non rinuncerà - fino al precipitare degli eventi - ai contatti telefonici con le zie.
Non si possono sradicare dalla sera alla mattina, con una imposizione automatica, quelle radici che hanno fatto di noi quello che siamo che abbiamo attecchite dentro, senza che ne vengano strappati via anche pezzi di cuore; nel bene come nel male: pezzi di amore e pezzi di dolore.
“Si può decidere liberamente di aderire ad un gruppo terroristico e, viceversa, si può riconoscere un segmento originario del nostro esistere, intessuto di legami involontari: non abbiamo scelto di nascere, non abbiamo scelto i nostri genitori, come pure la comunità territoriale o nazionale, con l’intero corredo di valori, usi e costumi cui si dà solitamente il nome di ethos. Questa rete di legami involontari può essere la tomba, oppure l’orizzonte della nostra libertà.”.
E visto che l’abbiamo chiamata in causa è proprio di lei che ora andremo ad occuparci.
La libertà
La libertà, ovvero il concetto di liberazione è lo “spirito guida” delle contestazioni del Sessantotto, è il principio base fondamentale di ciascuno dei tre rami in cui si declinerà il Movimento. Liberazione - per gli studenti - da strutture politiche e educative autoritarie e arretrate; liberazione - per l’operaio-massa - da una struttura di fabbrica alienante, gerarchica, rigida e dispotica; liberazione - per le femministe - dal ruolo tradizionale della donna quale casalinga, moglie e madre. In generale, ciò che unifica la protesta del Sessantotto, è la liberazione da qualsiasi forma di autorità in quanto tale.
La rivoluzione, come è noto, non vi fu, e il movimento rifluì rapidamente, mentre alcune sue frange imboccavano la strada radicale e distruttiva della lotta armata che andrà avanti per un decennio: il terrorismo “rosso” praticato da gruppi di estrema sinistra e il terrorismo “nero” di marca fascista; sarà proprio quest’ultimo l’artefice della strage di piazza Fontana, in un primo tempo erroneamente attribuita alle Brigate rosse.
Il terrorismo “rosso” si pone quindi l’obiettivo di realizzare la liberazione che abbiamo descritto, attraverso un moto rivoluzionario armato e violento nel quale le donne brigatiste fanno la loro parte agendo esattamente come i brigatisti uomini.
Donne, tutte con lo stesso denominatore comune: “il fare”. L’agire per mutare una situazione non più sostenibile. Perché il motivo che sta alla base di tutte le scelte che oltrepassano il limite della legalità, assumendo la violenza come parola chiave dell’azione, scelte armate che valicano quel confine lecito e ancora sostenibile, sono comunque tutte riconducibili al desiderio di un cambiamento. Così, di fronte ad una strada già fissata, nasce in alcune donne la voglia della rottura totale di tutti gli schemi, il desiderio dell’avventura, del prendersi tutto rifiutando tutto, con un’uscita spettacolare da ogni struttura e sistema legale. La lotta armata dunque, è stata l’unica realtà politica italiana (a parte, ovviamente, il femminismo) in cui le donne risultano abbondantemente rappresentate. […] Rivoluzione e lotta di classe restano il mezzo per uscire dal “ghetto” della propria esistenza, rimangono gli unici mezzi di liberazione per l’uomo e per la donna.
Negli anni Settanta, quindi, le Brigate rosse innescano una lotta armata rivoluzionaria esordendo con una serie di spettacolari sequestri di persona ai danni di magistrati e personalità del mondo imprenditoriale e sindacale per poi passare a ferimenti “dimostrativi” e, infine, a una lunga catena di omicidi di giudici, politici, giornalisti, industriali ed esponenti delle forze dell’ordine.
Oltre ai numerosissimi morti tra le forze di pubblica sicurezza, il Partito armato colpì anche semplici operai come il genovese Guido Rossa, colpevole di aver denunciato alla polizia infiltrazioni di brigatisti nelle fabbriche; poi giornalisti come Carlo Casalegno vicedirettore della “Stampa”, e Walter Tobagi, del “Corriere della Sera”; professori universitari come Vittorio Bachelet fino ad arrivare al sequestro e poi all’assassinio di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, che segnò il punto culminante del terrorismo italiano.
Fu proprio questo evento - che suscitò una forte reazione nella coscienza popolare e nelle istituzioni – a segnare l’inizio del declino delle Brigate rosse. Avvalendosi di speciali decreti antiterrorismo e di normative che riducevano la pena ai terroristi “dissociati” o “pentiti”, la magistratura e la polizia riuscirono, nel giro di alcuni anni, a sgominare l’intera organizzazione.
Dall’utopistica liberazione alla prigionia reale
La prima ad essere arrestata è Adriana Faranda catturata insieme al compagno Valerio Morucci in casa di Giuliana Conforto nel maggio 1979, esattamente un anno dopo l’assassinio di Aldo Moro. Da allora Adriana ha girato quasi tutte le carceri italiane provviste di una sezione femminile. È stata in isolamento, in carceri speciali, in celle affollate e, dopo 16 anni di prigione, dal 1995 è libera.
