Nel nostro corpo si stima in 90.000 km. la lunghezza del sistema circolatorio, fatto di arterie, di vene, ma anche e soprattutto di una miriade di capillari che raggiungono ogni distretto cellulare, grazie al loro diametro di pochi micron (millesimi di millimetro). Questi numeri, la lunghezza della rete distributiva e il diametro dei capillari, sono il risultato di due super-vincoli di sistema: 1. la massimizzazione delle superfici di scambio; 2. la minimalizzazione del percorso di trasporto, ovvero la distanza tra il punto di produzione e il punto di consumo. Nel concreto: le molecole del nostro pranzo, assorbite dai villi intestinali, devono raggiungere in breve tempo tutte le cellule del corpo, da quelle della testa a quelle dei piedi. Il sangue costituisce il mezzo di trasporto e il sistema circolatorio rappresenta la rete autostradale. Più la rete è capillare, più immediato sarà il contatto tra la merce e il suo consumatore. Ovvio, si dice.
Non è così scontato secondo gli Autori di questo libro. Questi due criteri di ottimizzazione dei risultati non dipendono né dal codice genetico, né dal metabolismo biochimico cellulare, né dai percorsi dello sviluppo embrionale, né tanto meno dalla selezione naturale. Che cosa c’entra la corrispondenza tra una tripletta di basi azotate del DNA e il suo amminoacido con questa mirabile struttura anatomo-fisiologica tridimensionale a dinamica continua? Ma soprattutto: perché la selezione naturale avrebbe dovuto premiare questa configurazione speciale ottimizzata ogni volta che si è formato un sistema circolatorio, in tutti gli ambienti diversi tra loro e in tutti i tipi di animali diversi tra loro? Infatti, ovunque c’è vita, si riscontra questo tipo di ottimizzazione. Eppure, non è compresa nel prezzo!
Le possibilità sono ed erano infinite; se dunque ogni organismo ha scelto questo tipo di distribuzione su questa rete di trasporto, significa che ha dovuto obbedire a precisi vincoli interni (o endogeni) preesistenti all’ambiente stesso. Leggiamo le parole di Palmarini & Fodor: “il codice genetico, la biochimica cellulare, le leggi dello sviluppo e la stessa selezione naturale non hanno avuto alcuna scelta, se non sfruttare questi vincoli endogeni e lasciarsene orientare.” (pag.97). E’ un libro molto interessante e soprattutto molto coraggioso sia nel titolo che in tutto il suo procedere, capitolo dopo capitolo, nel duplice tentativo di ridimensionare da una parte il ruolo della selezione naturale (considerata da Darwin “l’unico motore dell’evoluzione”) e di sottolineare dall’altra il ruolo delle “leggi della forma” quali binari fissi già tracciati, che l’evoluzione biologica e perfino quella culturale non può che assecondare.
La tesi sostenuta dai due autorevolissimi e blasonati scienziati cognitivi è perciò in linea con la modernissima versione della teoria dell’evoluzione che va sotto l’acronimo “evo-devo” (evolutionary developmental biology), secondo la quale le trasformazioni che spiegano le diverse forme di vita apparse sulla Terra devono essere ricercate non tanto nelle mutazioni casuali e nell’ambiente ma piuttosto nei piani di sviluppo e nelle loro leggi, che filtrano di continuo le infinite possibilità incanalando ogni singola morfogenesi solo all’interno di percorsi predefiniti. Geni master ben conservati in diversi gruppi di animali e a notevole distanza temporale confermano questa idea innovativa di “vincoli epigenetici” (=che risiedono al di fuori dei geni) allo sviluppo e quindi anche all’evoluzione.
Accade all’embrione in via di sviluppo la stessa cosa che accade alle figure del gioco degli scacchi: solo alcuni precisi movimenti tra i molti possibili sono loro concessi. Non è che il vivente si adatti all’ambiente in cui si trova, come ci fanno credere tutti i libri scolastici di biologia, ma piuttosto il vivente si inserisce nel mondo assecondando dei vincoli ben precisi, imposti dalla gravità, dalla fisica dell’Universo, dalla chimica e dalla stessa biologia. Il ruolo dell’ambiente e della sua selezione è dunque “di rifinitura microevolutiva” , non certo di “generatore di forme”. E’ molto innovativa a questo proposito anche la critica che i due Autori muovono al concetto di “ex-aptation” inventato da Lewontin e da Gould nel tentativo di estendere il ruolo della selezione naturale anche a organi o a dettagli dell’organismo sorti inizialmente per scopi diversi. Ispirati dai “pennacchi” della cupola della Basilica di S.Marco a Venezia, che sono strutture architettoniche necessarie per farla sostenere da una base quadrata, i due biologi evoluzionisti ritengono che molti dettagli di un organismo non siano nati per la funzione che oggi esplicano, ma siano stati “trascinati a rimorchio” (free riders) dalla selezione naturale che invece aveva agito su un altro obiettivo.
