L'ultimo numero di Micromega è dedicato in buona parte all'eutanasia. Si apre, nella prima pagina, con una celebre frase del filosofo ed economista liberale John Stuart Mill: "Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l'individuo è sovrano". Una dichiarazione importantissima, che ci ricorda l'alleanza strategica, sempre rinnovata, tra l' individualismo materialista ed utilitarista del pensiero liberista e il materialismo collettivista dei socialisti. Entrambi, da due secoli, alleati nella battaglia per la disgregazione della persona umana, ridotta semplicemente ad ego, ad individuo, ad "un atomo nello spazio e un attimo nel tempo", nel liberismo, e a massa indistinta, senza volto e senz'anima, nel socialismo. Io, vuole dire Staurt Mill, anticipando il celebre slogan "L'utero è mio e lo gestisco io", sono mio, mio è il mio corpo, mia la mia vita, mia la sovranità sulla mia esistenza: l'io, però, ridotto a proprietà privata, perde la sua caratteristica di persona, cioè di io in relazione con gli altri, e dimentica la sua vocazione alla solidarietà, il suo essere unico e irripetibile, ma appartenente al genere umano; "separato, come scriveva Donoso Cortes, dagli altri per ciò che lo costituisce come individuo e unito con gli altri attraverso quello che lo costituisce individuo di una specie… soggetto ad una responsabilità che gli è propria e a un'altra che gli è comune con tutti gli altri uomini". Solo dopo aver capito questo concetto, questa riduzione dell'uomo a proprietà di se stesso, all'io-mio che si fa dio, si può capire la lunga prefazione al lettore, che compare su Micromega, in favore dell'eutanasia. In essa, infatti, dati i presupposti appena esposti, si arriva coerentemente a ribaltare il principio di carità, il concetto di solidarietà, la sostanza del nostro essere in relazione, chiamando "cura" il procedimento attraverso il quale il medico elimina il paziente che, disperato, chiede di morire. Nella prima pagina l'atto eutanasico del dottor Ricco nei confronti di Welby è definito ben tre volte come "prendersi cura", mentre il suicidio "aiutato" diviene, ormai per convenzione, "assistito", allo stesso modo della fecondazione artificiale: sino alla conseguente affermazione secondo cui un medico che dovesse rifiutarsi di uccidere un malato che lo richiede, tralasciando così di prendersi "cura" di lui, di "assisterlo", dovrebbe essere considerato "sanzionabile per omissione". Ecco ribaltato, con pochi inganni lessicali ed antropologici, una cultura millenaria di pietà, di solidarietà, di compassione, di vera cura per il malato. Ecco come invece coloro che propongono l'eutanasia, presentandosi come personaggi pietosi, tolleranti, liberali e comprensibili, finiscono poi per condannare, per invocare l'intervento del magistrato, nei confronti di quei medici che preferissero veramente curare, e non si sentissero di porre fine, con le proprie mani, drasticamente, alla vita di un altro uomo!
Immaginiamo per un attimo, qualora l'umanità dovesse accogliere questi concetti, il paziente quotidiano di domani. Attorniato da "amici" come quelli di Welby, che lo consigliano fortemente di andarsene, che ritengono così di essere, appunto, amici, e da medici smaniosi di "assistere", di "prendersi cura", per mille motivi: magari per la volontà di espiantare qualche organo, come Kevorkian in America, oppure di liberare qualche letto d'ospedale; oppure per la paura di essere denunciati da Micromega, o dal suo giurista di riferimento, quell' Amedeo Santosuosso per il quale non solo l'eutanasia dovrebbe diventare obbligatoria, per i medici, in casi estremi, ma i medici dovrebbero pure "farsi carico della sofferenza psichica del paziente", anche non in stato terminale, con l'obbligo di ucciderlo. Infatti, continua il Santosuosso - dimenticando di spiegarci che così si apre la strada, come in Olanda, al suicidio dei depressi e dei tristi-, allo stesso modo in cui oggi si può abortire, o cambiare sesso, o ricorrere alla fecondazione artificiale, o subire operazioni di chirurgia plastica, per motivi psichici, ugualmente sarebbe lecito esigere dalla collettività e dal medico l'atto eutanasico di chi abbia appunto problemi psichici (non ben identificati, e potenzialmente illimitati). Se infatti l'eutanasia è "cura", la non eutanasia diventa "omissione di soccorso"!