Poi è la volta di Anna Laura Braghetti arrestata nelle vie del centro di Roma nel maggio 1980 (esattamente due anni dopo l’uccisione di Moro) e condannata all’ergastolo. Sconterà la sua detenzione in molti penitenziari italiani tra i quali quattro durissimi anni nel supercarcere di Voghera. Nel 1994 ha ottenuto il permesso di lavorare fuori dal carcere e nel 2002 la libertà condizionale.
L’ultima ad essere arrestata è Barbara Balzerani catturata all’uscita di un’abitazione a Ostia nel giugno 1985 (sette anni dopo l’uccisione del presidente della Dc). Ha sulle spalle varie condanne e l’ergastolo per l’omicidio di Moro. Attualmente è in regime di “semi carcerazione”: di giorno lavora in una società informatica, di sera deve rientrare in carcere.
Margherita Cagol non farà in tempo ad essere arrestata, muore il 5 giugno 1975 (tre anni prima del sequestro Moro) uccisa dai carabinieri durante uno scontro a seguito del rapimento dell’industriale Vittorio Gancia.
L’ideale di libertà, il sogno di liberazione e cambiamento - attuato con la forza e la violenza e condotto con una guerra quasi militare - non solo non si è realizzato, ma si è beffardamente concluso, per tutte, con la perdita della propria libertà.
Per Adriana, Anna Laura e Barbara il sogno termina in una cella dietro le sbarre del carcere e, per Margherita, in una bara nel cimitero. La fondatrice delle Br è colei che subirà le perdite maggiori in quella che si paleserà come una sconfitta totale: prima la perdita del proprio figlio e poi la perdita della propria vita.
Infatti, se consideriamo il percorso intrapreso dalle quattro donne dall’inizio - partendo dall’ingresso nel Partito armato fino ad arrivare alla cattura -, possiamo osservare come le loro vite siano state attraversate da un continuo crescendo di perdite inversamente proporzionale all’autonomia e libertà personali: perdita dei legami e degli affetti della vita di prima, perdita della propria individualità, perdita della libertà di pensiero e della possibilità di critica, rinuncia ad una riflessione morale, perdita di un figlio, rinuncia a diventare madre e rinuncia a essere madre, perdita della libertà di movimento prima con la clandestinità poi con il carcere, perdita della vita.
L’ideale di libertà/liberazione di partenza è diventato, alla fine, una prigionia concreta. Non il nuovo orizzonte auspicato, ma una cella sbarrata e angusta. Una tomba vera per Margherita e una tomba figurata per Adriana:
L’arresto fu come una morte. […] la fine era raggiunta improvvisa e rapida come giunge la notte.
o una situazione ferma e ormai priva di una meta da raggiungere, molto simile all’immobilità senza vita dei cimiteri, come racconta Barbara:
All’improvviso tutto si ferma. E dunque la galera. […] Gli anni passano senza lasciare tracce significative. Si aspetta sempre qualcosa, in un tempo che non è mai presente. Che a volte corre e scivola via e, quasi sempre, rimane irrimediabilmente fermo. In ogni caso non si fa appartenere come è sempre quando la vita è vissuta altrove.
Tre sorelle inseparabili
La “Libertà” non è figlia unica ma appartiene a un trio di sorelle inseparabili, così unite tra loro in un rapporto di dipendenza reciproca che, se una di esse viene a mancare, automaticamente entrano in sofferenza fino a morirne anche le altre due. Le tre sorelle in questione sono: la “Libertà”, la “Coscienza” e la “Dignità”.
La libertà l’abbiamo appena analizzata. Viene qui vista non in chiave positiva, cioè come tensione verso il bene partendo da una comprensione delle proprie radici e quindi da un’attribuzione di senso a quell’intero corredo di affetti e valori, usi e costumi, comunità, tradizioni e periodo storico nel quale ciascuno e nato e cresciuto pur non avendolo scelto. In questi anni sessantottini, che traggono le loro radici dalle teorie illuministe e del contratto sociale, la libertà è considerata solo in chiave di rottura totale, come un’emancipazione da tutti i condizionamenti involontari e da qualsiasi autorità in quanto tale. Condizionamenti e autorità che imprigionano l’individuo impedendogli di seguire la sua propria ragione e dai quali bisogna perentoriamente liberarsi, anche attraverso l’uso della forza, come nel fenomeno del terrorismo.
