Cristo in Cina, ieri e oggi
Di Francesco Agnoli (del 17/05/2010 @ 22:46:21, in Storia del Cristianesimo, linkato 1102 volte)

La Cina è oggi un paese economicamente emergente. Dopo i disastri umani ed economici di Mao, la politica di Deng Xiaoping ha lanciato il paese verso il progresso economico. A costo, sempre, di milioni di vittime dello sfruttamento e dei Laogai. Ma la Cina non è solamente un colosso economico in ascesa.

E’, secondo alcuni osservatori, il futuro della Cristianità. Il rapporto tra Cina e cristianesimo è lungo e tormentato: oggi è il governo comunista a stabilire cosa la gente deve credere e fare; un tempo era l’imperatore, considerato una divinità, a decidere quali culti potessero essere ammessi, e quali no. Questo ha determinato momenti di grande apertura della Cina al cristianesimo, e momenti di forte persecuzione.

Il primo ad interessarsi a questa religione degli occidentali è forse il gran khan Qubilay, di origine tartara, che chiede ai Polo di ritornare in Cina con cento “saggi d’Occidente”, per farsi insegnare la loro religione, ma anche le loro scienze e la loro tecnica. Ma l’aspettativa di Qubilay non ha seguito. Il tentativo di penetrare nuovamente in Cina viene perseguito da Francesco Saverio, l’amico di Ignazio di Loyola. Un uomo bruciato dall’amore di Cristo, che “in undici anni e otto mesi navigò per tre anni e sette mesi percorrendo quasi 62.000 chilometri, per una media di sessanta chilometri al giorno”. Ma la speranza di Saverio di convertire la Cina non si realizza: entrare nel grande impero non è facile, per la difficoltà della lingua e per la chiusura degli abitanti agli stranieri, considerati pericolosi e barbari. Sempre, dal Seicento al Novecento, missionari cristiani riferiranno di essere stati apostrofati allo stesso modo: “diavoli stranieri”. E’ Matteo Ricci, un gesuita marchigiano, a penetrare nel cuore del paese, divenendo un personaggio ammirato e stimato. Ricci ha studiato al Collegio Romano dei Gesuiti, l’università scientifica dell’epoca, quella che ha lanciato Galilei riconoscendo per prima le sue scoperte del Sidereus Nuncius.

Il visto d’ingresso che gli permetterà di entrare nell’Impero è un orologio, che desta l’ammirazione e l’accoglienza entusiasta dell’elite cinese. Ricci sbalordisce i suoi ospiti mostrando marchingegni meccanici, fabbricando astrolabi, carte geografiche, mappamondi, sfere armillari, prismi, quadranti solari… Insegna loro che l’impero cinese non è né il centro del mondo, né quasi l’unica terra esistente, come loro ritengono; traduce Euclide, insegna l’astronomia, la cartografia e le altre conoscenze scientifiche europee, facendo fare alla Cina dei Ming un enorme balzo in avanti. Per tutto questo i cinesi lo apprezzano. Lui li considera colti ed intelligenti, e scrive che “gli abitanti sono i più industriosi del mondo”.

Difficile, invece, comunicare sul piano religioso: i cinesi non comprendono la sua venerazione per una donna, la Madre di Cristo, tanto che Ricci è costretto a togliere una icona della Madonna dalla sua camera, per non dover sentire più una voce insistente: “questi barbari con la tunica hanno una donna come Dio” (Paul Dreyfus, Matteo Ricci, uno scienziato alla corte di Pechino, San Paolo). Il difetto dei cinesi, dice Ricci, è che “l’Impero di mezzo è un paese senza Dio”, in cui il potere dei mandarini compie ogni sorta di soprusi, e pullulano l’infanticidio, il suicidio, e “il peccato contro natura”.

Quattrocento anni dopo di lui, il francese Jean Jacques Matignon ribadirà le critiche di Ricci, stigmatizzando nella cultura cinese la facilità del ricorso al suicidio, l’infanticidio e la pedofilia “estremamente diffusa nell’Impero di Mezzo”. Dopo Ricci, che ha aperto le porte della Cina all’Occidente, e viceversa, va segnalata l’attività del gesuita trentino Martino Martini, di cui è appena uscita una bella biografia di Giuseppe Longo: “Il gesuita che disegnò la Cina”. Martini è l’autore di un atlante che “rimase per quasi due secoli l’opera di riferimento per la geografia della Cina”.

