Il presente saggio intende fornire alcune indicazioni relative a come affrontare una serie di problematiche, che oggi si fanno sempre più urgenti, inerenti la vita umana e la sua tutela. Da parte mia non vi è la pretesa di esaustività; suggerisco soltanto alcune piste di riflessione che ciascuno potrà ulteriormente approfondire.
L’oggetto del presente lavoro è, eminentemente, il diritto alla vita.
Potrà sembrare strano, ma un tale diritto che sino ad alcuni decenni fa veniva dato per scontato oggi è posto in serio pericolo. Questo per una ragione essenziale, l’eclissi dei valori religiosi, che a sua volta è coincisa con l’atteggiamento pavido e arrendevole di una parte del mondo cattolico. Questa parte, per accreditarsi rispetto al mondo dei non credenti, si è sentita in dovere di distinguersi, nei confronti del magistero ecclesiastico, incrinando così la compattezza di quel fronte umano ed intellettuale che per secoli aveva difeso i più deboli. Da parte sua, la Chiesa, ha sempre affermato il principio della sacralità della vita e pertanto rigettato ogni tentativo di ridurre la vita umana ed il suo valore ad un insieme di qualità e funzioni.
I teorici della “bioetica laica”, cioè coloro che nelle proprie valutazioni morali prescindono da ogni Dio e da ogni fede, ritengono la vita umana degna di essere vissuta soltanto se in essa ricorrono determinate condizioni. Per gran parte di questi pensatori è inconcepibile una valore intrinseco alla vita stessa.
E’ facilmente intuibile come attraverso la legittimazione di tali idee, si aprano scenari nei quali l’uomo debole, malato, incapace di comunicare si venga a trovare nella scomoda posizione di un peso.
Queste idee che si vanno diffondendo è bene ricordarlo, sono soltanto idee; esse non sono più vere di altre perché germinano all’ombra della dichiarata laicità dei loro assertori. Laicità non significa verità. Con eguale legittimità partecipano al dibattito in corso i cattolici fieri di un patrimonio di pensiero e di fede bimillenario.
Un albero si riconosce dai frutti e i frutti dell’etica senza Dio sono sotto gli occhi di tutti.
Nelle riflessioni che seguono ho cercato di porre in evidenza il pensiero dei “padri” della bioetica laica, accomunati da un principio, che loro giudicano assoluto, quello della qualità della vita.
Ho poi evidenziato il cuore della bioetica di ispirazione cristiana, che fonda ogni riflessione partendo dall’idea che la vita sia comunque un dono e che l’essere sia infinitamente meglio del non essere. Ogni padre ed ogni madre sa che un figlio atteso, dall’atto del concepimento in poi, è una presenza che interroga, che provoca, che ci muta nel profondo, indipendentemente dalla salute del nuovo venuto. Perciò, ogni essere, in ogni momento, agisce in noi e su di noi in modo incredibile;questa è la ragione positivamente laica della sua sacralità.
Ho compreso cosa significasse amare nell’attimo della nascita di mio figlio; prima mi ero illuso di sapere cosa fosse l’amore. Eppure quel bimbo non parlava, non argomentava argutamente, semplicemente era lì, in attesa del mio amore. Se Paolo e poi Giovanni non fossero nati, il mondo, il mio e degli altri, sarebbe stato diverso.
Una grande scrittrice, morta in questi giorni, pur dichiarandosi non credente intuisce una verità con la quale molti intellettuali farebbero bene a confrontarsi: "L’amo con passione, la vita, mi spiego? Sono troppo convinta che la vita sia bella anche quando è brutta, che nascere sia il miracolo dei miracoli, vivere il regalo dei regali. Anche se si tratta di un regalo molto complicato, molto faticoso. A volte, doloroso." (Oriana Fallaci, Oriana Fallaci intervista se stessa, Rizzoli, 2004)
Quando sorge il diritto a vivere.
La vita umana a pieno titolo spesso è identificata impropriamente con l’essere personale, ma in realtà, la vita personale, comincia all’atto del concepimento.