Anche della coscienza abbiamo, in un certo senso, già parlato quando abbiamo trattato della riflessione morale delle brigatiste e della direzione da dare alla neutralità della passione. La coscienza è quella voce interiore che spinge l’uomo ad interrogarsi sul bene e sul male. È un’istanza costitutiva della natura umana, un carattere innato il quale, sia che si appartenga alla schiera dei credenti – identificando in questa la voce di Dio che interpella l’uomo –, che a quella dei non credenti – identificando in essa una “ignota” tensione al bene –, proviene da un unico seme. Coscienza “naturale” e coscienza “cristiana” dal punto di vista qualitativo sono la stessa cosa; la tensione a fare il bene e ad amare è identica in ciascun uomo perché si trova “scritta nel suo cuore”. Di fronte alla coscienza che lo interpella, l’uomo (credente e non credente) si trova, quindi, di fronte a un bivio: scegliere il bene e agire di conseguenza ponendo in essere un atto buono; o rifiutare consapevolmente questa tensione al bene e agire contro di esso ponendo in essere un atto malvagio.
L’uomo è libero di fare la sua scelta verso il bene o verso il male. Una scelta, questa, che non sarà mai neutra, infatti, ciascun atto compiuto comporta anch’esso delle conseguenze buone o cattive, sia verso se stessi sia verso chi è direttamente o indirettamente coinvolto nella scelta compiuta.
Una delle conseguenze più gravi che può ricadere su se stessi - dovuta a una attitudine amorale costante volta ad evitare ogni domanda scomoda e a porsi volutamente contro questa istanza - è una coscienza malfunzionante e guasta. In questo caso la coscienza può diventare essiccata e sterile, oppure talmente elastica da coprire tutto, completamente disabilitata a distinguere il bene dal male e ad avere quel rigurgito di vita morale che è il rimorso. Ecco che allora tutto diventa lecito, anche fare una rivoluzione armata e uccidere senza pietà. La violenza diviene una prassi, quasi un dovere civile; un atto ripetitivo e naturale che non scompone né sconvolge; una cosa buona e giusta per realizzare quella liberazione innalzata a valore assoluto e senso ultimo del proprio agire.
Si vede chiaramente che, quando la libertà è sganciata da qualsiasi riflessione morale e la coscienza ammutolisce, ne viene irrimediabilmente compromessa anche la dignità umana. L’uomo perde ogni valore, la vita non ha più alcun significato: assistere alla morte dei compagni di lotta e morire durante un’azione diventa un dato di fatto, uccidere una cosa normale e necessaria.
Ma che cos’è la dignità? Ovvero, qual è l’opzione che rende ogni essere umano unico e irripetibile e fa della vita il valore più grande?
Dal punto di vista cristiano, la roccaforte della dignità umana e dei diritti umani è data da due condizioni fondamentali derivanti dalle Scritture: il fatto che l’uomo sia stato creato a immagine e somiglianza di Dio e perciò sta sotto la protezione personale di Dio, è “sacro”; e la condizione di fratellanza di tutti gli uomini che li rende un unico uomo in quanto provenienti da un unico padre “Adamo” e da un’unica madre “Eva”. La figliolanza e la fratellanza verranno definitivamente sigillati da Gesù (il secondo Adamo) che morirà per tutti per salvare tutti, riunendo gli uomini nell’amore fraterno e nella filiazione a Dio. Tutta la “vecchia” legge viene infatti radicalizzata e semplificata da Gesù con il bellissimo paradigma dell’amore al Padre e al prossimo..
Da quanto abbiamo appena detto ne consegue forse che chi non crede in Dio può sentirsi autorizzato a non concedere alcuna dignità all’uomo? Niente affatto, anche per i non credenti è possibile pervenire alla dignità assoluta di ciascun essere umano con quella che viene comunemente definita la “regola d’oro” e che dice: “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”, valida anche nella sua accezione positiva: “fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te”. Una legge “laica” universalmente riconosciuta, sulla quale non è ammessa ignoranza.
Donne come gli uomini
L’ultimo aspetto di cui ci occuperemo che ha accomunato tra loro le donne brigatiste è l’equiparazione femminile al modo di agire maschile.
All’interno del gruppo armato, infatti, non esistono motivi di donna ma di “ordine generale”: la lotta contro lo sfruttamento, la rivoluzione per ribaltare il sistema; obiettivi neutri, da uomo come da donna. Le brigatiste, quindi, sono dei soldati, e, al pari dei compagni di lotta, partecipano alle azioni più dure e impegnative servendosi delle armi con freddezza e padronanza di sé, e con la consapevolezza che sparare è anche uccidere.
