Al di là dei toni umoristici e paradossali - talora idioti, diciamolo pure - coi quali viene sovente ritratto, il matrimonio rimane a tutti gli effetti un istituto indispensabile e fortemente benefico. In primo luogo per i contraenti del vincolo coniugale, che con le nozze fortificano il presente della loro unione con promesse che sanno di eternità e che conferiscono al loro amore un volto nuovo e ufficiale. Tra i beneficiari del matrimonio ci sono poi i figli che arriveranno dopo e che potranno godere del meraviglioso privilegio di farsi amare, crescere ed educare da coloro che più di tutti li hanno cercati, voluti, aspettati. Si potrà obbiettare che tutto questo può accadere benissimo anche fuori dal matrimonio. Ed è vero.
Il punto è che solo il matrimonio assicura stabilità in quanto celebrato pubblicamente, con due innamorati che non si accontentano di onorare la promessa di fidanzamento che si sono fatti, ma chiamano a testimone l’intera società, preparando ai figli che avranno un nido educativo del tutto speciale, ben diverso, in termini qualitativi, da tutti gli altri. Un dato, questo, provato anche da un recente studio del Center for Marriage and Families dell’Institute for American Values di New York, che ha messo in luce come i bambini che crescono con dei genitori sposati abbiano ridotto di tre volte, rispetto agli altri, il rischio di problemi emotivi o comportamentali. Rischio che però sopraggiunge in caso di divorzio.
Norval Glenn e Thomas Sylvester, dopo aver preso in esame tutti gli articoli in materia di questioni familiari - 266 in tutto - pubblicati dal Journal of Marriage and Family in 26 anni, sono giunti alla conclusione che “l’idea che il divorzio presenti pochi problemi per lo sviluppo di lungo termine dei figli è semplicemente incoerente rispetto alla letteratura sull’argomento”. Come ricordavano poc’anzi, sebbene si tenda spesso a denunciare - con palesi intenti critici - quanto di abitudinario c’è nella vita coniugale, anche le coppie che scelgono di sposarsi fanno un affare perché, accettando una sfida certamente più grande di loro e per la quale saranno chiamati, prima o poi, a sacrifici e rinunce, scommettono veramente su di loro e sigillano il loro amore con autenticità, senza le comode scorciatoie di chi ama finché se la sente, rinunciando così alla lotta, alla fatica e quindi, in definitiva, alla pienezza della vita.
Gli scettici possono trovare i riscontri che cercano nello studio comparativo di Stack e Eshleman, condotto studiando 17 paesi occidentali e il Giappone, che ha riscontrato come gli sposati dicano di essere felici il 3,4 volte in più di chi convive. E pure altri studi (Gove et al, 1990; Hu e Goldman, 1990; Lillard e Waite, 1995) confermano che il matrimonio aumenta la felicità, il benessere psicologico, la salute fisica e la longevità. Che gli uomini sposati vivano di più è stato messo in luce da anche da un recente studio presentato dalla Royal Economic Society presso l’Università del Surrey, mentre secondo alcuni ricercatori dell’Università dell’Arizona il matrimonio farebbe bene agli uomini quanto smettere di fumare.
Il motivo? La proteina la C-reattiva (Crp), che solitamente si sviluppa in seguito a malattie cardiovascolari, risulta più diffusa nel sangue dei single – con un valore di 2,72 milligrammi per litro - rispetto all'1,16 riscontrato nel sangue degli sposati. Ci sono poi i risultati dell’immensa indagine – fondata su un campione di quasi 34.500 persone di 15 Paesi - condotta dell’Università di Otago, Nuova Zelanda, e coordinata dalla dottoressa Kate Scott, che hanno permesso di confrontare la salute mentale di chi è sposato, di chi non lo è mai stato e di chi ha visto la fine del proprio matrimonio. Risultato: la vita di coppia fortifica il lato emotivo e tiene lontani i rischi più comuni: disturbi di ansia e depressione nel caso degli uomini, vulnerabilità all’abuso di farmaci e droghe per le loro compagne.
Questi i benefici effetti del matrimonio. Molto diversi, invece, quelli del divorzio. Infatti, le conseguenze della destabilizzazione di un rapporto generano, secondo lo psicologo Jurg Willy, una “la forte tensione psichica” che “comporta conseguenze fisiche e produce in particolare un perturbamento delle funzioni vegetative ed endocrine che può provocare vere e proprie lesioni organiche” ("Journal of Marriage and the Family", 1997, 58). Trattasi di considerazioni suffragate da dati concreti: un’indagine effettuata dall’Istat negli anni 1987-91 sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari degli italiani mostrano ha registrato come il tasso di morbilità cronica per disturbi nervosi dei divorziati sia il doppio di quella dei coniugati, con un valore del 62,2‰. Si è inoltre rilevato come i divorziati ricorrano molto più spesso all’assunzione di farmaci antidolorifici e antinevralgici - 119‰ rispetto ai 106‰ dei coniugati -, di tranquillanti e antidepressivi - 48‰ rispetto 39,5‰ - e di sonniferi e ipnotici - 35,5‰ rispetto 14,8‰.
Stesse conclusioni per uno studio pubblicato sul “Journal of Health and Social Behavior”, che ha evidenziato come che le persone divorziate abbiano un aumento del 20% di malattie croniche e di difficoltà di spostamento rispetto agli altri. Per non parlare degli infiniti episodi di violenza che quasi raramente trovano nella “famiglia” in quanto tale la propria origine, e si verificano – le coincidenze! – a ridosso di una separazione. E poi, ironia della sorte, in giro c’è chi minimizza e ricorda, sulla base della patologia relativista che da decenni ci infetta, che divorziare sarebbe un “diritto”. Dicendo questo non si intende in alcun modo giudicare persone e situazioni, ma solo ricordare le conseguenze di una scelta che sembra proibito, oggi, mettere in discussione. Ed è un vero peccato.