Fa sempre piacere dibattere del IV secolo. Significa che ci si trova in compagnia di persone istruite, capaci di distinguere il IV secolo dal III, o dal V.
Il XXI, poi, risulta immediatamente fuori discussione, anche se questo comporta un indubbio sacrificio, perché sì, ammettiamolo: quell’epoca remota assomiglia al tempo in cui viviamo. Un’epoca di transizione, incerta e a tratti confusa, esposta al rischio della violenza, alla tentazione dello scontro frontale. Impossibile da iscrivere in un cerchio, la figura geometrica che, nella finzione cinematografica, risulta l’emblema ossessivo di Ipazia, la grande pensatrice neoplatonica protagonista di Agora, il film di Alejandro Amenábar in arrivo nelle sale italiane il 23 aprile.
Programmazione tormentata, questa della nuova pellicola del regista di The Others e Mare dentro, tanto da suscitare una petizione online alla quale hanno aderito intellettuali di grido, tutti egualmente preoccupati dal fatto che l’uscita di Agora in Italia fosse ostacolata dal suo contenuto potenzialmente anticristiano. Insomma, il film dalle nostre parti non si sarebbe potuto vedere perché sgradito alla Chiesa. Argomentazione speciosa, considerato che molte altre pellicole hanno faticato e faticano a trovare un distributore in Italia (La strada, tratto dal capolavoro di Cormac McCarthy, ha avuto vita difficile, e di The Blind Side, per cui la sventurata Sandra Bullock ha appena ricevuto un Oscar, si sa già che non arriverà mai nelle sale: in entrambi i casi si tratta, tra l’altro, di film cristianamente ineccepibili…).
Fatto sta che l’appello ha avuto esito più che positivo e adesso il debutto di Agora è accompagnato da una serie di eventi culturali senza precedenti: un convegno oggi pomeriggio a Roma presso l’Enciclopedia Italiana, un altro il 20 aprile a Milano nella sede della Banca Popolare, un dibattito il 21 a Genova. Ogni volta, relatori di tutto rispetto, da Luciano Canfora a Silvia Ronchey, da Umberto Eco a Eva Cantarella, da Franco Cardini allo stesso Amenábar. Giusto, si dirà, perché il film si basa su un robusto lavoro di ricerca storica ed è opportuno riportare l’attenzione su una figura come quella di Ipazia, ancora ignorata da un’ampia parte del pubblico. Ci sono due modi, però, di affrontare il passato, due criteri non necessariamente contraddittori, ma che chiedono almeno di essere riconosciuti e distinti. Il primo è lo sguardo che potremmo definire dell’esattezza.
Quanto è precisa, per esempio, la ricostruzione dell’Alessandria del IV secolo che fa da sfondo ad Agora? Altro che precisa è precisissima, in alcuni momenti addirittura ammirevole (l’impatto visivo, sia detto con chiarezza, risulta il pregio maggiore del film). Anche la sceneggiatura, inoltre, è sufficientemente smaliziata da evitare le forzature più grossolane. Basti considerare la cautela con cui il vescovo Cirillo viene presentato quale mandante morale e non quale diretto responsabile dell’uccisione di Ipazia, interpretata dall’attrice Rachel Weisz. Come se non bastasse, le circostanze dell’assassinio da parte dei fanatici cristiani sono addirittura edulcorate rispetto alla narrazione di Socrate Scolastico, l’autore ecclesiastico a cui si devono le informazioni sul terribile episodio. Ma c’è un altro criterio, un secondo punto di vista che si può adottare nei confronti del passato, ed è quello dell’analogia. Ecco, senza questo diverso inquadramento prospettico forse non ci sarebbe stata nessuna petizione per Agora. Anzi, forse non ci sarebbe stato neppure Agora.
Dopo una prima parte tutto sommato equilibrata e coinvolgente nel descrivere il marasma dell’Alessandria tardo-antica, nella quale credenze vecchie e nuove si intrecciano in una rete pressoché inestricabile di conflitti, con la scena madre della distruzione della Biblioteca da parte dei cristiani il film cambia bruscamente di tono e il gioco delle analogie si fa più evidente. Cirillo e i suoi seguaci, i monaci parabolani, si presentano come una sorta di Gestapo, la Chiesa è una congrega oscurantista e misogina (ma perché anche qui, come già nel Codice Da Vinci, ci si dimentica sempre della Vergine Maria?), la fede appare di volta in volta come una scelta opportunistica, come una fuga dalla realtà, mai come un tormento. La stessa Ipazia lo afferma con chiarezza quando, invitata a battezzarsi, sostiene che non potrebbe mai smettere di revocare in dubbio ciò in cui crede. Illuminismo scientifico contro cieco fideismo, dunque, con tanti saluti alla complessa elaborazione teologica che, proprio nel IV secolo, comporta una continua riconsiderazione di una tradizione ancora recente.