Abbiamo già osservato come sia stata Margherita Cagol a spronare il gruppo per passare alla lotta armata e come abbia imparato presto e bene a destreggiarsi con le armi, superando in determinazione e abilità i brigatisti uomini. Una capacità dimostrata anche dalle altre come conferma la testimonianza di una donna vicina al gruppo delle Br:
vi dico che le donne non hanno proprio nessun problema a prendere le armi e a sparare. Sono proprio bravissime… io penso addirittura che la donna nel rapporto con le armi ci metta ancora più rabbia dell’uomo e quanto più c’è rabbia c’è forza…
Per le brigatiste la lotta contro lo Stato rappresenta l’unico scopo da perseguire di fronte al quale tutto il resto assume un aspetto marginale. Questo, nel caso specifico di una donna, significa anche rinunciare al proprio ruolo di madre, come decide Adriana, o rifiutare di diventare madre, come sceglie Barbara; ma anche, indirettamente, non avere la possibilità di diventare madre, come accade a Margherita quando perde il suo bambino in uno scontro con la polizia. Agire come un uomo, in sostanza, comporta alla donna una rinuncia radicale di sè, una negazione della sua innata naturalità che non è solo fisica, ma anche psichica e spirituale.
Diversi ma complementari
Infatti, benché uguali per importanza e valore, uomo e donna sono tra loro realmente diversi, una differenza questa che incide radicalmente nel modo di comportarsi a tutti i livelli.
Dal punto di vista fisico l’uomo e la donna sono esseri condizionati dal sesso, ciò determina non solo delle ovvie differenze anatomiche ma anche psicologiche e spirituali. La sessualità, infatti, non è una cosa che la persona possiede (come gli organi genitali) ma qualcosa che la persona è: uomo o donna. Il maschile e il femminile sono dimensioni dell’essere e della personalità umana: l’umano si articola in “donna” e “uomo” in una reciprocità e complementarità tra i due che è un fatto indiscutibile. Anziché considerare ciascuno come incompleto che si completa nell’altro, quello che li contraddistingue e che entrambi sono relativamente completi, nel senso che ciascuno dei due ha tutto, ma non nella stessa forma, né nella medesima proporzione. Per questo nessuno basta a se stesso ed ognuno necessita dell’esserci dell’altro.
La donna è “aiuto” per l’uomo, come l’uomo è “aiuto” per la donna, dall’incontro tra i due scaturisce un’unità basata non sulla logica dell’egocentrismo e dall’autoaffermazione, ma su quella dell’amore e della solidarietà.
Si comprende allora che pretendere un’uguaglianza tra i sessi è un’operazione impossibile così come lo è per una donna cercare di essere come un uomo, se non appunto, attraverso una forzata negazione di se stessa non scevra da pesanti conseguenze.
Guerra…e pace
L’incongruenza appena vista, risulta ancora più evidente, quando le donne si mettono a fare la guerra al pari e a fianco degli uomini, come è avvenuto nel fenomeno del terrorismo. La guerra, infatti, è un moto prettamente maschile, così estraneo e discordante dalla natura femminile. Vediamo perché:
- “Il mondo aperto e lontano si trova, per l’uomo, sotto il segno della lotta e della conquista. Per questo, il mondo diventa un mondo di cose. Per la donna, invece, il mondo è un mondo di persone.
- L’essere maschile porta l’uomo a vivere il mondo come realtà ostile al suo operare. Qui la logica è quella della violenza dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Grazie alla femminilità, invece, l’esistenza umana è ricondotta nell’immediatezza della vita, e il mondo viene indagato come orizzonte di valori. Qui la logica è quella della riconciliazione dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura.
- L’esistenza maschile appare sotto il segno distintivo del tendere all’esterno, la sua azione penetra e afferra il mondo. La modalità femminile invece riporta immediatamente il mondo all’interiorità.
- Ciò che caratterizza il maschile è l’irrequietezza, mentre il carattere peculiare femminile è la stabilità.
- Fanno parte del polo maschile il penetrare, l’estrinsecarsi, il produrre, l’ambire e trasformare. Mentre rientrano nel polo femminile l’accoglienza, il permettere che avvenga in sé, l’elaborare che protegge e conserva.”.
Mentre per l’uomo il “fare la guerra” fa parte della propria natura come, di fatto, i conflitti della Storia hanno testimoniato e dimostrano mettendo in risalto protagonisti tutti maschili; per la donna la guerra è un andare contro natura, lei, così vicina al mistero della vita è più incline a “fare la pace” a riconciliare l’uomo con l’uomo.
