La legalizzazione dell'aborto in Italia. Il ruolo della DC
di Giovanni Pevarello
È ormai evidente come il contesto culturale e politico odierno, ottenuto il crisma della legalità, preferisca non parlare di aborto, limitandosi solamente a rivendicare tale “diritto” nel totale indifferentismo morale, preferendo così sfuggire agli interrogativi più significativi che riguardano il senso della vita e i fondamenti dell’agire morale. In Italia, gli anni del boom economico, la rivoluzione culturale e sessuale del 1968 e il progressivo disimpegno della Democrazia Cristiana sulle questioni più scomode e cruciali, mutarono radicalmente i comportamenti, la mentalità e il costume degli italiani, accentuando ancor più il contrasto tra le luci di un gigantesco progresso tecnico e le tenebre di un funesto decadimento morale: stava lentamente scomparendo un'Italia fino ad allora legata al risparmio, alla morigeratezza dei costumi, alla famiglia e alla fede, che erano poi i pilastri ai quali anche la Chiesa si richiamava e sui quali intendeva fondare il suo progetto di rinascita cristiana, fondato su quel “tutto restaurare e riordinare in Cristo” di Pio X. A farne le spese maggiori fu proprio il fronte della famiglia, colpita in tutti i suoi aspetti strutturali, a partire dal dicembre 1970 con la legge divorzista, definita ironicamente dal sen. democristiano Guido Gonella “il capolavoro di dodici anni di centro sinistra”. Al divorzio seguì il nuovo “diritto di famiglia” (legge 151/75 del codice civile): esso abolì la formulazione del dovere dei figli di onorare i genitori e l'adulterio quale causa di separazione per colpa del coniuge; con l’equiparazione dei figli naturali a quelli legittimi, infine, la cellula primaria della società non era più l’istituzione familiare, ma l’unione sessuale comunque avvenuta: dentro, fuori, contro il matrimonio. Infine il quadro di disgregazione dell'istituto familiare si completò con la legge abortista del 22 maggio 1978. Nonostante le promesse fatte ad esempio dall'on. Berlinguer all'indomani del voto e gli evidenti casi di mal funzionamento ed errata interpretazione della legge, in questi ormai più di trent'anni ne sono stati violati i principi guida: di fatto l'interruzione volontaria di gravidanza è stata utilizzata spesso come un mezzo per il controllo delle nascite, in contrasto, quindi, proprio con l'art.1 della legge. Ma in che modo il nostro paese è arrivato a promulgare una legge abortista, nonostante la presenza di un governo e di una società allora in maggioranza cattolica? Cerchiamo di ricostruire un breve iter storico che portò alla legislazione della 194. Prima della legge abortista del maggio 1978, la questione della maternità era regolata dal Codice Rocco, per il quale l'unica forma di aborto consentita era il cosiddetto “aborto terapeutico”, ossia l'interruzione di gravidanza attuata per salvare la vita della madre, in ogni altro caso l'aborto era punito come reato. I limiti di queste norme erano essenzialmente tre: l'aborto veniva considerato non come un delitto contro la persona, ma contro lo stato, come un attentato alla “stirpe”; veniva considerato solo l'aspetto repressivo della questione, senza investire nel campo dell'educazione e della prevenzione; infine la gravidanza era considerata quasi esclusivamente come una questione femminile, la figura dell'uomo infatti veniva presa in considerazione solo all'art.546: “[...] chiunque cagiona l'aborto di una donna, col consenso di lei, è punito con la reclusione da due a cinque anni”. Sull’onda delle manifestazioni e delle proteste, della rivoluzione culturale e sessuale che stava coinvolgendo la società italiana, venne portata avanti la campagna abortista, che fu condotta dalla sinistra (PCI, PSI, PSDI), dai partiti liberal-capitalisti (PRI, PLI), e dal Partito Radicale, con l'appoggio di tutta la grande stampa (in particolare la Repubblica, L'Unità e il Corriere della Sera), di alcune importanti famiglie (Agnelli e Benetton, con alcune pubblicazioni