Dico questo, perché mi è capitato sovente di discutere con persone -anche di una certa cultura- le quali identificavano la vita degna di tutela con l’essere personale dotato di autocoscienza.
Della persona, del significato che vogliamo attribuire a questo termine dirò nel prosieguo del presente lavoro; per ora, limitiamoci a definire l’origine della vita singola.
Posto che, l’embrione di un cavallo è cosa diversa rispetto all’embrione umano, diremo che la vita umana inizia, scaturisce, dall’atto del concepimento.
Dopo il concepimento, nel ventre materno è presente una nuova vita, distinta dalla vita della madre, seppure in strettissima relazione con essa.
Dal punto di vista scientifico fanno fede al riguardo innumerevoli studi.
La nuova cellula, frutto del concepimento, si chiama zigote; essa è diversa dalla cellula del padre e della madre ed inizia ad operare come un nuovo sistema. Come osserva il genetista Angelo Serra:“Tra le molte attività coordinate di questa nuova cellula, durante un periodo di circa 20-25 ore, le più importanti sono: l’ organizzazione di un nuovo genoma, che rappresenta il principale centro informativo per lo sviluppo del nuovo essere umano e di tutte le sue ulteriori attività; l’inizio del primo processo mitotico che porta dell’embrione unicellulare all’embrione a due cellule”(Angelo Serra, L’uomo embrione, pag. 33, Cantagalli , Siena, 2003).
Non si tratta di un ammasso di cellule insignificante;lo zigote ha una precisa identità ed è orientato ad un determinato ed irrinunciabile sviluppo.
Tale sviluppo avviene attraverso tre momenti consequenziali: coordinazione, continuità, gradualità.
La coordinazione rivela la prima proprietà dello Zigote; ascoltiamo ancora il prof. Serra: "Lo sviluppo embrionale , dalla fusione dei gameti, o sinagmia, sino alla comparsa del disco embrionale, a 14 giorni circa e oltre, è un processo che manifesta una coordinata sequenza(…) sotto il controllo del nuovo menoma (…)" (Ibidem, pag. 42) . La seconda proprietà dello zigote è la continuità: “Tutto indica che c’è una ininterrotta e progressiva differenziazione di un ben determinato individuo umano, secondo un piano unico e rigorosamente definito che inizia dallo stadio dello zigote” (Ibidem, pag. 43).
La terza proprietà è la gradualità: l’aspetto finale, la forma al termine del processo, deve essere raggiunta gradualmente. “ Precisamente a causa di questa intrinseca legge epigenetica, scritta nel genoma (…) ogni embrione umano mantiene permanentemente la sua propria identità, individualità, unicità” (Ibidem, pag. 44).
Appare dunque evidente come l’embrione sia vita umana in pieno sviluppo, dotata di individualità, cioè di una sua specifica caratterizzazione che la distingue dal padre e dalla madre.
L’uomo è molto di più della somma di due corredi genetici, e seppure riuscissimo a scandagliarne la struttura più intima attraverso la scienza, non saremmo comunque mai in grado di svelarne l’intimo mistero, la dimensione di libertà che sfugge ad ogni previsione, quella dimensione, che può fare anche di una persona gravemente malata una straordinaria e inattesa risorsa per la società.
Vi sono padri e madri che nella cura di un figlio gravemente malato hanno visto fiorire nella loro vita una dimensione d’amore impensabile, cogliendo in quel figlio un appello, un linguaggio, una forza comunicativa straordinaria. Quei genitori hanno scoperto, ad un grado elevatissimo, la forza di Agape, del dono di sé, che produce molto frutto. Ed è proprio a questo livello che si realizza la differenza più significativa tra una vita che privilegia la logica del dono ed una che invece guarda all’utile e al benessere, concependo l’uomo come pura autonomia e non come essere in relazione. Questo significa che l’essere umano, sin dal primo istante vive e progredisce in un rapporto di dipendenza, persino la nascita di un clone è dipendente da altri. Ma riconoscere il fatto che siamo comunque e sempre in relazione, non significa ancora comprendere correttamente quale debba essere la natura di tale relazione.