Come i pennacchi si ritrovano di fatto solo perché agli architetti interessava la cupola (e non viceversa), così tante parti di un organismo nate per scopi diversi, si ritrovano a rimorchio della selezione naturale all’interno di nuovi percorsi. Il testo si dilunga, per la verità a tratti in modo anche un po’ morboso, per spiegare come questa interpretazione, ormai diventata un classico della teoria dell’evoluzione, non sia corretta. E’ possibile realizzare una cupola su una base quadrata senza la progettazione di relativi “pennacchi” di sostegno? Se la risposta è no, come effettivamente ci si attende, significa che anche i pennacchi devono essere pensati nel momento in cui ci si interessa alla cupola. I pennacchi non sono a rimorchio, ma sono parte integrante del progetto (anche se gli Autori evitano di usare termini così finalistici).
Se mi è consentita a questo punto un’appendice personale, trovo che questa moderna prospettiva di studio sia di grande aiuto alla ricerca della verità sulla natura e sull’origine dei viventi. Mi permetto quindi di spingere la critica al darwinismo ad un livello più radicale di quanto faccia questo testo, ovviamente senza più nulla attribuire alla responsabilità dei suoi Autori. Palmarini e Fodor hanno riportato l’esempio del sistema circolatorio, con i suoi 90.000 km. di lunghezza; hanno raccontato di come siano “perfette” le superfici delle foglie per garantire l’equilibrio tra l’evaporazione e l’assorbimento radicale dell’acqua; hanno descritto il “colpo d’ala perfetto” degli insetti ed altro ancora, ma, si sono limitati ad esempi di dettaglio. Mi spiego: se appare ottimizzato il singolo organo o il singolo apparato, perché non dovrebbe esserlo ancora di più l’organismo intero, nella fattispecie il corpo umano?
E’ il corpo intero, in tutta la sua esistenza, con i suoi tre assi di sviluppo, con la sua organizzazione integrata di tutti gli apparati e di tutti gli organi, che rivela una “formattazione” previa di tutto il genoma dello zigote, perché si sviluppi in queste direzioni, a prescindere dal suo contenitore ambientale. In poche parole: l’uomo obbedisce certamente alle leggi della chimica, della fisica e della biologia, ma non ne viene spiegato. E’ il concetto di “complessità irriducibile” di Michael Behe. L’ esistenza dei viventi è dovuta ad un surplus d’informazione previa, capace di canalizzare lo sviluppo della materia nella direzione che di fatto prende, scartando tutte le altre infinite possibilità. E la selezione naturale cosa fa? Osserva, nutre, ospita, a volte anche elimina, certamente, ma non crea nulla di nuovo. Il ruolo dell’ambiente ricorda un po’ quello dell’utero di una mamma: dorma o vegli, il bambino vi si sviluppa da solo, per forze endogene. Nell’arco di quaranta settimane l’uovo fecondato passa dalla simmetria sferica a quella bilaterale, con un asse cefalo-caudale, un asse dorso-ventrale, un asse contro laterale.
Contemporaneamente la cellula staminale originale dà origine ad oltre duecento tipi cellulari, passando dalla consistenza acquosa indifferenziata alla struttura dell’osso, della cartilagine, dei tendini, dei denti, dell’umor vitreo, della retina, del sangue, del cuore, delle valvole,… E l’ambiente? Di quale di queste meraviglie può essere ritenuta responsabile la selezione naturale? E ancora: che cosa c’entra la selezione naturale con il perfetto equilibrio esistente in natura tra la reazione della fotosintesi e il suo contrario, ovvero la respirazione? Che cosa c’entra l’ambiente con le reazioni della glicolisi o con quelle del metabolismo dei grassi? Che cosa c’entra l’ambiente con la formazione di due individui di sesso diverso, nelle cui ghiandole avviene il processo di dimezzamento del numero di cromosomi per realizzare la fecondazione?
Grandissimo è dunque il merito di Palmarini & Fodor, che rilanciano la palla con un calcio vigoroso a chi credeva di aver spiegato il mistero della vita in termini di mutazioni e di selezione naturale, relegando le leggi della forma dietro le quinte del palcoscenico in cui si gioca l’anatomia e la fisiologia degli esseri viventi. Concludo ora con un’amara considerazione. Spiace certamente dover leggere nelle “Condizioni d’ingaggio” che per legittimare il loro lavoro scientifico, i due Autori premettono con un solenne giuramento, non richiesto, di “essere atei, completamente, ufficialmente, fino all’osso e irriducibilmente atei”.
E’ vero che il loro intento dichiarato è quello di aggiungere credibilità alla loro critica al darwinismo, tuttavia questo giuramento lascia l’amaro in bocca. “Excusatio non petita, accusatio manifesta”, dicevano i saggi Latini: si potrebbe anche dire che i Nostri temono che da un lavoro scientifico, fatto di scienza e per la scienza, per mano di scienziati, qualche scellerato lettore possa, in preda alla follia, sospettare l’esistenza di un Creatore, responsabile ultimo di quei “vincoli endogeni” che tanta parte hanno nel plasmare la vita? Quale danno farebbero alla scienza e soprattutto a se stessi, questi scellerati?