inneggianti all'aborto e alle pratiche di auto sterilizzazione), di numerose riviste e movimenti (Espresso, Panorama, il Movimento di Liberazione della Donna e il Centro Italiano Sterilizzazione e Aborto). Le argomentazioni che vennero presentate furono diverse: la sovrappopolazione del pianeta (con riferimenti alle teorie di Malthus), vennero gonfiati i dati di aborti clandestini (“Il Giorno” del 7 settembre 1972 parlò addirittura di 3-4 milioni di aborti clandestini all'anno, il “Corriere della Sera” del 10 settembre 1976 di 1,5 - 3 milioni e di 25.000 donne morte in seguito ad aborto clandestino. I dati statistici e la storia si incaricheranno poi di smentire queste cifre ), l’aborto venne presentato come un problema strettamente confessionale ed inoltre si insistette sull’autodeterminazione della donna e sull’arretratezza del nostro paese rispetto agli altri principali paesi europei che avevano già legiferato in merito alla questione. In campo politico il primo vero progetto di legge fu presentato alla Camera l'11 febbraio 1973 dal socialista Loris Fortuna con un esplicito riferimento all'Abortion Act vigente in Inghilterra dal 1967. A questo progetto Fortuna seguirono in breve tempo i progetti di legge degli altri partiti laici, che si assomigliavano un po’ tutti: i principi fondamentali erano l’autodeterminazione della donna, la gratuità dell’intervento, l’esclusione della responsabilità dell’uomo, l’assenza di misure preventive. E' la Corte Costituzionale ad avere un ruolo decisivo nel dare il via a quel processo che portò poi alla legge 194: anzitutto la prima breccia al Codice Penale Rocco venne aperta proprio con la sentenza 49/1971 che dichiarò illegittimo l'art.553, ossia quello che puniva “l'incitamento a pratiche contro la procreazione”. Qualche anno più tardi, il 18 febbraio 1975, vi fu la celebre sentenza n°27: con essa la Corte Costituzionale annullò il generale divieto penale di aborto (art. 546 del codice penale), riconducendo quest’ultimo in una sede più opportuna, ossia tra i delitti “contro la persona”, e non più quindi tra quelli “contro l’integrità e la sanità della stirpe”. Nonostante si limitò l’autodeterminazione della donna stabilendo la necessità dell’accertamento medico, tale sentenza allargò pericolosamente il concetto di aborto terapeutico, in particolare affermando che “non esiste equivalenza fra il diritto alla vita e alla salute di chi è già persona, ossia la madre, e la salvaguardia dell'embrione, che persona deve ancora diventare”. Di fatto l'aborto volontario fece quindi il suo ingresso nell'ordinamento giuridico italiano con questa celebre sentenza del febbraio 1975, utilizzata infatti pochi mesi più tardi per giustificare gli aborti eugenetici di Seveso, che il governo democristiano di Andreotti autorizzò in via eccezionale per le donne della zona, colpita il 10 luglio 1976 dalla fuoriuscita di una nube di diossina da un reattore chimico. Anche in quell’occasione gli scontri tra l’area radicale e il fronte pro-life furono molto forti, infatti era grande la preoccupazione circa la possibilità di bimbi malformati in seguito al disastro: alla fine le interruzioni di gravidanza furono 33, anche se l’anno successivo, in seguito a dei controlli avvenuti in Germania sui corpicini dei feti abortiti, si scoprì che in realtà nessuno di quei corpicini recava segni di possibili malformazioni. Mentre i partiti dell'arco costituzionale presentarono i loro progetti di legge sul tema dell'aborto, il gruppo radicale pensò invece ad un referendum per abrogare tutte le vecchie norme del codice Rocco dando il via alla piena liberalizzazione della pratica abortiva: sia i democristiani che i comunisti cercarono di evitare in tutti i modi tale ipotesi, da una parte per gli esiti ancora scottanti della campagna referendaria sul divorzio del 1974, dall'altra perché il referendum sarebbe stato un palese intralcio all'avanzato stato dei lavori sul “compromesso storico”. Nel frattempo in Parlamento furono presentati