A questo livello si colloca -come ho osservato sopra- la logica del dono, che è soprattutto ragione del cuore, per cui l’altro non è mai un mio prolungamento, di cui posso disporre, bensì soggetto “ autonomo”. Questa autonomia vive correttamente se ciascuno di noi vede il prossimo come un essere sempre carente e perciò sempre bisognoso. La vita e i rapporti in tal modo si muovono nella dimensione del dono. “Concepire la vita come dono significa che la persona accoglie l’altro che incontra in modo incondizionato, offrendo se stesso come casa, dove egli può vivere e crescere”. L’altro in qualsiasi stato si trovi, vive della mia cura. Un paradigma di tale tipo vuole evidentemente che nella vita sia compresa la dimensione del sacrificio come elemento capace di dare frutto e tale dimensione è eminentemente cristiana.
La cultura dominante oggi, rispetto a tale prospettiva, rifugge la dimensione del dono, perché il dono appare inutile, una perdita. In un mondo dove l’orizzonte della vita eterna sia stato cancellato tutto si concentra sull’oggi, sul piacere, sul prendere anziché sul dare.
Ma queste mie considerazioni -si potrebbe obiettare- riguardano un bambino nato, non un embrione, quella realtà che alcuni definiscono, materiale genetico, grumo di cellule, alla stregua di “un’escrescenza carnosa”.
Per avvalorare questa tesi si è introdotto il concetto di pre-embrione. Di cosa si tratta? Come vedremo subito si tratta di uno dei tanti escamotage linguistici attraverso i quali mistificare la realtà delle cose.
E’ bene fare a questo punto una premessa: nel 1982, in Inghilterra, si prospettò l’ipotesi di sperimentare sugli embrioni umani. Per valutare la portata e il significato di una simile procedura si ritenne opportuno interrogarsi “su cosa” fosse l’embrione; allo scopo venne istituito il Comitato Warnock. Le risultanze del lavoro svolto dal Comitato possono essere riassunte -per quanto riguarda il nostro tema- al capitolo XII del rapporto finale; eccole: “(…) perciò da un punto di vista biologico non si può identificare un singolo stadio nello sviluppo dell’embrione, prima del quale l’embrione in vitro non sia da mantenere in vita”. Proseguendo, però, si osservava la necessità di procedere con la sperimentazione, e la legge inglese fece propria questa decisione presa a stretta maggioranza. A rafforzare questa decisione -non supportata da dati scientifici- ci pensò una nota embriologa: A. Mac Laren. La tesi di fondo sostenuta dall’embriologa, è così riassumibile: sino al quattordicesimo giorno dal concepimento il concepito non è altro che una massa amorfa di cellule, alla quale non può essere assegnata alcuna dignità; soltanto con la formazione del disco embrionale,ovvero dopo il quindicesimo giorno rispetto alla fertilizzazione, possiamo parlare della presenza di un individuo in nuce. La tesi della Mac Laren è duramente confutata dal dato scientifico. Per ragioni di sintesi mi sembra giusto commentare con le parole dell’embriologo americano C. Ward Kischer: “il cosiddetto pre-embrione è una falsa fase dello sviluppo umano, inventata da un embriologo degli anfibi solo per ragioni politiche. Non ha alcuna giustificazione credibile. Pertanto, la sua inclusione nel linguaggio dell’embriologia rappresenta un imbroglio di dimensioni colossali”. Come è possibile che una falsificazione di tale portata, quale quella proposta dalla Mac Laren, possa essere diffusa come verità scientifica? Evidentemente esiste un sistema compiacente, articolato e complesso -alimentato da mass media- che non ha a cuore la verità, bensì la diffusione di una certa idea di uomo e di società.