Compito delle donne, allora, non è essere come l’uomo e mettersi con lui in competizione per uccidere l’uomo, ma valorizzare la propria peculiarità naturale per salvare l’uomo e con esso tutta l’umanità, come ben esprime Gandhi nel suo “L’arte di vivere”:
Vorrei che la donna si rendesse conto della forza latente che possiede. Se ne ha per il male, ne ha anche per il bene. È in suo potere rendere il mondo più degno di essere abitato, e dovrebbe farlo per se stessa come anche per il suo compagno, l’uomo – sia padre, figlio o marito – smettendola di ritenersi debole e adatta perciò soltanto ad essere la bambola che diverte il maschio. Se non si vuole che la società sia distrutta da guerre insane tra nazione e nazione e da guerre ancora più insane contro i suoi fondamenti morali, la donna deve fare la sua parte, non scimmiottando l’uomo, come alcune cercano di fare, ma da vera donna. Ella non migliorerà l’umanità mettendosi a gareggiare con l’uomo nella sua abilità di distruggere la vita senza uno scopo. Deve essere, invece, suo privilegio allontanare l’uomo che sbaglia dal suo errore, errore che ha il potere di trascinare nel baratro anche la donna. […] La donna è la personificazione del sacrificio e perciò anche della nonviolenza. Le loro occupazioni devono dunque essere, come di fatto sono, più dirette alla pace che alla guerra. Non fa onore alla civiltà moderna che ora la donna venga preparata a propositi di violenza e di guerra. Non ho alcun dubbio che la violenza si addice così male alla donna che presto, dal profondo della sua natura, si ribellerà contro di essa. […] A lei è stato dato di insegnare le arti della pace ad un mondo bellicoso, che ha sete di quel nettare. Lei può diventare la guida del satyagraha, perché questa arte non richiede la sapienza che si acquista sui libri, ma un cuore forte che deriva dalla sofferenza e dalla fede.
La violenza “ha il potere di trascinare nel baratro anche la donna” dice Gandhi. Margherita, Barbara, Anna Laura e Adriana ne sono personalmente testimoni. La lotta armata è fallita - dichiarerà Adriana in un’intervista al “Corriere della Sera” - perché la violenza ha prodotto soltanto altra violenza.
Una missione tutta femminile
Nell’”essere femminile” non è solamente racchiusa la tensione verso la pace, il papa Giovanni Paolo II ne trae quella che è la vocazione propria della donna evidenziando in essa una peculiare e fondamentale missione. Nella Lettera apostolica “Mulieris Dignitatem” così scrive: “La maternità contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che matura nel seno della donna: la madre ammira questo mistero, con singolare intuizione ‘comprende’ quello che sta avvenendo dentro di lei. […] Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che si sta formando crea, a sua volta, un atteggiamento verso l’uomo – non solo verso il proprio figlio, ma verso l’uomo in genere - tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna. Si ritiene comunemente che la donna più dell’uomo sia capace di attenzione verso la persona concreta e che la maternità sviluppi ancora di più questa disposizione. L’uomo […] si trova sempre ‘all’esterno’ del processo della gravidanza e della nascita del bambino, e deve per tanti aspetti imparare dalla madre la sua propria ‘paternità’.”
Un ruolo quello della donna, quindi, innanzitutto di colei che genera una nuova vita e in seguito di prima educatrice dell’uomo, imprimendo in questo modo un “segno essenziale su tutto il processo del far crescere come persona i nuovi figli e figlie della stirpe umana”. Nonostante la maternità della donna sia un processo fisico essenzialmente “passivo”, nel senso che “avviene” in lei, tuttavia questo la coinvolge in profondità segnandola in maniera indelebile anche dal punto di vista psichico e spirituale. Infatti, in senso personale e etico la maternità “esprime una creatività molto importante della donna, dalla quale dipende in misura principale l’umanità stessa del nuovo essere umano. Anche in questo senso la maternità della donna manifesta una speciale chiamata ed una speciale sfida, che si rivolgono all’uomo e alla sua paternità”.
La donna, in pratica, è colei che genera l’uomo, colei che è prima educatrice dell’uomo e colei che trasmette l’umanità al nuovo essere umano. Si vede allora come dipenda, in prima istanza, dalla donna fare del mondo un luogo più umano oppure no. Un’autentica chiamata e una sfida – scrive il papa - rivolta alla donna e, attraverso lei, indirizzata anche ad ogni uomo.
Questa chiamata non è una prerogativa della donna solo in quanto colei che dà concretamente alla luce un figlio, ma della donna in quanto è “donna”, a motivo proprio della sua femminilità: “Questo riguarda tutte le donne e ciascuna di esse, indipendentemente dal contesto culturale in cui ciascuna si trova e dalle sue caratteristiche spirituali, psichiche e corporali, come, ad esempio, l’età, l’istruzione, la salute, il lavoro, l’essere sposata o nubile”.
Alla donna in quanto tale, quindi, è affidato l’uomo e la sua umanità, questa consegna costituisce la speciale vocazione della donna: “La forza morale della donna, la sua forza spirituale si unisce con la consapevolezza che Dio le affida in un modo speciale l'uomo, l'essere umano. Naturalmente, Dio affida ogni uomo a tutti e a ciascuno. Tuttavia, questo affidamento riguarda in modo speciale la donna - proprio a motivo della sua femminilità - ed esso decide in particolare della sua vocazione”.
È proprio questo tempo - dove si registra “una graduale scomparsa della sensibilità per l’uomo” e “per ciò che è essenzialmente umano” – che necessita della manifestazione del “genio femminile”. Sta alla donna assicurare “la sensibilità per l’uomo in ogni circostanza: per il fatto che è uomo! E perché ‘più grande è la carità’”.