altri progetti di legge, ma a partire dal dicembre 1976 ci si concentrò su un nuovo progetto unitario elaborato dalle Commissioni permanenti riunite Giustizia e Sanità, che in linea di massima rappresentò già la futura legge 194. Esso, approvato, alla Camera, fu poi bocciato dal Senato il 7 giugno 1977: Palazzo Madama considerò le norme presentate “contrarie allo spirito e alla lettera della Costituzione”. Secondo il regolamento, l'iter legislativo avrebbe dovuto chiudersi e non avrebbe potuto riprendere daccapo il suo cammino se non dopo una sospensione di sei mesi; i lavori invece ripresero subito, qualche giorno dopo, su iniziativa di quei deputati “cattolici” eletti nelle file del PCI, i quali apportarono al testo tre modifiche, puramente formali, con le quali cercarono di superare altre possibili eccezioni di costituzionalità: per mostrare una maggior attenzione alla prevenzione, nel titolo venne aggiunta la formula, ancora oggi presente, di “tutela sociale della maternità”; l'art.15 relativo alla funzione dei consultori venne spostato all'art.2; infine, all'art.4 l'espressione «l'aborto è consentito» fu sostituita con «la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza», in quanto i proponenti dissero che lo Stato non poteva esprimere il proprio esplicito consenso all'aborto. Fu così che il 13 aprile 1978 la Camera mise ai voti il testo: la seduta durò 36 ore a causa dell'ostruzionismo dei Radicali, con i parlamentari costretti a passare la notte in Aula, “bivaccando” tra i banchi, come raccontano le cronache dell'epoca. In quei giorni i radicali si resero protagonisti in Parlamento di discorsi lunghissimi: ad esempio il capogruppo radicale Pannella tracciò la storia delle varie teorie sulla vita del feto, e partendo da Aristotele, arrivò addirittura ad affermare, in maniera maliziosa, che “per San Tommaso l'embrione era inanimato”. L'obiettivo della strategia radicale era consentire lo svolgimento del referendum e impedire l'approvazione di una legge considerata troppo remissiva, che avrebbe invece dovuto garantire la completa liberalizzazione della pratica abortiva e la totale e incondizionata autodeterminazione della donna. A sbloccare la situazione fu il presidente Pietro Ingrao che convocò nel suo ufficio una riunione con i capogruppo trovando l'accordo con il gruppo radicale: fine dell'ostruzionismo e in cambio, al referendum sul finanziamento pubblico ai partiti previsto per giugno, venne aggiunto un quesito di abrogazione della legge Reale sulle armi. Il 14 aprile 1978 passò alla Camera il progetto di legalizzazione dell'aborto con 308 voti favorevoli (quelli di PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI e di un drappello di democratici) e 275 contrari (quasi tutta la DC, i Radicali, l'MSI, il PDUP-DP). Un mese più tardi invece, il 18 maggio 1978, venne approvata in via definitiva al Senato la legge 194, senza subire alcuna ulteriore modifica, con 160 voti a favore e 148 contrari. Ciò che emerge in maniera evidente sfogliando le sedute parlamentari dell'epoca, è la generale consapevolezza dell'importanza e della responsabilità che comportava la questione aborto, sia nei confronti della politica che della società italiana; essa fu definita “il sismografo della crisi dei valori e della civiltà”, Lattanzio (DC) parlò addirittura di “spartiacque tra due tipi di società”. Anche da parte democristiana vi era quindi stata la cognizione della sfida allora in gioco, di cui sicuramente l'aborto era una tappa importante, e a tal proposito l’on. Costamagna (DC) affermò alla Camera nel marzo 1976: “con la consapevole acquiescenza di noi democratici cristiani in questo Parlamento, sono anni che si va tentando di scristianizzare il nostro Paese. [...] Per noi deputati democratici cristiani è un imperativo morale dire no qualunque possa essere l'esito della battaglia, sia in questo Parlamento sia nel paese”. La Democrazia Cristiana ha rappresentato per quasi cinquant’anni l’unità dei cattolici nella sfera politica, vi