Al riguardo può essere utile rammentare un episodio -che peraltro fa parte di una lunga serie- del come si possano manipolare le informazioni, le statistiche, i dati, al fine di generare nell’opinione pubblica un’idea difforme della realtà, ma utilissima per allargare il consenso rispetto ad una certa tesi di partenza. Mi riferisco alla vicenda dell’aborto. Antonio Socci, noto polemista cattolico, nel suo bel libro, Il genocidio censurato, ci racconta di come negli Stati Uniti sia stata diffusa l’idea della necessità di una legge che legalizzasse l’aborto. Ci dà il resoconto di un medico abortista assai conosciuto, il dottor Bernard Nathanson, direttore della più grande clinica per aborti del mondo. Secondo i sondaggi, alla fine degli anni sessanta gli americani erano al 95,5 % contrari alla legalizzazione dell’aborto; ma sentiamo le parole di Nathanson: “Nel 1968 il nostro gruppo, era consapevole di andare incontro ad una sconfitta nel caso di un sondaggio serio e onesto. Indicammo così ai mass-media e al pubblico i risultati di un sondaggio fittizio, nel quale secondo noi un 50-60 per cento degli americani erano favorevoli alla legalizzazione dell’aborto. La nostra tattica consisteva nell’invenzione di dati frutto di consultazioni popolari inesistenti”.
Vi è inoltre da precisare come tale tattica di manipolazione dei dati -per voce dello stesso Nathanson- sia stata utilizzata in tutto l’Occidente per analoghe battaglie. Ricordiamo come in Italia, riguardo ai dati degli aborti clandestini -quale motivo primario al fine di introdurre la legalizzazione dell’aborto- sia stata seguita una simile strategia, inventando di sana pianta i dati ed enfatizzandoli a dismisura.
Uguale atteggiamento si è verificato in occasione del referendum sulla fecondazione assistita: in questo caso si enfatizzò il lato benefico di tale intervento, tacendo dei danni per la donna e per il bambino; per non parlare della campagna in favore dell’uso delle cellule staminali embrionali presentate come panacea per la cura di ogni male. Menzogna sistematica, avvallata da gran parte della stampa. Riporta al riguardo il quotidiano Avvenire, richiamandosi espressamente ad una dichiarazione dell’accademia di medicina Sechenov di Mosca: "Sta prendendo piede una forma di sensazionalismo curativo che alimenta un vero e proprio businnes”. Lo scienziato russo Joseph Chertkov ha denunciato gli interessi prettamente commerciali dietro alla corsa per sperimentare staminali ottenute da feti umani abortiti. Queste vengono considerate dei proiettili magici da reiniettare nel paziente, perché ritenute in grado di dirigersi autonomamente negli organi malati e rigenerarli. Ma sappiamo sin troppo bene che non è così, soprattutto con le staminali embrionali". La realtà ci dice invece che tutte le malattie curate sino ad oggi, sono guarite grazie all’utilizzo di staminali non embrionali.
Ma l’opera di delegittimazione della vita umana intrauterina procede anche per altre vie, per esempio negando all’embrione la qualifica di individuo.
Con questo termine intendiamo l’unicità di un essere, sia esso consapevole o meno, rispetto a tutto ciò che lo ha preceduto e poi lo seguirà.
Se l’embrione non è un individuo, non è neppure un essere umano, né tanto più una persona, se per persona intendiamo -sulla falsariga del pensiero dominante- un individuo dotato di una certa autonomia decisionale.
Ma procediamo per gradi.
Con quali ragioni si vuol negare la natura individuale dell’embrione?
La tesi avanzata a conforto della non individualità dell’embrione sostiene che la presenza dei gemelli omozigoti dimostrerebbe che in un embrione possono essere presenti più individui.
Notiamo subito che in natura, in tutte le popolazioni, è presente un tasso di gemellarità di questo tipo (omozigote) pari a 3.5 su mille parti. Questo significa che solo una piccola parte dei concepiti possiede una tendenza attiva alla gemellarità. Quindi l’inclinazione più naturale è lo sviluppo di un solo figlio da ciascun embrione. La cosa però non piace ai detrattori dell’embrione e pertanto non ne parlano o se ne parlano ne minimizzano la rilevanza.