Del resto, è così che funziona l’analogia: prende quel che serve e respinge tutto il resto. Il risultato è che, al di là delle raffinatezze filologiche di cui Agora è costellato, l’impressione generale che lo spettatore ne ricava è di una Chiesa arrogante e spietata, che si fa scudo del nome di Dio per compiere stragi e perseguitare innocenti. Una tesi che, finalmente, rientra nel cerchio tanto amato da questa Ipazia cinematografica.
D’accordo, l’intento di Amenábar sarà anche stato quello di mettere in guardia contro i fondamentalismi. Ma allora, petizione per petizione, non si potrebbe chiedere al regista di dedicare il suo prossimo film alle persecuzioni dei cristiani in Paesi come il Pakistan? Saremmo nel XXI secolo e non nel IV, saremmo quaggiù sulla Terra e non lassù, nel cielo stellato che occupa tanta parte di Agora. E potremmo, per una volta, accontentarci dell’esattezza senza più preoccuparci dell’analogia. Alessandro Zaccuri, Avvenire, 14 aprile
IPAZIA LA MARTIRE di Guido Pagliarino
Immaginatevi che una donna geniale, come ad esempio la due volte premio Nobel Curie, venga aggredita da un gruppo di ululanti fanatici odiatori delle sue idee e del fatto stesso che sia femmina, scarnificata viva con taglienti conchiglie, le si amputino gambe e braccia e che poi i suoi resti, e forse prima che sia morta, siano bruciati perché non ne rimanga neppure la tomba; ma che questo avvenga nel 415, in tempi nei quali per una donna era quasi impossibile emergere, se non perché colma d’ingegno e dotata d’una volontà invincibile: vittima, la matematica, astronoma e filosofa Ipazia d’Alessandria d’Egitto, massacrata da un certo Pietro, lettore nel duomo della città, e da suoi compari che, come lui, di cristiano avevano solo il nome. Le prime notizie del delitto risalgono a una storia della chiesa del cristiano Socrate e a un’opera dell’ariano Filostorgio, di non molti anni successive. Ipazia aveva fondato e diretto una scuola platonica divenuta famosa nell’impero che, senza pregiudizi verso le varie credenze, contava tra gli allievi anche cristiani, tra cui Sinesio, poi vescovo, a sua volta dotta figura che aveva continuato ad amare profondamente la propria «maestra, madre e sorella», come testimonia un’epistola che le aveva inviato anni dopo. Anche altri cristiani colti, pur non essendo stati suoi allievi, la stimavano; invece i credenti di mediocre istruzione la detestavano, mescolando antifemminismo, fanatismo religioso e senso d’inferiorità culturale, sino al punto che il gruppo di Pietro il lettore giunse al suo assassinio.
Morendo Ipazia, la sua scuola, una delle più splendide accademie della tarda antichità, finì, senza che nessun allievo tentasse di prenderne la guida. Forse tutti i discepoli temettero per la loro vita. Pagò per l’omicidio la memoria del vescovo d’Alessandria Cirillo, accusato ancora in vita dal citato ariano Filostorgio, all’epoca famoso autore d’una storia ecclesiastica che intendeva difendere storicamente e teologicamente il cristianesimo ariano, in cui indicava l’alto prelato quale mandante del delitto. In quel tempo le controversie dottrinarie erano violente da tutte le parti, anche perché le varie correnti cristiane erano bandiere d’idee politiche diverse: i cristianesimi eretici (1) accoglievano le istanze d’indipendenza di regioni africane, palestinesi e siriane, Cirillo e gli altri vescovi ortodossi sostenevano l’impero; il che non impedì all’imperatore cristiano Teodosio, quando le diatribe giunsero al punto di minare la saldezza delle istituzioni, di destituire e scomunicare il vescovo d’Alessandria e di farlo incarcerare, pronunciando lo stesso ordine per il più acerrimo avversario di Cirillo, il monaco eresiarca Nestorio, che in seguito liberò ma relegò agli arresti domiciliari in un convento, senza riuscire, peraltro, a impedire che la chiesa nestoriana si diffondesse. Cirillo, invece, fu del tutto reintegrato. Questo vescovo ottenne ancora, non molto prima di morire († 444) la condanna di Teodoro di Mopsuestia, già maestro di Nestorio, quale esito di vari tentativi fra il 438 e il 440.