Verso la conclusione
Abbiamo visto come la guerra sia contraria alla natura femminile, e come su questo punto ci sia perfetta concordanza tra l’analisi psicologica, la Chiesa cattolica, e figure non cattoliche come quella di M. K. Gandhi che abbiamo presa in considerazione.
Ecco che allora si fanno strada alcune domande: ma se guerra e violenza sono estranee alla femminilità, cos’è che ha indotto le brigatiste ad assumerla e perseguirla con freddezza e determinazione? Può essere sufficiente giustificare la violenza con l’aver abbracciato una determinata ideologia? Può bastare, quindi, la sola motivazione politica per spiegarla? Possono davvero ideologia e politica soffocare in tal modo una natura, quella della donna, così fortemente antiviolenta e innata? La risposta nasce da sé: ideologia e politica non possono bastare a giustificare una così radicale repressione della propria essenza.
Tuttavia, le vicende della Storia dimostrano che le guerre scoppiano e la violenza cieca e feroce improvvisamente esplode e, anche se nella maggior parte dei casi vede coinvolti principalmente gli uomini, ci sono occasioni in cui protagoniste lo sono state anche le donne come nel caso, appunto, del fenomeno del terrorismo italiano.
Una mancanza di pace interiore
Anche in questo caso, la psicologia fornisce le sue risposte. Per il neuropatologo nonché psichiatra e psicologo Giacomo Dacquino (“Che cos’è l’amore”), ogni forma di violenza e più in generale la cultura dell’odio che prevale su quella dell’amore ha alla radice un’unica causa: “la mancanza di pace interiore”. È da questa violenza sotterranea che hanno origine tutti quei fenomeni violenti proiettati all’esterno - come l’aggressività negli stadi ma anche nella vita di tutti i giorni sin dentro le famiglie, oppure come gli stupri o la guerra… o il terrorismo - ; e quei fenomeni violenti che l’uomo e la donna proiettano su se stessi – come le frustrazioni affettive, l’abuso di droghe e di alcool, ma anche di farmaci e di sigarette, e quei disturbi alimentari come l’anoressia e la bulimia -; tutti con la stessa causa di fondo: la mancanza di pace dentro sé.
La vera pace, infatti, inizia dentro se stessi e “presuppone l’amarsi, non per sviluppare la ‘strategia dell’oasi’ o la ‘cultura dell’Io isolato’, ma per migliorarsi nell’accettazione e nella solidarietà. Infatti la pace con noi stessi, conseguenza di un rapporto armonico tra le varie parti della psiche, conduce anche alla pace con gli altri. Pace non soltanto come assenza di guerra […] ma come sintonia, concordia, collaborazione.” Ciò non significa che, per andare d’accordo, si debba essere costretti a pensarla tutti allo stesso modo, o a rinunciare al proprio punto di vista, bensì confrontarsi in maniera civile sulle diversità di idee e motivazioni, attraverso una dialettica matura che tenga conto del rispetto altrui.
“La pace è [il] sintomo” della propria salute psichica e spirituale; non dipende soltanto da eque soluzioni politiche, sociali ed economiche pur necessarie, ma “è la sublimazione del nostro istinto aggressivo. Istinto che, quando restiamo in balìa di certe sue pulsioni primitive, ci porta ad aggredire. E lo dimostra il fatto che negli ultimi tre secoli, soltanto in Europa, si sono verificate 186 guerre, quasi una per anno”.
“La pace è dunque il frutto di una maturazione psicoaffettiva che conduce verso il perdono e l’oblatività. Se ne saremo portatori interiormente, potremo espanderla in ogni rapporto; se invece ne saremo privi, faremo la guerra agli altri quale conseguenza dei nostri conflitti”.
Dopo quanto appena visto, possiamo comprendere ancora meglio l’origine della rabbia di Barbara Balzerani e di come questa “guerra interiore” l’abbia condotta a militare nelle Brigate rosse. Una rabbia che si è fermata nel perdono concesso alla madre, ma che poi è proseguita più forte che mai verso i “padroni” e lo Stato imperialista.
Possiamo capire anche l’assoluta convinzione di Margherita. Nella sua infanzia non ci sono traumi, né oppressione, né carenze affettive, né una qualche angoscia, come conferma la sorella in una intervista, tuttavia abbiamo visto che è la violenta perdita del bambino che porta in grembo a darle la spinta decisiva a buttarsi anima e cuore nella clandestinità della rivoluzione armata. Abbiamo osservato, infatti, che la perdita di un figlio è un aspetto delicatissimo e difficile nell’esistenza di una donna, un evento con il quale occorre fare i conti e, possiamo immaginare, quanta rabbia possa aver suscitato in Margherita quel tragico evento, ancora più se consideriamo che l’aborto le è stato procurato proprio dalle percosse inflittele dalla polizia. Una “guerra nel cuore” inaspettata e improvvisa che si è andata a saldare alla sua indole passionale e ideale forgiandone la Mara estrema e radicale che abbiamo conosciuto.