Nasce però spontanea un’osservazione assai elementare: non occorre arrampicarsi sugli specchi chiamando in causa i gemelli omozigoti per legittimare il diritto alla soppressione degli embrioni, perché al riguardo potrei osservare come la presenza di due possibili individui, dovrebbe ulteriormente confortare la difesa dell’embrione e non la sua offesa. L’idea di individuo sottesa al pensiero dei negatori del diritto alla vita dell’embrione, in realtà è un artificio, un sofisma, che confonde solo gli ingenui. Perché se in natura non esistesse la gemellarità, pensereste che allora, l’individuo-embrione sarebbe difeso da quei signori che sollevano le sottili obiezioni? E se restassimo semplicemente al dato della bassissima percentuale dei parti gemellari, potremmo legittimamente dire che siccome l’embrione, in potenza, può dar luogo a più individui è semplicemente un ammasso di cellule indistinte? e in ragione di ciò legittimare il suo uso, quasi si trattasse di una cosa?
Teniamo presente come nel processo di sviluppo embrionale “non c’è un momento in cui scompare l’individualità e un altro in cui ricompare in due soggetti distinti”.
Inoltre ci sembra giusto rilevare come l’embrione "ha una sua identità fin dal concepimento, anche se non si è ancora in grado di sapere se si svilupperà in un solo individuo o se ne formerà più di uno”. E’ stato giustamente osservato “che il processo avente come esito la gemellarità non è di divisione, ma di moltiplicazone (…). Questo è reso evidente dal fatto che anche fra i gemelli monozigotici c’è un primo ed un secondo”.
E’ piuttosto evidente, dunque, come le argomentazioni a sostegno della negazione dell’identità non reggano. Come pure è curioso che nella nostra epoca, anche i dati più elementari debbano essere dimostrati attraverso estenuanti discussioni.
A ben vedere la risposta alle domande sollevate può venire soltanto se cercheremo di definire quando sorga la persona umana e quando essa divenga titolare di diritti, primo fra tutti il diritto alla vita, pre-condizione di ogni altro diritto.
Dal punto di vista di una certa idea di persona -che noi non condividiamo- l’embrione non è persona perché in primo luogo non gli è riconosciuto tale status da altri. Secondo tale opinione, i più non percepirebbero il concepito come una persona umana. Voglio osservare come la presenza dell’embrione sia talmente personale da indurre, per il solo fatto di esistere, l’idea dell’aborto. Sarebbe comunque interessante conoscere, su quali dati si basi la convinzione della non personalità dell’embrione umano, ma sia sufficiente ricordare quanto detto prima, cioè la forza manipolatrice dei mezzi di informazione di massa. Comunque al di là di questo, davanti ad una vita umana, davanti ad un ipotetico giudizio di valore sulla stessa, non possiamo basarci su delle semplici opinioni. Il metodo della democrazia, inteso come semplice conta dei numeri, in questo caso può rivelarsi inefficace, perché qui si tratta non di maggioranza o di minoranza, che dispone a piacimento su questioni marginali, ma di una presunta maggioranza che vorrebbe, in forza del numero, manipolare la realtà.
Vengono alla memoria le osservazioni di Papa Benedetto XVI quando afferma che una democrazia slegata dalla verità può degenerare in tirannia.
Le domande che immediatamente sorgono sono: che cosa conferisce ad un essere individuale il titolo di persona? e ancora: l’embrione può dirsi una persona umana?
La prima critica che viene sollevata da certuni nei confronti dell’embrione è che esso non può essere persona perché manca di attributi psicologici, quali il capire, il giudicare, lo scegliere, il comunicare.
Notiamo che se questi sono gli elementi che qualificano la persona allora, i diritti della persona umana vengono immediatamente negati a tutta una serie di -sarei tentato di dire-…persone! Ragionando dentro tale prospettiva se utilizzo il termine “persone” risulterei impreciso e pertanto dovrei chiamarli individui “pre-personali”. Queste “pre-persone” sarebbero i feti, i bimbi appena nati, i ragazzini, ed anche quelli che per un qualche sventurato motivo sono disabili. Proseguendo, potremmo supporre un momento in cui un individuo diventa a pieno titolo persona, per poi ricadere, nel momento di una ipotetica demenza senile, di una non autosufficienza, di un semplice disagio psichico legato all’età, in un limbo che potremmo definire post-personale. La battaglia sull’eutanasia e sul testamento biologico muove proprio da questi assunti:“costringere” il soggetto,con un subdolo lavoro psicologico, a farsi da parte, a sentirsi di troppo quando questi diventi un peso per la società. Ecco allora la paradossalità di un testamento biologico, primo passo sulla via del diritto alla morte, nel quale -da perfettamente sano- decido di ciò che sarà di me in caso di malattia. Questo perché -seguendo tale ragionamento- la vita è dei forti, dei sani, di coloro che sono in grado di incidere, di produrre, di fare. Ma la scelta che eventualmente avrò compiuto da sano, sarà realmente una scelta equilibrata? Non sarà piuttosto il prodotto di una persuasione?! Inoltre, come posso escludere che un malato, non possa concepire dentro di sé un volontà diversa da quella precedentemente espressa?
