La letteratura occidentale nasce dall'idea di viaggio: quello degli Argonauti, che solcano per la prima volta il mare, quello dei Greci, verso Troia, quello di Ulisse, che ritorna ad Itaca. Il viaggio, infatti, implica una direzione, cioè un senso, una grandezza umana da sviluppare, come un seme, badando che non muoia. Ulisse deve superare la tentazione dell'immortalità, offertagli da Calipso; deve sfuggire al fascino del loto, il fiore che potrebbe inebriarlo, e fargli dimenticare il fine del suo viaggio; deve sconfiggere le malie di Circe, l'allettamento dei sensi, degli istinti, che lo trasformerebbero in un maiale. Ricerca e conquista, rinuncia e sacrificio. Ma la meta dell'Ulisse greco è la sua isola, la sua famiglia, sua moglie: tutto l'orizzonte possibile di una nobilissima concezione naturalista. Nel medioevo Dante immagina anch'egli un viaggio grandioso. La Commedia infatti è il cammino non verso un'isola terrena ma nei mondi ultraterreni. Si passa dall'inferno al purgatorio, per ascendere faticosamente il monte, ma non per fermarsi sulla cima: il traguardo è soprannaturale, è il cielo, la realizzazione eterna, perfetta, della felicità ineffabile, quella che "occhio d'uomo non ha mai visto, né orecchio d'uomo ha mai udito". Questo è il vero approdo dell'uomo dopo Cristo: la virtù naturale non basta più, la felicità intravista, imperfetta, solo terrestre, che lascia nell'uomo ancora la sete, non è sufficiente; la ragione non raggiunge tutto, e non comprende ogni cosa. Per questo, se per i greci Ulisse poteva accontentarsi di Itaca, per Dante deve ripartire: occorre andare oltre, più in là, verso una patria, una famiglia non perituri. Così il viaggio di Ulisse nasce da uno sprone positivo, "seguir virtute e canoscenza", per rispondere alla domanda dell'uomo di Bene ("virtute") e di Verità ("canoscenza). Il Bene e il Vero sono infatti strutturalmente desiderati dall'uomo. Ma allora perché il volo di Ulisse diviene "folle"? Perché Ulisse non ha la grazia, non può, da uomo, raggiungere ciò che gli è superiore. Non può attraversare l'immenso oceano senza il sostegno divino, non può essere salvezza e compimento a se stesso. Dante compie lo stesso viaggio, ma è la grazia divina, innestata sul suo peccato, sulla sua creaturalità, a permetterglielo: non è l'uomo che va incontro alla salvezza, ma la salvezza che scende verso l'uomo che la cerca. E' il soprannaturale che incontra l'uomo, che, faticosamente, sale. Succede esattamente come aveva intuito Platone: l'uomo giunge, con la ragione, alla metafisica, all'esigenza e alla razionalità di Dio, ma deve esserci "un dio" che gli si rivela, che svela quanto rimane di ineffabile e di umanamente non intelleggibile. L'idea della vita come viaggio è presente anche nel mito medievale del Santo Graal: i cavalieri della Tavola Rotonda partono da una terra desolata, guasta, simbolo della loro anima, per cercare la coppa che ha contenuto il sangue di Cristo. La coppa è simbolo della sete dell'uomo, che può essere saziata solo dal rapporto con Dio. Occorre ricercarla, affrontando pericoli estremi, che rimandano al combattimento interiore: se non fosse un mito cristiano sarebbe la stessa storia di Ulisse. La condizione necessaria per poter raggiungere il Graal è la domanda, la disponibilità e la purezza del cuore. Per questo Lancillotto, che ha tradito il suo re, Artù, non ci riesce. Solo Galvano può toccare il Graal ed "ha la possibilità di conoscere misticamente ogni suo segreto, ma al termine di questa straordinaria esperienza muore e una schiera di angeli viene a prendere la sua anima" (P. Gulisano, Re Artù, Piemme): il Graal infatti indica una meta eterna, la Felicità soprannaturale, che non è di questo mondo, perché l'oggetto della ricerca, su questa terra, non sono cose della terra! E', invece, come scriverà un altro grande poeta del viaggio, Torquato Tasso, la Gerusalemme Celeste. Cosa rimane oggi, in Occidente, di questa idea letteraria e filosofica del viaggio? Ben poco: esso sembra non condurre più da nessuna parte, sembra aver smarrito il senso. L'uomo pare sempre più accontentarsi del loto, o di Circe. Oppure si lascia ammaliare da Calipso, e dalle sue promesse di immortalità. E' così che il Santo Graal diviene, come ha scritto entusiasticamente Gregory Stock, alfiere dell'ingegneria genetica più feroce, la possibilità di manipolare il Dna, "il Santo Graal della biologia umana", per dare inizio "all'autoprogrammazione dell'uomo", alla "manipolazione di noi stessi", allo scopo di divenire "molto più che semplicemente umani" ("Riprogettare gli esseri umani", Orme).
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