è stato un periodo in cui non votare Democrazia Cristiana equivaleva quasi a non essere nemmeno cristiani, eppure la legge 194 vanta un record particolare: è l'unica legge sull'aborto al mondo che porti la firma esclusivamente di uomini politici cristiani. L’operato tenuto dalla Democrazia cristiana durante l’intero iter legislativo ancora oggi infatti suscita non poche perplessità, per lo meno nel mondo cattolico. Le cause di questo fallimento democristiano furono molteplici, a cominciare dalla mancanza di una strategia unitaria di intervento capace di trasformare in senso realmente umano il progetto unitario di legge, sostituita invece da una cultura del compromesso. La trasformazione in atto del partito e l’apertura a sinistra con i governi di solidarietà nazionale gettarono le basi per un disimpegno progressivo, che l'on. Riccio (DC) definì “il cedimento alla politica del compromesso, in sé inaccettabile quando si tratta di valori e di beni etici: è il cedimento ad un integralismo laicista radicale, sprezzante di ogni tolleranza per altre culture e deciso a travolgere con ogni mezzo le conquiste della civiltà, dell'amore e della libertà conseguite sul piano storico dall'umanesimo cristiano, che ha infranto tutti i ceppi della schiavitù e ha esaltato la dignità dell'uomo, ponendolo come l'unico valore assoluto, protagonista della vicenda umana”. Inoltre furono altre le tappe decisive, che determinarono progressivamente il fallimento democristiano sulla questione. Anzitutto il comportamento non proprio idilliaco dei senatori scudocrociati: durante i lavori di Commissione, mentre in un primo momento presentarono 33 emendamenti agli articoli della proposta di legge unificata, in un secondo si allontanarono all’atto della discussione; perciò, questo disimpegno, unito alle numerose assenze durante i lavori di Commissione, non apportarono quasi nulla al progetto unitario di quell’originaria proposta democristiana elaborata e presentata alla Camera dall'on. Piccoli nel 1975. Il primo grande segnale di cedimento fu sicuramente la scelta della “neutralità” assunta dal governo e annunciata dall’on. Moro nel luglio 1975: “la ritrovata natura popolare del partito induce a chiudere nel riserbo delle coscienze alcune valutazioni rigorose, alcune posizioni di principio che erano proprie della nostra esperienza in una fase diversa della vita sociale, ma che fanno ostacolo alla facilità di contatto con le masse e alla cooperazione politica. Vi sono cose che, appunto, la moderna coscienza pubblica attribuisce alla sfera privata e rifiuta siano regolate dalla legislazione e oggetto di intervento dello Stato. Prevarranno dunque la duttilità e la tolleranza”. Questa frase, detta pubblicamente mentre era in corso una massiccia campagna mediatica per ottenere una legge permissiva in materia di aborto, fu il segnale che la DC non si sarebbe opposta ad oltranza ad una simile legge; il contenuto della frase fu anche sufficiente per ritenere che questo atteggiamento della DC facesse parte degli accordi per il “compromesso storico”. La posizione di Moro fu poi confermata alla Camera dall'on. Cortese (DC): “Il legislatore non è sordo né inconsapevole delle nuove esigenze che l'evoluzione del costume pone alla riflessione ed alla coscienza dello stesso, alla sua cultura, alla sua scienza ed infine alla sua umanità, nel formulare una norma giuridica, tenendo, per altro, presente l'imperativo metodologico generale che vuole […] si legiferi non per le individualità, ma per tutta una popolazione”. Questa della “neutralità” fu oggetto di aspre critiche da parte di altri partiti politici, in particolare l'MSI fu molto duro, ad esempio l'on. Cotecchia la ritenne “un'offesa al Parlamento” e rivolgendosi al Presidente del Consiglio Moro attaccò: “questa neutralità, se intesa come una liberazione di ogni responsabilità, allora, debbo concludere che ella ha voluto rinnovare, come Ponzio Pilato, i nefasti del lavacro delle mani, immergendole nel sangue immacolato, puro, di