Insomma, ci troveremmo di fronte a due età della vita, meno tutelate, quasi senza diritti, e questo perché i diritti -direbbero alcuni- sorgerebbero solo con la coscienza, con la piena responsabilità.
Dietro tale concezione si cela l’idea di una vita intesa come capacità di auto-affermarsi, di imporsi, nonché la convinzione che l’efficienza fisica, sia un diritto assoluto; inoltre traspare un larvato disprezzo per il debole , per il diverso. Sentite cosa dichiara il noto giornalista Corrado Augias: “non è la morte che si teme, è il passaggio. Si tramanda che Giulio Cesare abbia detto la sera prima di essere assassinato che la migliore morte è quella improvvisa. Ma chi ci garantisce che l’avremo? Gli scenari che oggi ci si prospettano sono francamente ripugnanti, anche senza pensare all’accanimento terapeutico. Una massa di vecchi ormai incapaci di intendere e di volere, che sbavano, se la fanno addosso, pesano sui figli e nipoti in modo insostenibile”. E’ incredibile l’idea di dignità umana che traspare da questa dichiarazione; non merita commento, ma è indicativa di una certa mentalità che vorrebbe farsi cultura; la cultura dell’eutanasia.
Vorrei mostrare, prendendo spunto dalle parole di Augias, cosa significhi vivere secondo quella che in precedenza ho chiamato logica del dono. Mi servirò a tal fine di una storia, la storia di Shay. «Ad una cena di raccolta fondi per una scuola di disabili mentali, il padre di uno studente fece un discorso che nessuno di coloro che partecipavano avrebbe mai dimenticato. Dopo aver lodato la scuola e il personale, fece una domanda: “ Quando influenze esterne non interferiscono dall’esterno, la natura di tutti è perfetta. Mio figlio Shay, tuttavia, non può imparare le cose che imparano gli altri. Non può capire le cose come gli altri. Dov’è l’ordine naturale delle cose, in mio figlio?” Il pubblico fu zittito dalla domanda. Il padre continuò: “ Io ritengo che, quando un bambino come Shay, fisicamente e mentalmente handicappato viene al mondo, si presenta un’opportunità di realizzare la vera natura umana nel modo in cui le altre persone trattano quel bambino”.
Poi raccontò la storia seguente:<< Shay e suo padre stavano camminando vicino ad un parco, dove c’erano alcuni ragazzi che Shay conosceva, che giocavano a baseball. Shay chiese: “ credi che mi lascerebbero giocare?” Il padre di Shay sapeva che la maggior parte dei ragazzi non volevano un un ragazzo come lui nella squadra, ma comprendeva anche che se al figlio fosse stato permesso, la cosa gli avrebbe dato un senso di appartenenza di cui aveva molto bisogno e un po’ di fiducia nell’essere accettato dagli altri, nonostante i suoi handicap. Il padre di Shay si avvicinò ad uno dei ragazzi e gli chiese se Shay poteva giocare, non aspettandosi una grande risposta . Il ragazzo si guardò intorno in cerca di consiglio e disse: “ siamo sotto di sei e il gioco è all’ottavo inning”. Insomma, la partita era oramai persa e si poteva fare spazio a quel ragazzo. Ma le cose andarono diversamente: la squadra di Shay ottenne un paio di basi; il volto di Shay esprimeva un sorriso e una gioia indescrivibili. Ora la squadra di Shay aveva clamorosamente recuperato e si prospettava la possibilità della battuta vincente, e Shay era il prossimo al turno di battuta. Avrebbero lasciato battere Shay andando incontro alla sconfitta certa, o lo avrebbero sostituito? Tutti sapevano che gli era impossibile colpire la palla, ma nonostante questo i compagni di gioco decisero di affidargli il compito. Quello che accadde a questo punto è sorprendente, la squadra avversaria consapevole che la squadra di Shay, pur di farlo giocare metteva a repentaglio la vittoria, volle assecondare e premiare quel gesto di altruismo. Il lanciatore lanciò la palla morbidamente e lentamente… da quel momento si realizzarono sul diamante, una serie di azioni e reazioni a catena, che videro Shay protagonista. Ora Shay seppur con fatica, correva e il pubblico sugli spalti lo incitava, il tifo si fece unanime.. Shay corse, salì sul piatto e fu acclamato come l’eroe che aveva segnato e fatto vincere la sua squadra.
