C’è qualcosa di triste, di profondamente triste nell’insistito paragone tra quanto accade oggi e i tempi cupi di Tangentopoli. C’è chi, come Ferruccio De Bertoli, uno che conosce bene i poteri forti del Paese, profetizza che “come alla vigilia del 1992 sta per saltare il tappo”; altri, più intimoriti, preferiscono alludere alle solite “mele marce”; altri ancora si sono convinti che la svolta dell’Italia possa arrivare solamente una volta che questo o quel ministro si sia tolto di mezzo. Risultato: nessuno crede più alla politica in quanto tale, giudicata come insieme di rifiuti non riciclabili, come abisso senza ritorno, delusione senza rivincita.
Questo sconforto collettivo verso il mondo delle istituzioni secerne pure un senso di isolamento del cittadino, il quale, orfano di una sovranità riconosciutagli solo a parole, si rifugia nello sdegno e nella protesta. Di qui lo sbocciare violento del moralismo delle risposte facili, ossia del preteso esilio dei condannati dalle istituzioni; come se la giustizia fosse solo assenza di ingiustizia, come se la condanna di un tribunale terreno avesse lo spessore dell’eternità, come se i veri condannati, in fondo, non fossero quei cittadini che, non sapendo quale politica amare, si accontentano di quella da odiare. Anche se contagiosa, questa è dunque una prospettiva senza sbocco, irrealistica e brutale. Non a caso Turati, un secolo prima che in Italia prendesse il sopravvento l’idea di espellere i condannati dal Parlamento, già annotava che “la ferocia dei moralisti è superata soltanto dalla loro profonda stupidità”. Un concetto questo, ripreso anche da Benedetto Croce.
Dicendo questo non si intende affatto minimizzare un virus, quello della corruzione, che effettivamente infetta la politica italiana; s’intende solo mettere in guardia dalle rivoluzioni che, come ci dimostra il recente anniversario di Mani Pulite, non lasciano nemmeno il tempo che trovano, bensì lo peggiorano, perché, una volta esaurite, trascinano con sé pure l’entusiasmo, la voglia di cambiare sul serio, la speranza necessaria ad andare avanti. Come fare, allora, a migliorare le cose? Un primo, importante passo avanti sarebbe riconoscere, per dirla con Galli Della Loggia, come il malcostume vada rintracciato “nella nostra storia profonda” e non, singolarmente, nel Craxi o nel Berlusconi di turno.
Fatta questa premessa - che a qualcuno potrà sembrare banale, ma che almeno rende giustizia alla complessità italiana – si dovrebbe passare ad una riflessione sulle radici dello stare insieme civile. Duemila anni fa un certo Platone scriveva:”uno stato nasce perché ciascuno di noi non basta a sé stesso, ma ha molti bisogni. Così, per un certo bisogno, ci si vale dell’aiuto di uno,per un altro di quello di un altro: il gran numero di questi bisogni fa riunire in unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa coabitazione abbiamo dato il nome di stato” (Repubblica 369 b-c). A distanza di millenni, l’eterna giovinezza delle idee dà ragione a Platone e torto alle rivoluzioni; perché, se davvero vogliamo preparare la riforma delle istituzioni, dobbiamo prima – sorretti dalla ragione - varare quella delle coscienze e accettare l’idea di migliorarci e di metterci in gioco.
E’ troppo comodo, e anche un po’ infantile, esigere dalla politica quella limpidezza che noi per primi fatichiamo ad esprimere, preferendo la compagnia del forestiero a quella del nostro vicino di casa, colpevole di sostenere Pd o Pdl. Si badi che la corruzione nasce proprio da questo: dalla negazione del legame, dallo sfratto della ragione relazionale dai nostri orizzonti, come direbbe Pierpaolo Donati. Neghiamo i nostri bisogni e siamo segretamente disposti a tifare per il Tartaglia di turno, piuttosto che affinare i nostri argomenti in una prospettiva comune che guarda al comune, che non vuole abbattere nulla ma costruire tutto.
In questo senso, lo sforzo più grande, forse, rimane quello di riconoscere il nostro tempo più limitato rispetto al tempo del cambiamento, perché se ci sono voluti decenni a peggiorare il clima di questo Paese, non basteranno certo pochi anni, per quanto illuminati, per rimettere le cose a posto. Smettere di piangerci addosso e abbandonare la fissazione del regime immaginario, tuttavia, sarebbe già un passo avanti verso la cancellazione di quelle ideologie negative non tanto e non solo perché ci traghettano dalla realtà dei fatti a quella degli schemi, ma perché ci illudono che la soluzione sia rimuovere il farabutto di turno dal suo incarico anziché alzarci in piedi e dare l’esempio. Può sembrare troppo poco, invece sarebbe moltissimo.