Shelley, meravigliarsi della vita
Di Donald Ferri (del 14/02/2010 @ 13:33:47, in Bioetica, linkato 1315 volte)
Qualche tempo fa, preso come spesso sono dal desiderio di distaccarmi per qualche minuto dallo studio, mi sono immerso nella lettura di qualche poesia del poeta romantico inglese Percy B. Shelley. La mia attenzione non è stata catturata da una poesia bensì da un piccolo saggio scritto nel 1832 e intitolato “On Life”, “Sulla vita”. Quello che ho trovato è una delle più alte e appassionate esaltazioni della vita umana che io abbia mai letto.

La prospettiva di Shelley non è puramente filosofica ne tantomeno scientifica. È lo slancio poetico a prevalere, quella formidabile e rara facoltà posseduta dagli intelletti più raffinati. Una prospettiva intimamente spirituale-intuitiva di chi ha sempre, sebbene non convenzionalmente, ricercato e tradotto in poesia ciò che di metafisico traspare dal mondo fisico. Il punto di partenza del saggio è il seguente: “Life is an astonishing thing”. Questo è il tema che permea l’intera riflessione, la meraviglia nei confronti della vita in se stessa, meraviglia che Shelley dice subito dopo essere troppo spesso oscurata dalla “Mist of familiarity”, la nebbia dell’abitudine.

Proprio qui sta il nucleo della sua riflessione, che incarna un’incredibile paradosso: l’uomo è talmente intento a occuparsi e stupirsi dei fenomeni esistenti grazie alla vita, da non cogliere ciò che veramente è stupefacente e unico, cioè la vita in se stessa. “Life, the great miracle, we admire not beacause it is so miracolous”, la vita, il miracolo più evidente, non lo cogliamo perchè è così miracoloso. La bellezza di questa riflessione sta a mio avviso nella sua semplice profondità. Non vi sono sillogismi complessi, ne baroccheggianti calcoli, ne perniciose disquisizioni teologiche. C’è solo l’intuizione della bellezza e dell’incredibile fascino di un qualcosa di certo, ma che rimane allo stesso tempo incomprensibile.

Lo slancio poetico si rivela dunque essere uno strumento formidabile attraverso il quale sfiorare le trame più affascianti dell’esistenza, permettendo a chi ha la fortuna di possederlo di guardare alla realtà come ad una dimensione in cui fisica e metafisica sono intimamente collegate. La riflessione di Shelley, seppur espressa in un saggio, è di natura squisitamente poetica. Come disse Gabriele D’Annnunzio, “il verso può avere dimensioni di eternità”. Shelley era animato, come molti poeti romantici del suo periodo (Lord Byron e Keats), da una spiritualità più paganeggiante che cristiana e per questo è stato spesso, erroneamente e superficialmente, descritto come un poeta ateo.

Basta leggere le sue poesie e saggi per capire quanto fosse lontano dal pensiero materialista della tirannia del calcolo e quanto i suoi versi sono intrisi di metafisico. Ora io non so se Shelley, proiettato nei nostri tempi, sarebbe annoverabile nella schiera di quelli che, come chi scrive, pensano che la vita umana ha un valore tale da dover essere difesa in tutti i momenti e in tutte le sue forme. È innegabile però che la sua riflessione, il suo esortare l’essere umano a meraviglarsi di ciò che ormai ha ridotto a banalità, è una riflessione importante che dovrebbero a mio avviso fare tutti colloro che affrontano il dibattito bioetico di questi anni. La mia personale opinione è che è bisognerebbe recuperare un pò di quel semplice “Incanto” nei confronti della vita, e i primo luogo della Vita in se stessa. Forse dovremmo dare più importanza ai poeti.