Questo missionario, che parla italiano, tedesco, portoghese, latino e cinese classico, e che regala ai suoi ospiti traduzioni di Cicerone, Aurelio, Seneca…, cerca punti in comune tra la sua religione e la cultura del luogo: loda la morale di Confucio e afferma che il Maestro aveva riconosciuto la presenza di un Essere Supremo. Le vicende di Ricci e Martini sono esemplari per capire come di norma l’Occidente si è relazionato nei secoli con le altre culture: le ha incontrate con i suoi commercianti, accompagnati però, talora, dagli eserciti, ma soprattutto con i suoi missionari. Sono stati quasi sempre questi ultimi, in verità, a creare un vero dialogo, convinti di avere di fronte popoli da convertire a Cristo, cioè fratelli da amare.

Non è mai esistito, nel rapporto tra i missionari e i popoli non europei, quel pregiudizio razzista, quel “razzismo scientifico”, che invece caratterizzerà parte del pensiero laico e colonizzatore nostrano; neppure sono esistiti quegli interessi economici e politici che hanno genereranno guerre e conflitti. Ricci, Martini ed altri missionari porteranno ai cinesi il meglio della civiltà europea (scienza, scuole, ospedali ed orfanatrofi) ed otterranno amore e ammirazione sconfinati. La ricambieranno divenendo il più possibile “cinesi con i cinesi”. Ma non sarà sempre così. Altri missionari non verranno compresi, perché pur sempre portatori di un culto incomprensibile, verso un “uomo inchiodato”, un “criminale” nato da una “donna barbara”; ma, soprattutto, perché confusi, in alcuni momenti storici, con gli speculatori e i predatori europei, di cui pagheranno spesso, con la vita, le colpe. Ne riparleremo.

Si parlava, la volta scorsa, di Matteo Ricci e di Martino Martini, i missionari che sono riusciti ad aprire le porte della Cina alla cultura ed alla scienza europea. Mentre questi due gesuiti vengono accolti dai cinesi con immensa ammirazione, e assumono essi stessi il più possibile gli usi e costumi degli ospitanti, senza però ottenere numerose conversioni al cristianesimo, in Giappone le cose sembrano andare ancora meglio. Sotto la direzione di un altro gesuita, padre Valignani, infatti, moltissimi giapponesi si fanno battezzare e in circa trent’anni sorgono ben trecento chiese. All’inizio del XVII secolo i cristiani giapponesi sono circa duecentomila. Ma il trionfo dura poco, perché qui, come in Cina, tutto dipende da chi governa: basta un sovrano dispotico perché le persecuzioni si scatenino. Tanto più se inglesi ed olandesi, come avviene in qualche occasione, fanno credere allo shogun che i missionari cattolici sono l’avanguardia di una spedizione spagnola e portoghese. Nel 1587, a Nagasaki, vengono condannati e crocifissi 26 cristiani, giapponesi e non. Dieci anni dopo le crocifissioni saranno 36; poi altre 68 nel 1618, 30 nel 1622, 88 nel 1619… Solo nel 1889 i cristiani giapponesi inizieranno ad essere lasciati in pace. Ma torniamo in Cina.

Dopo gli splendori di Ricci e Martini, le conversioni stentano ugualmente a decollare e i periodi di tolleranza si alternano alle persecuzioni. Nel 1757 un vescovo domenicano viene decapitato e quattro sacerdoti strangolati. Inizia un lungo periodo di clandestinità durante il quale non mancano gli eroi, come padre Jean Gabriel Perboyre: per la sua fede viene incarcerato, appeso a una trave per i pollici, tenuto in ginocchio su catene di ferro per ore. Poi viene legato ad un patibolo a forma di croce, strangolato e preso a calci nel ventre. Muore l’11 settembre 1840. I missionari che vanno in Cina, i cinesi che si convertono, sanno cosa rischiano. Rischiano per la loro fede e per la proverbiale chiusura cinese a ciò che non è indigeno; rischiano perché altri europei concepiscono i rapporti con la Cina solo in nome degli interessi economici, anche dei più turpi.

