Ci sono parecchie vie per scongiurare un aborto senza oltraggiare la dignità della donna: si va dai sostegni economici – quasi sempre pochi e pubblicizzati ancora meno -, alla possibilità, assicurata a “qualunque donna partoriente ancorché da elementi informali risulti trattarsi di coniugata”, com’è scritto nero su bianco nella sentenza n.171/’94 della Corte Costituzionale, di mettere al mondo il proprio bambino e di lasciarlo in ospedale da dove, ai sensi dell’art. 11 della Legge 184/’83, verrà “immediatamente” affidato ad una nuova famiglia. Ci sono poi i sostegni, anche finanziari, assicurati dai Centri di Aiuto alla Vita, e, infine, le Culle per la vita nelle quali, alternativamente ai cassonetti, ogni anno 300 le donne che non vogliono o possono recarsi in ospedale a partorire, lasciano i loro piccoli.
Le Culle per la vita, benché strategicamente determinanti nel salvare centinaia di vite umane ogni anno, presentano costi di istituzione e mantenimento irrisori. Ecco perché a nessuno, in teoria, dovrebbe in mente di proporne l’abolizione. Ma, come sovente capita in Italia, c’è sempre qualche magistrato che ha qualcosa da ridire. In questo caso si tratta di Melita Cavallo, Presidente del Tribunale dei Minori di Roma, per la quale le citate Culle sarebbero addirittura “una follia” in quanto incoraggerebbero “il fenomeno del parto in situazione di rischio”. E 61 bambini che, solo nel 2009, sono nati nel Lazio grazie a queste Culle? Secondo Cavallo sono “pochi” (La Repubblica Roma, 7/7/2010, p.10). Pochi o tanti che siano, quei bambini sono parte di quei nostri 300 concittadini che, senza le Culle, probabilmente non sarebbero mai nati. E sono 300 ottime ragioni per continuare a promuovere questa vitale iniziativa, con buona pace di certi magistrati.
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