Possiamo, a questo punto, penetrare ancor più in profondità anche nelle motivazioni di Adriana Faranda. Adriana vede che nel mondo c’è il dolore, un dolore che impedisce alle persone di essere felici e di vivere in un mondo paradisiaco. Un dolore esistenziale che lei stessa sperimenta – come riconosce la psicologia quando afferma che i sentimenti che riscontriamo intorno a noi sono quelli che ci appartengono - che la rende infelice. Una “guerra esistenziale” quella di Adriana, un dover dare un significato a quell’”ospite sgradito” che è il patire; un significato che – se non si crede in Gesù Cristo – non c’è; di qui il muovergli contro la guerra.
Diventare operatori di pace
È vero che le Istituzioni e lo Stato possano essere ingiusti, è vero che la scuola possa non essere adeguata ai cambiamenti sociali e non fornire adeguati stimoli culturali, è anche vero che la famiglia possa essere inadeguata e che, a volte, i genitori più che aiutare i figli a costruire la propria stima e accompagnarli nella loro strada e vocazione, ne accrescano complessi e limiti impedendo loro di spiccare il volo verso un’autonomia matura. È soprattutto vero che non si è capaci di amare se non si è ricevuto amore, ad amare infatti si impara, e i primi maestri in questo senso sono proprio i genitori, sia amandosi vicendevolmente sia rivolgendo questo loro amore verso i figli. Tuttavia “non si deve strumentalizzare un’infanzia infelice facendone un comodo alibi. Si può e si deve diventare adulti pur avendo sofferto molto dolore. Perché, anche se cresciuto in una famiglia malata, ognuno porta con sé, come ricorda Gianna Schelotto, sorprendenti capacità di recupero”.
Si capisce allora che non è giustificabile incolpare Istituzioni e Stato rimanendo inerti e sottomessi ed evitando qualsiasi impegno per migliorare l’esistente; oppure imbracciare in modo irrazionale e irriflessivo le armi cominciando a sparare a destra e a sinistra per ribaltare quel Sistema che si ritiene inadeguato, ingiusto, obsoleto e autoritario.
La vita va progettata in positivo, ma per progettare prima bisogna “capire”. Non si può fare un buon programma basandosi su analisi superficiali (come sono quelle di Margherita) o prettamente ideologiche; tantomeno con delle basi siffatte è possibile cambiare il mondo e renderlo migliore. Ma c’è dell’altro, per “capire” è necessario prima “conoscersi”, affinché il progetto non sia un mero condizionamento di un passato doloroso (come nel caso di Barbara), o una pura reazione a un torto subito o, più in generale, derivante da un senso di riscatto e di vendetta.
Diventare portatori di pace va ben oltre l’attivismo pacifista, soprattutto poi se all’urlare spesso violento contro i “signori della guerra” si accompagnano mani armate con sassi e bastoni e si procede a sfasciare le vetrine dei negozi e a bruciare le automobili passando, con assoluta naturalezza e incoerenza, dagli slogan contro la guerra alla guerriglia vera e propria.
Né si è operatori di pace se si è mossi soltanto dalla difesa della propria quiete, del proprio “orticello”, dei propri affari e benessere personale.
Soprattutto non si può costruire un mondo più giusto e migliore se si è pieni di violenza e armati fino ai denti come lo sono stati gli esponenti del terrorismo italiano.
“Non si è ambasciatori di pace se si usa la religione, Dio o Allah, per scatenare guerre o crociate; perché ogni conflitto nel nome di qualsiasi Dio o sotto il simbolo di qualsiasi Credo scaturisce sempre da un’immaturità religiosa. La religiosità matura non esercita la violenza, soprattutto non maschera dietro l’alibi di una religione interessi economici, territoriali o di potere”.
Diventare una persona di pace significa non avere più la guerra nel cuore: “significa saper riconoscere le proprie violenze quotidiane, quelle che si fanno a se stessi e agli altri. Vuol dire superare egoismi, rancori, rivalse e quindi non ferire con parole, toni e gesti; […] equivale soprattutto a saper perdonare se stessi e gli altri perché la peggior immaturità è la mancanza di misericordia che priva della grande gioia spirituale del perdono, fonte di serenità non soltanto per chi lo riceve ma anche per chi riesce a concederlo. Non avere la guerra nel cuore significa aver smorzato l’odio con l’amore, traducendo questo sentimento in un comportamento concreto di vita”.
Diventare una persona di pace significa, in modo particolare per la donna, accogliere il suo essere femminile come una vocazione e una missione, contribuendo, con i sentimenti innati che le sono propri, a rendere il mondo più umano e più mite; questo non può consistere nel mettersi a competere con l’uomo in violenza e crudeltà, ma casomai nel fermare la mano dell’uomo che si accingesse a colpire.
