Riflettevo con alcuni amici, qualche sera fa, sul rapporto tra città e identità. Un rapporto che esprime e condensa molte delle problematiche odierne, dall’immigrazione alla crisi finanziaria, e che, a ben vedere, focalizza appieno la paradossale condizione dell’uomo contemporaneo: cosmopolita e solo. E’ un discorso - si badi - che non tocca il solo mondo occidentale. Infatti, dal 2007, più di metà della popolazione mondiale risulta residente in centri urbani. Un fenomeno di portata epocale dunque, al punto che qualcuno, per celebrarlo, ha coniato l’espressione di“homo urbanus”.
Ora, se è indubbio che le dimensioni odierne del fenomeno urbano rappresentino un unicum, non si può tuttavia riconoscere una novità nell’”homo urbanus”, inteso come prototipo di ciò che siamo oggi. Già ai primi del Novecento, infatti, il berlinese Georg Simmel (1858-1918), ebreo poi convertitosi al cristianesimo, ha affrontato con estremi anticipo e lucidità la questione urbana come cifra di quella modernità che, giustamente, individuava come crisi permanente, in quanto fondata sul mutamento incessante e quindi sull’assenza di legami profondi e duraturi che, un secolo dopo, Bauman avrebbe chiamato, con espressione particolarmente fortunata, “liquida”.
Senza aver visto le Guerre mondiali, il boom economico e la globalizzazione, Simmel seppe tuttavia intuire e descrivere l’uomo contemporaneo, da lui chiamato “individuo blasè” e descritto come atrofizzato nell’anima, annoiato, senza progetti e incapace di darsi un senso. Fotografia, purtroppo per noi, estremamente nitida e profetica dell’”homo urbanus”. Calvino diceva che ciascuno si gode una città nella misura in cui questa si dimostra capace di rispondere ad una nostra domanda. Il punto è proprio questo: non ci facciamo più domande perché, con internet, biblioteche e lingue straniere parlate con disinvoltura crediamo di avere risposte a tutto. E sarebbe effettivamente così, se non ci fossero altre domande, e cioè le uniche domande che contano: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andremo?
La metropoli, coi suoi grattacieli e col suo decentramento evidenziato dalla scomparsa di piazze e chiese, rimpiazzate da parcheggi e palazzi, esprime proprio questo: l’assenza di risposte ed il tentativo, eternamente fallace, di supplire al vuoto di chi rinuncia, pigramente, alla ricerca di Senso. E l’estinzione della dimensione misterica, la sostituzione della speranza col ben più trendy ottimismo, la censura della morte e l’esaltazione dell’attimo fuggente, sono solo alcune delle pareti spirituali, così piatte e uniformi, del nostro vivere quotidiano. Un vivere, diciamolo pure, piuttosto rassegnato, che ha trasformato il futuro, da itinerario dello spirito a mero linguaggio estetico e sfida tecnologica. Come se evoluzione e progresso fossero equipollenti, come se correre e crescere fossero la stessa cosa.
Ma nessun uomo è un isola, per dirla con John Donne. Ecco allora pullulare gli hobby, versione soft di quello che un tempo non lontano erano le passioni, e spopolare i programmi per il week end, che un tempo era la domenica, il giorno del Signore. Tentiamo, insomma, di mascherare la solitudine, convinti che il trucco, alla lunga, possa mutare la sostanza, estremamente precaria, dei nostri giorni. Al di là degli slogan, la precarietà è il diritto che rivendichiamo di più, perché è quello che ci crea meno impegni, che attenta meno alla nostra Libertà – il vero totem odierno, anche se nessuno, fateci caso, sa definirlo-, e che ci consente di vivere nel nostro caro “fast-food” esistenziale, come direbbe Marcello Veneziani. Questi ed altri fenomeni spiegano perché tutti ci diamo degli obbiettivi, ma nessuno sente di darsi una missione, parola che oggi, complice la cinematografia statunitense, crediamo esclusiva del mondo militare.
E invece no: a tutti noi spetta un compito, un ruolo, una missione appunto. La più importante delle quali ci riguarda tutti: vivere insieme e fare di tutto per rendere - con leggi eque ma chiare accompagnate da stili di vita aperti al prossimo – davvero migliore questo mondo. Ma per farlo, dobbiamo partire dal rispetto della persona umana, in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale. Persona che, per una irripetibile meraviglia concettuale e fisica, detiene un valore rigorosamente singolare che però si esprime solo al plurale: amo dunque sono.
Rivoluzionare la vita metropolitana, dunque, non richiede sommosse e nemmeno pacifiche manifestazioni di piazza. Ciò che serve è solamente uno specchio nitido quanto serve per mostrarci che, per quanto al passo coi tempi e vestiti alla moda, siamo sempre soli senza qualcuno disposto a condividere il nostro progetto. Può sembrare banale, ma sarebbe già un passo avanti. E ci porterebbe in poco tempo anche capire che quel progetto che sentiamo così nostro, in realtà, è troppo bello, troppo perfetto per essere stato pensato solo dalla nostra mente mortale. Deve avercelo suggerito Qualcuno.