vittime innocenti, condannate alla morte sin dal loro primo, flebile alito di vita”. Anche all'interno dello stesso partito democristiano si manifestarono diversi dissensi: “Il Governo non può essere neutrale. Non lo fu del resto quando la Corte costituzionale fu investita del problema, perché il Presidente del Consiglio Andreotti si costituì nel giudizio facendo depositare dall'Avvocatura generale dello Stato una memoria con la quale si chiedeva che venisse dichiarata la infondatezza della questione sollevata (il progetto di legge presentato dal socialista Fortuna, ndr). Il Governo, quindi, al 13 febbraio 1973, non era neutrale, aveva le sue opinioni, prese responsabilmente posizione. Che cosa è accaduto rispetto ad allora? Forse la ragione va individuata nel fatto che nel febbraio 1973 non vi era un alleato scomodo, non vi era un alleato troppo esigente, il Partito socialista italiano era infatti all'opposizione. La decisione del Governo di dichiarare la sua neutralità deriva, dunque, dalla precarietà della maggioranza che lo sostiene, anzi dall'inesistenza della stessa? Il Governo è forse preoccupato di urtare la suscettibilità del partito socialista (non voglio dire del Partito comunista italiano, il che sarebbe veramente grave)?”. Questa della “neutralità” fu oggetto di aspre critiche da parte di altri partiti politici, in particolare l'MSI fu molto duro, ad esempio l'on. Cotecchia la ritenne “un'offesa al Parlamento” e rivolgendosi al Presidente del Consiglio Moro attaccò: “questa neutralità, se intesa come una liberazione di ogni responsabilità, allora, debbo concludere che ella ha voluto rinnovare, come Ponzio Pilato, i nefasti del lavacro delle mani, immergendole nel sangue immacolato, puro, di vittime innocenti, condannate alla morte sin dal loro primo, flebile alito di vita”. Ed ancora l’on. Costamagna: “L'Italia cristiana viene da molto lontano e non ritengo che l'obiettivo finale di questa Italia cristiana sia il compromesso storico. La Chiesa ha subito una progressiva perdita di influenza, allorquando non ha caratterizzato per fermezza le sue doverose risposte, ma sul problema dell'aborto la decisione c'è stata. Ci sono democristiani e quindi cattolici disposti a compromessi, magari con lo scopo di assecondare i propositi dei comunisti?”. Altri elementi di debolezza della struttura e strategia democristiana furono: l’autorizzazione di aborti concessa in via straordinaria nella zona di Seveso, di cui abbiamo già detto; la votazione alla Camera del 14 aprile 1978, che approvò la legge con 308 sì e 275 no, ma nella quale i voti non tornarono del tutto. In base alle dichiarazioni, in totale i sostenitori della legge avrebbero dovuto essere 319 e i contrari 308: al momento della votazione, i voti mancanti tra i favorevoli alla legge furono 11, mentre ben 33 tra i contrari e i latitanti. Coloro che dovevano essere contrari alla legge e che al momento del voto erano assenti furono 29, 12 dei quali democristiani, ciò significa che quattro fra i 33 avevano votato per la legge e che se tutti i contrari fossero stati presenti nell'aula dimostrando il loro dissenso, la legge non sarebbe passata. Inoltre, come già ricordato, la 194 è l'unica legge sull'aborto al mondo che porta la firma esclusivamente di uomini politici cristiani (Francesco Paolo Bonifacio, ministro di Grazia e Giustizia, Tommaso Morlino, ministro per il Bilancio e la Programmazione economica, Filippo Maria Pandolfi, ministro del Tesoro, Tina Anselmi, ministro della Sanità, Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio ed infine il Presidente della Repubblica Giovanni Leone), nessuno dei democristiani firmatari si dimise, preferendo così la stabilità del governo alla coerenza personale. Andreotti annotò queste parole sul suo diario personale dell’epoca: “Mi sono posto il problema della controfirma a questa legge (lo ha fatto anche Leone) ma se mi rifiutassi non solo apriremmo una crisi appena dopo aver cominciato a tirare le falle, ma oltre a