Rivisitazione di Lucia Mondella: non è affatto una ragazza bigotta e remissiva
Di Giulia Tanel (del 01/08/2010 @ 06:27:00, in Letteratura, linkato 9483 volte)

Lucia Zarella del Fermo e Lucia, poi divenuta Lucia Mondella, è spesso stata dipinta dalla critica come una ragazza senza spina dorsale, tutta casa e chiesa, succube degli avvenimenti che la travolgono. Ma, ad una lettura scevra di pregiudizi de I Promessi Sposi, la figura che emerge è tutt’altra. E’ il ritratto di una ragazza salda nelle sue idee, sempre impegnata nel lavoro − come già nelle Osservazioni sulla morale cattolica, che costituiscono la base teorica del suo unico romanzo, Manzoni fa trasparire la propria concezione secondo la quale l’ozio è il padre dei vizi −, giustamente timorata di Dio…
Non a caso, l’Autore le attribuisce un nome “parlante”, che denota la sua funzione di guida, di luce interpretativa dell’intera vicenda, è lei che fa emergere il Deus absconditus di gianseniana memoria.
E’ vero, Lucia incarna l’archetipo della perseguitata, ma alla fine la vittoria è sempre sua: su don Rodrigo, su Gertrude (Geltrude nel Fermo e Lucia), e sull’Innominato (il Conte del Sagrato del Fermo e Lucia, che nel romanzo del ’42 perde però il privilegio di avere un nome).

Moltissimi critici si sono sbilanciati e hanno definito in vari modi l’eroina manzoniana.
Per Alfredo Cottignoli, Lucia incarna la Provvidenza, che agisce tramite di lei; per esempio, gettando il seme della Grazia nel cuore dell’Innominato con la frase: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”.
Secondo Salvatore Silvano Nigro, Lucia è il personaggio più forte del romanzo: è l’aspro che governa l’intera storia, motore degli imbrogli e degli sbrogli. Lo studioso riporta le frasi di Bortolo, il cugino che a Bergamo accoglie Renzo in fuga. Il parente ricorda Lucia tra chiesa e casa: “sempre la più composta in chiesa”; e nella sua “casuccia”, a lavorare con quell’”aspro, che girava, girava, girava”. “Una buona ragazza”, insomma. Non proprio bella, secondo Renzo; ma “una buona giovine”: una “contadina”, e non certo una “principessa”. La bellezza viene dopo la “fortitudo” e il “decor”. La sposa ideale “non mangia il pane della pigrizia”.
Anche da Marchese definisce Lucia come il “perno ideologico” de I Promessi Sposi.

A ben vedere, Lucia è anche l’unico personaggio del romanzo che non subisce un’evoluzione, che non impara nulla dagli avvenimenti cui è soggetta: fin dall’inizio lei ha già le proprie, incrollabili certezze. E, alla fine del romanzo, sarà proprio Lucia che aiuterà “il suo moralista” Renzo a conquistare il “sugo della storia”, affermando che i guai le sono caduti addosso senza che lei facesse nulla affinché ciò avvenisse, ma che la fede in Dio li rende utili e li raddolcisce. Con questo finale Manzoni affida a lei, il suo personaggio portante, la rifinitura morale di tutta la storia, e con essa anche la chiave della propria poetica.

Diamo ora una scorsa al testo de I Promessi Sposi, e nel contempo a quello del Fermo e Lucia, che costituisce un testo a sé stante, un romanzo autonomo rispetto all’elaborato manzoniano del 1840/42, e non mero un abbozzo come spesso si sente dire.
Molti sono i punti in cui emerge il carattere forte di Lucia, la sua superiorità − non solo morale − sugli altri personaggi della vicenda.
Fin dal primo capitolo del primo tomo del Fermo e Lucia, la nostra eroina apostrofa don Rodrigo chiamandolo “demonio in carne”; nel secondo capitolo, poi, riferendo a Renzo e alla madre Agnese il retroscena del suo incontro con il signorotto locale, racconta di come abbia dovuto fare una “baruffa” con Marcellina per non andare più alla filanda a lavorare, dando con questo prova di notevole fermezza. Entrambi questi episodi verranno aboliti ne I promessi Sposi, dove però abbiamo una dimostrazione del nerbo di Lucia nel terzo capitolo, quando la ragazza dona a frate Galdino − che è andato a bussare alla loro porta, e che vive nello stesso convento di fra Cristoforo − una quantità di noci sproporzionata rispetto al momento di carestia che tutti stanno subendo. Una volta che il frate si è congedato dalle due donne, Lucia replica con decisione al rimprovero della madre affermando che “se avessimo fatta un’elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora Dio sa quanto”, rischiando di dimenticare di avvertire padre Cristoforo di andare a far loro visita.
Anche negli altri capitoli introduttivi ambientati nel paese natio (dal primo all’ottavo), Lucia è protagonista di momenti topici, primo su tutti la pagina lirica di congedo dalle proprie terre: “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a che è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!”.
Ma i due episodi in cui emerge in maniera più netta la funzione catartica svolta da Lucia nel romanzo sono quelli in cui è in relazione con la Monaca di Monza e l’Innominato. In entrambe le situazioni Lucia incarna la Provvidenza: dà chiara dimostrazione di come la Grazia Divina dia la possibilità di riscattarsi, lasciando da parte le empietà. Perché la misericordia di Dio abbia frutto, però, occorre che vi sia una libera adesione dell’animo: cosa, questa, che si verifica solo nel caso dell’Innominato, mentre la Monaca di Monza rimane schiava della gravità del corpo.
Ecco quindi che tramite un’ingenua contadinella lombarda, Manzoni riesce ad affrontare due temi cardine della morale cattolica: l’immensa misericordia di Dio − che perdona anche per “lagrimetta” in extremis, come scriveva già Dante −, e la tematica del libero arbitrio; come dire: le carte ci sono state fornite tutte, sta alla bravura di ognuno il saperle utilizzare nel modo eticamente più consono.
L’innominato viene scosso profondamente dalla visione e dalle parole di Lucia, la quale, nel momento di maggior pericolo, dà prova di grande forza d’animo: già durante il viaggio in carrozza verso il palazzo dell’Innominato, supplica i bravi di liberarla, prega il Rosario, sviene, si riprende… e muove così a compassione perfino l’indomito Nibbio. In seguito, quando è costretta in una stanza del castello dell’Innominato, Lucia si rifiuta di mangiare e dormire e proibisce alla sua carceriera di fare entrare persone nella stanza. Rimane così agitata fino a quando non prende la risoluzione di fare voto di castità in cambio della libertà e, solo a questo punto, messasi la corona al collo, “s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo”. Nuovamente Lucia dà dimostrazione di una certezza incrollabile nella fede, abbandonandosi totalmente nella mani di Dio, Colui che tutto sa e tutto organizza per il bene degli uomini, a patto che si riponga in Lui tutta la nostra vita.

Insomma, Lucia Mondella è colei che “pulisce dalle impurità” (S. S. Nigro) e che dà una rifinitura morale all’intero romanzo manzoniano, legittimandolo così come genere letterario che “ha come oggetto il vero, come mezzo l’interessante e come scopo l’utile”. E nel contempo si fa anche portatrice della voce di Dio nella storia, dimostrando di non essere affatto passiva rispetto agli eventi, ma piuttosto supportata da una fede che la porta ad abbandonarsi totalmente alla Provvidenza, semplicemente, come un bambino nelle braccia della madre.