Quel giorno, disse il padre a bassa voce e con le lacrime agli occhi, i ragazzi di entrambe le squadre aiutarono a portare in questo mondo un pezzo di vero amore e umanità.» Shay non superò l’estate e morì in inverno, senza dimenticare mai quel giorno in cui aveva reso suo padre così felice, prima di tornare a casa fra le braccia della madre>>.
Questa storia credo rappresenti bene cosa significhi far vivere, promuovere la vita. Il dinamismo dell’amore e dell’accoglienza narrato da questo padre ha prodotto effetti assolutamente imprevedibili; esso ha contagiato tutti, è dilagato oltre l’accoglienza del singolo per diventare obiettivo comune. Una sorta di miracolo,di moltiplicazione dei pani e dei pesci fatta di gesti, di rinunce in nome dell’altro, del più debole.
Fortunatamente siamo lontani dall’idea di persona che traspare dalla parole di Augias, dove l’uomo, quando non è più efficiente, è considerato come un essere chiuso, una zavorra per gli altri. Siamo lontani dall’individualismo che altro non è che il volto banale del materialismo.
Mi sembra che molte circostanze ed episodi attestino sempre più come una vita senza il respiro dello spirito, necessariamente si rinserri entro la miopia di un quotidiano nostalgico di un passato irrecuperabile e di un futuro privo di speranza.
Ma torniamo ora a riflettere sugli attributi che qualificano la persona.
Attributi psicologici quali il capire, il giudicare, lo scegliere, non appaiono improvvisamene ma maturano costantemente lungo tutto l’arco dell’esistenza umana. Perciò un essere umano sarà sempre persona in via di attuazione; quindi è del tutto arbitrario negare al feto e al bambino la straordinaria potenzialità racchiusa nella sua nuova esistenza. Nulla sarebbe senza quel primo istante.
Facciamo un’ ipotesi limite: questo modo di ragionare potrebbe -perché no- essere esteso ai popoli, classificandoli in base ad un arbitrario grado di sviluppo; è evidente seguendo tale prospettiva, che un abitante della Nuova Guinea, dal punto di vista personale, è assai meno persona -secondo i parametri posti da noi “Occidentali evoluti”- che non un affermato avvocato di Londra o Parigi.
Vorrei qui precisare che i diritti di ogni uomo, anche del “selvaggio”, non furono affermati dall’Illuminismo, bensì codificati due secoli prima dal teologo De Vitoria, quando formulò la dottrina secondo la quale anche l’indios, è figlio di Dio e perciò titolare di diritti inalienabili. Il colonialismo non fu il frutto del cristianesimo, ma di una sottile forma di razzismo, che ritroviamo oggi in chi nega il diritto alla vita del concepito e dell’anziano malato. Questo perché la “logica post-moderna” vuole che la persona sia intesa come piena consapevolezza e capacità di autodeterminazione. Ma tutto ciò ci pare assurdo poiché il rispetto della persona umana deve prescindere da certe qualità.