subire la legge sull'aborto la Dc perderebbe anche la presidenza e sarebbe davvero più grave”. Un ruolo decisivo in quei giorni avrebbe potuto averlo il Presidente Leone, il quale per rinviare la firma della legge non avrebbe avuto alcun bisogno di percorrere la strada delle dimissioni (cui fu invece costretto un mese dopo a seguito dello scandalo Lockheed): l’articolo 74 della Costituzione infatti gli attribuiva la facoltà di chiedere alle Camere, con messaggio motivato, una nuova deliberazione della legge prima della promulgazione, il che, nel caso concreto, avrebbe reso possibile la celebrazione del referendum radicale e ritardato l’intervento del Parlamento. Già nei giorni precedenti l’approvazione della legge 194 numerosi cittadini, sostenendo l’incostituzionalità di quest’ultima, si appellarono direttamente al Presidente della Repubblica, supremo garante della Costituzione, affinché, come era nei suoi poteri, non promulgasse la proposta abortista. Furono sottoscritti appelli al Presidente Leone da oltre 87 mila cittadini, tra cui magistrati e medici, consegnati la mattina del 19 maggio al Quirinale. Ma Leone non diede alcun tipo di risposta e lunedì 22 maggio promulgò la legge che rese libero l’aborto procurato. Diversamente si comportò ad esempio nel 1990 Re Baldovino in Belgio, il quale di fronte al bivio tra firmare o non firmare la legge sull'aborto, preferì mettere a repentaglio la sua corona: «So che agendo così non scelgo una strada facile e che rischio di non essere capito da un buon numero di concittadini. Ma è la sola via che in coscienza posso percorrere. […] La libertà vale per tutti salvo che per il Re?». Le parole di due democristiani che diventeranno poi entrambi presidenti della Repubblica ci aiutano a comprendere ancor meglio questa strategia fallimentare. Nel 1999 Cossiga dichiarò: «Un cattolico può separare convinzioni etiche e realtà politica. Si può dire che sono contro l’aborto, ma che non ne faccio questione di battaglia politica. Mi inchino al volere della maggioranza: non si rompe un governo sull’aborto”. Ed ancora Oscar Luigi Scalfaro parlò in proposito di “atto dovuto”, e in un’intervista nella quale gli si proponeva un raffronto con il comportamento di Pilato, rispose: “Certo: Pilato è un mio collega. Come magistrato e come politico, io lo difendo. [...] ha ceduto alla legge del potere, a quel "se non lo condanni non sei amico di Cesare" gridatogli dai peggiori nemici di Cesare. Ma erano quelli che potevano mettere in pericolo la sua carriera; e Pilato [...] ha assunto le sue responsabilità. In questo coraggio va rispettato; ma va anche indicato come esempio di quel potere non "politico" di cui parlavo, perché gestito per il proprio interesse e non per quello della città, dello Stato”. Infine, come non ricordare che già alla fine del 1979, dopo poco più di un anno dalla sua entrata in vigore, le eccezioni di costituzionalità sollevate furono 19, di cui la prima risalente al 5 giugno 1978 (Tribunale di Pesaro), vale a dire ad appena 2 settimane dalla promulgazione; la Corte Costituzionale confermò sempre la costituzionalità della legge 194, nonostante in due sue sentenze (la n° 9 del 19/2/1965 e la n°49 del 16/3/71) la vita del concepito veniva descritta come bene provvisto d’una tutela avente “fondamento costituzionale”. Quando poi, ancora una volta, il 5 dicembre 1978 la Corte Costituzionale sottopose a esame di legittimità la legge abortista, fu proprio il governo monocolore democristiano presieduto dal sen. Andreotti a dare incarico all’Avvocatura dello Stato di difendere la conformità della legge stessa alla Costituzione. Il dibattito sull’aborto, proprio perché mise in gioco valori essenziali e irrinunciabili, avrebbe potuto rappresentare un’occasione importante per il partito democristiano, chiamato ad un recupero della sua vera identità cristiana e popolare. Ma non fu così, e in poco più di cinque anni, si arrivò alla legge abortista 194/78.
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