27 gennaio, giorno della memoria
Di Giulia Tanel (del 24/01/2010 @ 13:20:40, in Storia del Novecento, linkato 1288 volte)

Anche quest’anno si sta avvicinando il Giorno della Memoria, in ricordo della liberazione da parte dell’Armata Rossa sovietica dei campi di concentramento nazisti siti in Alta Slesia. In quest’ultimo periodo il tema del nazismo è balzato insistentemente sulle pagine dei quotidiani per diversi fatti di cronaca: dal furto dell’iscrizione del Lager di Auschwitz “Arbeit macht frei”, alla morte della celebre nonnina ultracentenaria Miep Gies, che tenne nascosta la famiglia di Anna Frank e curò poi l’edizione del celebre diario diventato un best seller mondiale, agli avvenimenti di Rosarno che in molti hanno associato alle discriminazioni razziali tipiche dell’epoca nazifascista… Ma cerchiamo di dare un quadro della situazione così come si presentava nel 1944. I campi di concentramento nazisti in Polonia, meglio noti come Lager, erano tre: lo Stammlager (“lager principale”) era quello di Auschwitz, attivo a partire dal 14 giugno 1940 e che fungeva da centro operativo per l’intero complesso; Auschwitz II, meglio noto come Birkenau, era il campo più capiente, distava circa tre chilometri dal campo principale e fu attivo a partire dall’8 ottobre 1941; Auschwitz III o Monowitz era un “Arbeitslager” e fu costruito il 31 ottobre 1942 nei pressi del complesso industriale tedesco Buna Werke, a circa 7 chilometri da Auschwitz I.

Lo scopo di tale campo, voluto dall’azienda I. G. Farben, era la fabbricazione di gomma sintetica, ma l’entrata in produzione venne progressivamente rimandata e, in conclusione, non ebbe mai inizio. Nei Lager erano internati diversi tipi di prigionieri, provenienti dalle zone più disparate. Ognuno aveva un numero di identificazione (per esempio, tutti a Monowitz sapevano subito identificare gli italiani perché avevano come numero comune 174, seguito da altre tre cifre distintive per ogni persona) e, nelle logiche hobbesiane del Campo, era ben noto che chi aveva un numero più alto era un soggetto che, con ogni probabilità, si poteva ingannare più facilmente perché internato da poco e quindi ancora inetto alla vita del Lager. In più, ogni prigioniero aveva un triangolo di identificazione: rosso per i prigionieri politici, verde per i criminali, rosa per gli omosessuali, la stella di David formata da un triangolo giallo sovrapposto da un altro rovesciato e di differente colore per gli ebrei, e altri simboli che servivano alle SS per tenere sotto stretta vigilanza tutti i reclusi.

Per il resto, i prigionieri venivano inseriti in un processo progressivo volto all’annichilimento dell’individualità: fin dall’ingresso nel Lager tutti erano rasati e vestiti in modo uguale e, testimonia Primo Levi, “quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro” (Se questo è un uomo, ed. Einaudi 1958, pag. 32). Questo svilimento della personalità, oltre ad essere utile per motivi di ordine generale perché rendeva le persone apatiche e vinte e quindi meno propense ad atti di ribellione, era fondamentale nell’ottica di sterminio nazista perché, in un certo qual modo, consentiva agli aguzzini di sentirsi meno in colpa uccidendo una persona ormai sempre più equiparabile ad una bestia. Di fondamentale importanza è anche evidenziare come le SS molto spesso si servivano di sottoposti per compiere gli atti più nefandi e gestire i crematori: ecco allora che abbiamo l’istituzione, nella rigida gerarchia del Lager, di una nuova “classe intermedia”, quella dei “Kapo”.

Essa era composta da prigionieri che, pur di vedersi riconosciuti alcuni privilegi e delle condizioni di vita leggermente migliori di quelle della massa anonima, erano disposti a collaborare con le gerarchie naziste e si facevano a loro volta vessatori dei propri pari. Primo Levi, nel suo ultimo libro “I sommersi e i salvati”, uscito per Einaudi nel 1986 e contenente varie riflessioni sui Campi di concentramento, dedica un intero capitolo all’analisi di questo che lui definisce “il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo” (I sommersi e i salvati, ed. Einaudi 1986, pag. 39): non era possibile, spiega l’Autore, suddividere i gruppi umani presenti nel Lager in due blocchi limpidi e monolitici, perché nella fitta trama di rapporti interpersonali vi era una sorta di “zona grigia”, costituita appunto da tutti coloro che erano nello stesso tempo sia vittime che persecutori. Questa pare, a noi che possiamo giudicare a distanza di anni questi fatti, anche la condizione di molti gerarchi nazisti i quali, o perché non volevano o perché realmente non erano in grado di cogliere in toto l’enorme macchina totalitaria hitleriana, si ritrovarono molto spesso ad obbedire ad ordini di cui non sapevano né la provenienza né la conseguenza. E’ questa “la banalità del male” definita dalla filosofa Hannah Arendt ed emersa nel processo Eichmann: sostanzialmente solo "la responsabilità di aver eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra".

Ancora un appunto in conclusione. Sempre Primo Levi, nella sua testimonianza di sopravvissuto, spiega come le fantasie dei prigionieri fossero sostanzialmente suddivisibili in due categorie: i “sogni di Tantalo”, nei quali gli internati vagheggiavano di avere davanti a sé una tavola imbandita ma dalla quale non potevano prendere alcun cibo, e gli incubi di non essere creduti una volta tornati a casa, di raccontare la propria esperienza e vedere i propri cari voltare le spalle e allontanarsi. Oggi possiamo dire che almeno questo non è avvenuto, che le tante persone che sono rimaste “sommerse” dalla barbarie nazista non sono dimenticate e che “l’ardua sentenza” che spetta ai posteri non può far altro che condannare ciò che un’ideologia dimentica di Dio ha prodotto.