Per questa via, come vedremo tra breve, un dato che sino a poco tempo fa appariva al senso comune come ovvio, ovvero la sacralità della vita, oggigiorno è fortemente messo in discussione.
Vi è da menzionare un altro elemento, che discriminerebbe tra l’essere persona e il non esserlo: non è persona chi non ha acquisito, un certo sviluppo organico, ovvero non è dotato di tutta una serie di organi di senso, in particolare la sensibilità nervosa, con la correlata sensibilità al dolore. Insomma, riepilogando, un embrione non sarebbe persona perché: non è un individuo, non ha sviluppato determinati organi, in primis i neuroni, non è in grado di esprimere giudizi e desideri, non è riconosciuto come persona da terzi.
Soffermiamoci per un attimo, sulla questione relativa agli organi di senso. Chi non dispone di un adeguato sviluppo degli organi di senso -secondo tale prospettiva- è un’entità pre-personale, sino a quando non compaiono i neuroni, cioè i precursori del cervello.
Anche questa argomentazione mi sembra assai curiosa; se i neuroni infatti, attestano la presenza di una persona in evoluzione, in quanto precursori del cervello, allora anche lo zigote è precursore del feto e quindi del bambino. Pertanto come posso giustificarne la “soppressione”?
Prendendo in considerazione seriamente le osservazioni che la scienza più attenta ci pone di fronte dobbiamo dunque concludere quanto segue: “La nostra natura possiede una radicale capacità di sviluppare le facoltà necessarie. Si possiede una natura umana se si possiede una capacità radicale e a lungo termine, di acquisire facoltà razionali di primo ordine. E’ chiaro che l’embrione della specie umana possiede una tale facoltà”. Detto in altri termini non la metafisica, non la religione, ma il dato scientifico attesta come dal primo istante del concepimento la natura umana realizzi se stessa attraverso un percorso di sviluppo che va dal semplice al sempre più complesso; ma tale tragitto è inscritto in quel primo momento.
La cosa ci appare tanto più vera se pensiamo che persino nel momento del concepimento, “l’ambiente” in cui tale evento ha luogo può incidere sulla futura natura del concepito, quasi che la psicologia del futuro bambino conservi memoria di quella primitiva esperienza. Come attesta al riguardo il dott. Gino Soldera, presidente dell’Associazione italiana di psicologia ed educazione prenatale: “il concepimento, come ogni momento importante, si riflette in tutte le fasi successive della vita, secondo la logica della continuità e della progressione. Quello che fino ad ora si può notare è che i segnali di disagio psicologico dei soggetti concepiti artificialmente, anche se in superficie, sono presenti e rilevabili fin dall’infanzia, mentre le difficoltà più profonde e complesse emergono, come è stato riscontrato, con maggiore vigore durante l’adolescenza: fase in cui il giovane, alla ricerca della sua identità, tenta di ricostruire la sua storia e di dare un senso alla propria esistenza”.
A riprova di quanto si sta asserendo, e di quanto la biologia sistemica afferma, ogni organismo, dal più piccolo batterio, sino all’uomo, è una totalità integrata, è un sistema vivente che esige rispetto e cura; mettere mano ad una qualsiasi parte del processo di evoluzione di un sistema biologico significa alterarne la sostanza, distruggerlo.
Siamo pertanto di fronte ad un mistero che dovrebbe perlomeno indurci a riflettere, nel rispetto di qualcosa che trascende le nostre capacità di comprensione. Purtroppo, però, una mentalità materialista, manipolatrice, orientata al dominio del più forte sul più debole, sembra offuscare la capacità di riconoscere i dati che scienza ed esperienza ci pongono di fronte. Pensiamo al feto: esso dispone di incredibili capacità, osserva il prof. Bellieni: “Solo da pochi anni conosciamo tutte le facoltà del feto: memoria, desiderio di salute, capacità di interazione. Da ancor meno tempo sappiamo della relazione tra embrione e madre (…) chi opera una distinzione fra vita e vita umana non è un vero scienziato, né agisce per motivi scientifici, vuole solo creare arbitrariamente un distinguo per aprire il passo a conseguenze che non sarebbero autorizzabili”.