Alessandro Meluzzi è un personaggio originale. E’ stato un leader sessantottino, un uomo del PCI torinese, un radicale abortista, un adepto delle religioni orientali, uno psichiatra, un deputato ecc.
Per questo ci si potrebbe aspettare che, ora che è divenuto cattolico, siamo di fronte all’ennesimo ri-posizionamento. Qualcuno potrebbe dire: ma come fidarsi di chi cambia sempre idea? Non sono d’accordo. Il vagare tra una idea e l’altra, tra un modo di vivere ed un altro, non è necessariamente segno di inaffidabilità. Può essere, al contrario, indice di una profonda ricerca della Verità, di una consapevolezza della necessità di incontrarla, per vivere davvero, nel modo più pieno possibile.
Allora la storia di Meluzzi si può leggere così: come quella di un uomo del suo tempo, che ha provato tutte le risposte che la sua epoca e il pensiero dominante gli offrivano come vere e come capaci di realizzarlo.
Essere comunisti è stata una fede: nella possibilità di fare un mondo nuovo e bello, senza Dio. Per milioni di persone si è rivelato un bluff e un incubo sanguinario. Anche per Meluzzi. Per tanti anni si è pensato che la rivoluzione sessuale, l’aborto libero, la mentalità radicale, fossero la nuova liberazione. Nessuno che guardi la realtà con oggettività e distacco, oggi, può ancora crederlo. Neppure Meluzzi lo crede più.
Anche perché la sua esperienza gli ha insegnato il contrario di quello che l’ideologia gli assicurava: “Ricordo, da giovane medico nelle corsie ospedaliere, donne di ottant’anni che nella raccolta in cartella dei loro dati sanitari ricordavano, piangendo, aborti di mezzo secolo prima”. Di delusione in delusione, insomma, si può anche arrivare al porto: basta non essere affondati del tutto, strada facendo; basta aver ancora dentro il desiderio della verità più forte del proprio egoismo, dell’ “idolatria di sé”.
“Dio si manifesta un po’, scrive Meluzzi, soltanto quando l’io diventa un po’ meno opprimente, un po’ meno invadente, meno esplosivo e onnicomprensivo”. Perché allora, scostandosi un attimo da sè, quasi uscendo fuori, può capire il senso frustrazioni, delle insoddisfazioni, delle inquietudini provate, con rabbia, proprio lì dove si cercava la salvezza. La risposta, cioè, quella vera, duratura, che disseta perché non solo umana, può arrivare: basta che si faccia silenzio, ci si metta in una condizione di umiltà, si eviti la “tendenza auto-assolutoria” propria dell’uomo moderno, che gli impedisce di rendere visibile, e quindi anche fruttuoso, rivelatore, il suo peccato. P
er riscoprire Dio, se stessi e l’altro: “O nell’altro riusciamo a scorgere l’ombra di Dio, o altrimenti è soltanto una presenza fastidiosa nella nostra vita”. Nel suo ultimo libro, “Ho visto e ho creduto” (Piemme), dunque, Meluzzi ci racconta non tanto la sua storia personale, ma il suo approdo, la sua fede, le sue ragioni. Con un linguaggio semplice e chiaro, in cui la parola si sente incarnata, vera, vissuta.
Meluzzi affronta tutti i temi più attuali, le polemiche in corso, ma soprattutto addita l’essenziale, ciò che lo ha conquistato di più: il Vangelo come “narrazione”, come storia di fatti e persone, e non come via filosofica ed elitaria alla salvezza; soprattutto la necessità di non ridurre il cristianesimo ad un etica, che pure è importante. Come altri convertiti Meluzzi dimostra nostalgia verso una Chiesa che spesso molti ecclesiastici hanno contribuito ad offuscare: ricorda ad esempio che la messa non è solo cena, ma anche “rinnovazione ogni volta del sacrificio della croce”.
E rimpiange molti aspetti del vecchio rito tridentino: la preghiera a san Michele Arcangelo, la forza delle sue formule (come paragonare il “memento homo, quia pulvis e set in pulverem reverteris” con il nuovo e “più rassicurante” “convertiti e credi al Vangelo”?); l’adorazione eucaristica, che ci ricorda che il cuore della liturgia non è, come per i protestanti, l’assemblea, non siamo noi, ma Cristo, che viene all’uomo, che può quindi guardarlo, mentre è a sua volta guardato; il senso del Mistero, sostituito da un rito spesso “mortifero e ipnotico”…
La fede in Cristo, sembra dire Meluzzi, mi ha rivelato che non mi salvo da solo, che l’uomo ha bisogno di un Salvatore: ciò significa che la Chiesa non può mettere in un angolo Cristo, quasi se ne vergognasse, per parlare quasi solo dell’uomo; neppure la società può fare lo stesso, credendo così di salvarsi, di liberarsi, di raggiungere la felicità, tramite l’autonomia e l’autodeterminazione, di cui sempre più spesso si parla come di una nuova religione, atea ed individualistica. Il peccato di Lucifero, ricorda Merluzzi - che nella sua esistenza lo ha certo provato, come tutti, ma forse con più forza di tanti- fu proprio la superbia: cioè la ricerca di “autonomia” ed “autodeterminazione”. Ma non siamo autonomi, perché siamo creati da un Altro. Non siamo autonomi, perché non siamo noi né il senso né il fine della nostra vita. La conversione di Meluzzi è stata proprio questo: scoprire, dopo tante esperienze e illusioni, l’impossibilità di essere slegati dalla nostra Origine. Libero, 3 agosto 2010