Diventare una persona di pace, per ogni donna, è anche imparare ad accogliere la vita e smettere di considerare come suo insindacabile diritto sopprimere i figli nel proprio grembo. Una guerra sotterranea e nascosta, che si combatte proprio dove tutte le vite hanno inizio: nel sacrario stesso della vita, che da una culla si trasforma in una tomba.
Abbiamo visto - come afferma Pronzato – come l’aborto lasci aperta nell’anima della donna una ferita che non si rimargina mai e che Barbara Balzerani esprime con una “gelida sensazione di sterile vuotezza”. Una lacerazione, quella dell’aborto, che va a incrinare quella “pace nel cuore” necessaria a costruire un mondo di pace e che, in primo luogo, riguarda proprio la vocazione della donna.
Se consideriamo che l’aborto ha causato, negli ultimi trent’anni, più di un miliardo di vittime innocenti - come illustra Antonio Socci nel suo libro “Il genocidio censurato” - pensiamo a quanta sofferenza e a quanto dolore seminato nel cuore delle donne, a quanta guerra dentro sè che viene propagata anche intorno a sé e riversata nel mondo. Anziché riconciliare l’uomo con l’uomo e rendere il mondo più umano, la donna ha ingaggiato una guerra contro l’uomo (seppur nascosta e censurata) rendendo il mondo più disumano e ostile alla vita.
Conclusione
Tra l’uguaglianza e la differenza c’è la collaborazione
Dai moti del Sessantotto in poi, si sono delineate due tendenze nell’affrontare la questione femminile.
Una marcatamente contestativa e identitaria in cui la donna si costituisce come antagonista dell’uomo entrando con questi in competizione. Ciò determina una rivalità tra i sessi dove gli uomini sono considerati come dei nemici da vincere. Tra le due parti si instaura una contrapposizione diffidente e difensiva dove – da un lato - le donne si chiudono all’interno dei propri modelli, delle proprie psicologie e delle proprie storie in un processo di auto-ghettizzazione e – dall’altro lato – si appropriano di caratteristiche propriamente maschili dove, agli abusi di potere, rispondono con una strategia di ricerca del potere.
L’altra tendenza è sostanzialmente livellante determinando una totale insignificanza tra i sessi. Qui è la dualità uomo-donna che va combattuta in quanto apportatrice di discriminazioni e intolleranza. Si ritiene, infatti, che sia proprio la differenza biologica tra il maschile e il femminile a provocare il ruolo emarginato e subalterno della donna così, al fine di evitare ogni supremazia tra i due, si cancellano le differenze sessuali attraverso un’operazione prettamente culturale.
A livello pratico significa che si può nascere maschio e divenire donna e viceversa; oppure si può essere insieme donne e uomini; oppure l’umanità potrebbe scivolare verso una neutralità sessuale. In sostanza, si può nascere di sesso maschile e femminile, ma questo non impedisce – se si eliminano gli ostacoli culturali – di divenire un “genere” che non coincida esattamente con il proprio sesso. Quello che ne esce è un totale appiattimento e una omologazione tra l’uomo e la donna.
Tra le due opposte tendenze, la proposta della cultura cattolica è quella della collaborazione. Infatti, nonostante tutte le operazioni culturali operate, uomini e donne rimangono assolutamente differenti, non solo a livello fisico – come abbiamo visto – ma anche psicologico e spirituale. Le differenze tra i due sono antropologicamente profonde e innate e non si possono cancellare con una superficiale operazione culturale.
Allo stesso tempo, queste diversità non devono alimentare una lotta tra i sessi che origini una competizione reciproca estremamente individualista ed incentrata sulla propria ed esclusiva realizzazione di sé.
Non appiattimento né omologazione quindi, e nemmeno concorrenza né rivalsa, l’ottica è quella della collaborazione, con un approccio relazionale e solidale.
Rientrano in questa prospettiva le peculiarità proprie femminili che abbiamo visto nel corso delle nostre riflessioni. Le donne, infatti, sono portatrici di valori senza i quali l’umanità si chiuderebbe nell’autosufficienza, nei sogni di potere e nella tragedia della violenza; quei valori che sfidano la donna stessa sollecitandola a riconoscerli e valorizzarli in sé stessa al fine di rendere il mondo più umano e pacifico.
Non conviene alla donna muovere guerra né contro l’uomo, né come l’uomo, appropriandosi – in entrambi i casi - di caratteristiche prettamente maschili e rivolgendosi contro la propria originalità femminile. Un’operazione siffatta non solo non la realizzerà come donna ma la porterebbe a perdere quella che è la sua essenziale ricchezza e che Giovanni Paolo II riassume con la bella espressione di “genio femminile”.
È con la collaborazione tra il maschile e il femminile che si può giungere ad un mondo più giusto e umano, nel rispetto delle reciproche differenze e peculiarità e con la consapevolezza che ciascuno ha delle responsabilità dalle quali non si può esimere perché i tempi migliori si costruiscono insieme.