Alla prefazione di cui si è detto, e ad alcuni altri articoli, tra cui quello citato di Santosuosso, seguono, nell'ultimo numero di Micromega, quattro interventi di altrettanti sacerdoti che, secondo la dichiarazione ex chatedra del periodico laicista, "prendono sul serio il Vangelo", a differenza di tutti coloro che invece la pensano diversamente. Sarebbe bello capire se l'intenzione con cui Micromega ospita il parere di quattro preti è quella di un dialogo con il mondo cattolico, o se l'ospitalità è limitata a coloro che la pensano nella medesima maniera della rivista stessa.
Fatto sta che l'idea sostenuta dai quattro è che la posizione della Chiesa in materia di eutanasia, sia troppo dura, inutilmente dura. Per Don Gallo, don Farinella, don Franzoni e don Antonelli, tale posizione appare inficiata da un certo "materialismo", perché concede eccessiva importanza al corpo di Welby, al suo essere ancora vivente, pulsante, pensante. E' vero, fa parte della tradizione cattolica, della sua storia, il dare importanza al corpo, alla carne, a quell'involucro splendido in cui soffriamo e con cui compiamo ogni azione, buona o cattiva. E' da questa visione, così criticata dagli gnostici e dagli spiritualisti di ogni tempo, che sono nati gli ospedali, gli orfanatrofi, gli ordini religiosi dediti ai malati, ai lebbrosi, ai poveri: sono nati san Camillo de Lellis, san Vincenzo de Paoli, San Giuseppe Cottolengo…le sette opere di misericordia corporale accanto alle sette di misericordia spirituale. Don Gallo dice anche di diffidare "dalle precisazioni, dai distinguo senza cuore". Se fossimo solo sentimento, se il sentimento fosse un cannocchiale abbastanza preciso per vedere tutta la realtà, a 360 gradi, don Gallo avrebbe ragione. Il fatto è che siamo uomini, e non ci è possibile: accanto al sentimento abbiamo la ragione, accanto alla compassione per Welby, abbiamo la capacità di capire che aprire mediaticamente e poi giuridicamente la porta all'eutanasia ci porterà a breve, come in Olanda o Svizzera o nell'Oregon, a dover accettare anche l'eutanasia per i depressi, per i bambini, decisa magari solo dai medici, contro il volere dei genitori, per chi ha sofferenze psicologiche, e poi, un giorno, come si è detto, per chi occupa troppo a lungo letti d'ospedale. Se questo non fosse successo, e non succedesse ogni giorno, in molte parti del mondo, forse la ragione non servirebbe, e basterebbe il sentimento. La realtà è che "il medico pietoso fa la piaga cancerosa": così una Chiesa che dimentica la verità dell'uomo, e la sacrifica in nome di una presunta misericordia apparente, non fa il bene dell'uomo, ma riapre il vaso di Pandora. Don Giovanni Franzoni, nell'articolo successivo a quello di don Gallo, esprime anch'egli il suo disappunto: purtroppo tira in ballo concetti strani, di "quantità della vita" e di "qualità della vita". Cosa è questa "qualità della vita"? Chi la stabilisce? Come si pesa, con quale formula si calcola? Chi ha detto che ci siano vite, e cioè uomini, perché è questa equazione, evidente, che si vuole nascondere, di qualità superiore o inferiore? La verità è che quattro uomini che hanno incontrato Cristo avrebbero potuto dire ben altro.
Che la misericordia di Dio è grande, che ha sofferto con noi, che l'uomo deve essere solidale con l'uomo, come diceva anche un ateo come Leopardi nella Ginestra…che il malato non deve essere lasciato solo, ma accompagnato, non da persone che spingono per la sua morte, ma da amici che tengono in vita la sua speranza, il senso della sua vita, accompagnandolo serenamente verso "sorella morte". E poi, se proprio volevano parlare di eutanasia, avrebbero dovuto accennare anche alle terapie contro il dolore, alla differenza tra eutanasia e accanimento terapeutico…avrebbero dovuto mostrare di conoscere il tema, difficilissimo e complesso, a risolvere il quale non basta un po' di sentimento. Avrebbero parlato un po' meno di Dio, e della Fede, come la vedono loro, e un po' più con la ragione, capace di distinguo, che per ogni buon sacerdote è a fondamento di ogni vera indagine sulla realtà.
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