Ma non chiamatelo “aborto terapeutico”
Di Enzo Pennetta (del 04/05/2010 @ 22:23:24, in Aborto, linkato 2265 volte)

Un “aborto terpeutico” ha un epilogo diverso dal previsto, la storia viene raccontata dalle cronache suscitando commozione e commenti, si tratta di una vicenda drammatica ma come avviene per tutte le notizie anche questa è presto dimenticata. Però è proprio quando determinati fatti si fanno più lontani che diventa possibile affrontarli scindendo le riflessioni dalla componente emotiva.

Il termine “aborto terapeutico” è una di quelle associazioni di parole che lascia perplessi, si intuisce che qualcosa non va bene, viene alla mente il romanzo “1984” di George Orwell nel quale la manipolazione delle parole era uno dei metodi usati dal “Grande Fratello” per imporre il suo totalitarismo.

Le parole descrivono il mondo, quelle che descrivono la realtà contemporanea sono dunque necessarie per comprendere determinate fenomenologie. Ma se la parola di cui ci si occupa è il termine “aborto” l’argomento è particolarmente delicato perché riguarda situazioni altamente drammatiche, la trattazione linguistica di tale argomento non può rischiare di essere riduttiva di una complessa realtà umana, essa deve tendere invece a fare chiarezza, ad essere di aiuto a chiunque intenda riflettere approfonditamente.

Compiendo un’operazione di segno inverso alla manipolazione delle parole si può provare ad analizzare la locuzione “aborto terapeutico” utilizzata per indicare, nella maggior parte dei casi, situazioni in cui all’interno di una gravidanza desiderata l’aborto viene praticato in seguito alla scoperta di gravi malformazioni nel feto.

Se andiamo a cercare l’etimologia del termine “aborto” troviamo che essa ci riconduce alla radice “ab-orior”, cioè a qualcosa che avviene dal sorgere, dalla nascita, in questo caso si intende il morire nell’atto stesso di nascere. Il termine “terapeutico” è invece di meno immediata analisi, ma dopo un po’ di confronti col termine “cura” che talvolta viene indicato come sinonimo, si giunge alla conclusione che una terapia dovrebbe essere un trattamento che mira alla guarigione di una malattia.

Se proviamo adesso ad unire i due termini otteniamo che per “aborto terapeutico” si intende un trattamento di guarigione tramite la soppressione di una vita. Guarire e morire sono però due termini in antitesi tra loro e uniti esprimono una contraddizione, si forma così una figura retorica chiamata ossimoro. Nel caso in questione non c’è una guarigione del soggetto malato, al malato viene infatti praticata un’eutanasia, si ha quindi un intervento il cui fine è prevenire la nascita di individui malati e permettere solo quella di individui sani, quindi la locuzione che esprime correttamente quello che avviene sarebbe “aborto eugenetico”.

Ma c’è un’altra considerazione sulla quale è opportuno richiamare l’attenzione, il limite previsto per l’intervento. Nel caso dell’aborto terapeutico il limite massimo è di 22 settimane, prima di tale termine il feto non è considerato un “cittadino” con i relativi diritti, è considerato qualcosa che i romani avrebbero definito “res” in contrapposizione a “civis”.

La conclusione è sorprendente, la differenza tra un feto di 21 settimane e quella di un feto di 22 settimane è la stessa che anticamente esisteva tra schiavi e uomini liberi. Nello “Ius civilis” infatti lo schiavo era considerato una “res”, una entità senza diritti. La schiavitù fu sconfitta con l’affermarsi del cristianesimo, uno dei primi passi verso la soppressione di quella antica realtà fu infatti compiuto nel IV secolo, proprio quando fu dichiarata “omicidio” l’uccisione di uno schiavo. Prima di tale norma la differenza tra schiavo e uomo era dunque di tipo amministrativo, lo stesso individuo che era soggetto ai poteri illimitati del suo padrone, nel momento in cui fosse stato liberato dalla schiavitù sarebbe divenuto un “liberto” con i diritti di un essere umano. Lo stesso principio sembra adesso valere per i feti che conquistano la loro condizione di “liberti” nel momento in cui compiono la ventiduesima settimana di gestazione.

Ma la stessa legge prevede un limite è diverso in assenza di una malformazione del feto, come è noto in questo caso esso si situa al novantesimo giorno, periodo che corrisponde circa alla dodicesima settimana. Questa differenza impone un confronto: dopo 12 settimane di gravidanza un “sano” ha tutti i diritti di un libero cittadino mentre gli stessi diritti per un “non sano” vengono riconosciuti 10 settimane dopo. Si deve conseguentemente ritenere che lo stato di malattia renda un po’ meno uomini e un po’ più “res”? Ancora una volta si assiste ad una manipolazione linguistica, se prima delle 22 settimane un grave difetto fisico è tale da giustificare la morte del portatore, dopo la nascita lo stesso difetto fisico viene minimizzato, anche il linguaggio si adegua fino a sfumare nel “diversamente abile”.

Ritenere che in certi casi una patologia sia così grave da giustificare la morte e, al contrario, accoglierla pienamente in altre circostanze come una “differente abilità”, richiede ancora una volta un esercizio del tipo immaginato da George Orwell nel suo “1984”, si tratta dell’applicazione di quello che egli definiva “bipensiero”: « Raccontare deliberatamente menzogne ed allo stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall'oblio per tutto il tempo che serva, negare l'esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile.»

Ma per affermare il “bipensiero” è necessario prima agire sulle capacità critiche delle persone, sulle capacità di analisi e su tutto ciò che va sotto il nome di “cultura”, non a caso nel romanzo orwelliano sulla facciata del Ministero della verità campeggiava la scritta: L’ignoranza è forza