Alla metà dell’Ottocento, infatti, gli inglesi invadono il paese con l’oppio: l’imperatore reagisce e l’Inghilterra attacca. Gli eserciti europei non si muovono certo per proteggere i loro missionari, ma intervengono solo sono in gioco gli interessi economici della madrepatria. Eppure, per i cinesi, i missionari sono semplicemente europei, come gli altri. E ne pagano le colpe, sulla loro pelle. Mentre costruiscono scuole, chiese ed orfanatrofi, per rimediare al provverbiale disprezzo dei cinesi verso i bambini, i missionari vengono accusati di ogni nefandezza. Nel 1870 i membri di una setta attaccano l’opera della Santa Infanzia “affermando che non avrebbe altro scopo che raccogliere orfani per prenderne il sangue, di cui si nutrono i cristiani: strano modo di interpretare ‘questo è il mio sangue’ della consacrazione eucaristica”. All’inizio del XX secolo, con la rivolta dei Boxer, i cristiani finiscono nuovamente nel mirino: circa 30.000 vengono uccisi, in mezzo a crudeli torture. Alcuni vengono appesi a degli strani cavalletti: il collo viene serrato tra due mezze tavole con un foro in mezzo. Si muore così, tra atroci dolori e senso di soffocamento, dopo giorni e giorni. Tra questi martiri c’è Alberico Crescitelli, un missionario che gestisce orfanatrofi con centinaia di bambini, e, soprattutto, bambine: verrà ucciso il 21 luglio 1900, dopo indicibili torture, decapitato con una lama di un attrezzo agricolo, poi fatto a pezzi e gettato in un fiume. Nel 1912 in Cina l’Impero crolla e nasce la Repubblica. Ma i cristiani continueranno a subire qua e là le angherie di bande di giapponesi, di comunisti e di briganti vari.

Ciononostante, alla vigilia della II guerra mondiale i cattolici gestiscono 700 ambulatori, 250 orfanatrofi e oltre 200 ospedali. Nel 1949, con la salita al potere di Mao, la tradizionale xenofobia cinese, unita alla filosofia materialista, rendono di nuovo arduo professare la propria fede. I missionari vengono accusati di ammassare armi per il nemico; di aiutare i bambini per approfittarne, o addirittura per ucciderli; di intendersela di nascosto con donne cinesi. Insieme ai libri, ai caffè, ai teatri, ai cinema, anche la religione “straniera” viene perseguitata. C’è sì, a parole, libertà religiosa, ma con una precisazione: “I beni e le attività religiose non sono soggette ad alcuna dominazione straniera”. Il pericoloso “dominatore straniero”, è, naturalmente, il papa di Roma.

Mao dà vita ad una feroce persecuzione dei credenti. Ma l’effetto è solo momentaneo: tanti anni di disumano materialismo, sembrano oggi aprire le porte ad una esplosione di conversioni. Paradossalmente il comunismo, distruggendo anche le vecchie tradizioni cinesi, ha cancellato antichi ostacoli alla conversione dei cinesi, in particolare il tradizionale culto degli antenati, e ha reso molto più appetibile una opzione opposta a quella materialista. L’odio verso l’Occidente, su cui il regime ha sempre raccontato immense bugie, lascia lo spazio, in molti, all’interesse verso il Vecchio Mondo e la sua civiltà. Un intero popolo crocifisso nei Laogai guarda al Crocifisso di Cristo senza l’ostilità e l’incomprensione dei suoi padri. Così, nonostante la repressione, fisica e culturale, continui, nella sola Pechino, alla Veglia Pasquale del 2007, sono stati battezzati 1000 cinesi adulti. Il sangue dei martiri cinesi, sparso nei secoli, sta divenendo seme di tanti nuovi cristiani. Il Foglio, 6 e 13 maggio 2010