Il combattivo Cirillo aveva cominciato la sua opera di epurazione fin dal 403, partecipando alla destituzione di Giovanni Crisostomo vescovo di Costantinopoli, senza prevedere che questi sarebbe stato annoverato tra i Padri della Chiesa e che lui, per certe estremizzazioni di suoi allievi, sarebbe stato considerato, dopo la morte, l’ispiratore dell’eresia monofisita. Uomo dal durissimo carattere dunque, quel Cirillo d’Alessandria, e proprio questo lo rese indiziato dell’omicidio d’Ipazia. S’era reso sospetto non solo all’avversario Filostorgio, ma pure a Socrate lo storico, come intuiamo da certe sue considerazioni sul carattere del vescovo, coll’essere stato sempre sferzante non solo con le correnti cristiane che giudicava eretiche, ma pure verso quei filosofi che, proprio come Ipazia, non avevano accettato il cristianesimo; e direttamente contro la scuola di lei aveva più volte scoccato parole in duomo, prima dell’omicidio. È verosimile che i suoi ragionamenti avessero acceso a tal punto gli animi del rozzo lettore Pietro e dei suoi amici da portarli ad assassinare Ipazia, oltre le intenzioni del loro vescovo. Non fu difficile a Filostorgio costruire, senza prove, la tesi che Cirillo avesse senz’altro ordinato la morte d’Ipazia, per lapidazione scrisse, anche se poi i suoi scherani avrebbero ecceduto. Colorò la storia con una presunta invincibile invidia culturale del vescovo per la filosofa, che avrebbe sentito più sapiente di lui: tesi inverosimile, in quanto Cirillo era a sua volta famoso per la profondissima conoscenza della filosofia greca, su cui basava la propria teologia. L’imputazione d’essere stato il mandante fu raccolta, circa un secolo dopo la morte d’Ipazia, da Damascio, che scrisse una sua biografia descrivendola donna dolce e bellissima di cui tutti gli allievi erano innamorati, vanamente in quanto aveva scelto la verginità, fatta uccidere da Cirillo per odio ideologico, invidia intellettuale e disprezzo per le femmine. L’accusa venne ripresa nel XVIII secolo in ambiente illuminista, da Voltaire e dal Toland, uno dei fondatori del deismo (2), per raggiungere il XX secolo, nella «Storia della filosofia occidentale» del filosofo Russell.
Per contro, e me ne dolgo perché sono cristiano, credenti non seri e senza carità lanciarono accuse alla martire o ne stravolsero comunque la vita e le idee, seviziandone così anche la memoria, in complicità con gli antichi cialtroni che l’avevano uccisa. Il bigotto Lewis, per opporsi alle accuse deiste e illuministe contro Cirillo, non trovò altro che scrivere una diffamatoria storia su Ipazia, definendola una maestra d’Alessandria spudorata. Forse ancor più, il ricordo della filosofa fu vilipeso, nella prima parte del XIX secolo, dalla poetessa Diodata Roero che, in versi freddi, presentò Ipazia quale una martire cristiana che, stringendo un ideale crocifisso, nel venire fatta a pezzi perdonava i suoi assassini, mentre non c’è dubbio che la filosofa fosse stata una delle ultime, maggiori esponenti della cultura antica greca.
Sono stato tempo fa giudice popolare in Corte d’Assise d’appello: in un immaginario processo di secondo grado sull’assassino d’Ipazia, voterei per la condanna di Pietro lettore e dei suoi per sevizie, omicidio e vilipendio di cadavere e per l’assoluzione di Cirillo dall’accusa d’esserne stato il mandante (3); e se fossi il presidente della sezione, invierei a giudizio tanto Filostorgio, per diffamazione, quanto, per diffusione di notizie calunniose, Damascio, Voltaire, il Toland e il Russell, a danno di Cirillo, e il Lewis e la Roero, contro Ipazia.
Note: 1) Intendendo eresia nel senso originario di una scelta differente da quella di chi seguiva le pronunzie dei concili ecumenici della Chiesa. 2) Per il deismo, ogni religione era creazione umana e Dio, se c’era, non interveniva provvidenzialmente nelle vicende umane. Una corrente deista però, di stampo semignostico-cristiano, pur escludendone i miracoli e la risurrezione, credette alla realtà di Cristo; ma vedendolo quale rivelatore non dell’Amore divino, bensì della Ragione come unico mezzo di salvezza per gli uomini magnanimi: in tal modo pensarono, tra altri, i maggiori esponenti della Rivoluzione Americana, per cui la Costituzione degli Stati Uniti fu e resta di tipo deista. 3) Quanto meno per insufficienza di prove, dato che si tratterebbe d’un processo ideale: questa motivazione, in realtà, è da tempo abolita nel nostro ordinamento, sostituita dall’assoluzione, comunque, per non aver commesso il fatto.