Epicuro nega la realtà soprasensibile e afferma un ferreo materialismo, facendo suo l’atomismo democriteo. Ma poi dovendo spiegare realtà come l’anima razionale, o gli Dei, o le verità etiche, o l’ordine della materia, o l’infinità dell’essere, si ritrova come Democrito in un evidente imbarazzo.
A livello ontologico generale emerge la contraddizione tra da una parte il riconoscimento dell’infinità, eternità e completezza dell’essere (secondo la grande eredità della filosofia eleatica), e dall’altra la concezione o riduzione di questo essere infinito nei termini della materia così come è data alla nostra conoscenza; cioè Epicuro mentre prende atto della illimitabilità dell’essere, lo limita a ciò che la sensazione ammette come esistente: quindi l’essere illimitato diventa limitato. Questa limitazione dell’essere diventa ancora più vistosa nel momento in cui viene negata la realtà delle idee, cioè dell’essere soprasensibile; per Epicuro non ha senso pensare qualcosa che non sia corporeo, se non il vuoto che non è in grado di produrre alcunché: ciò facendo non solo esclude una possibilità che l’essere potrebbe avere, ma ancor più nega una attualità – quella delle idee - che è constatabile anche dalla nostra limitata conoscenza dell’essere. Venendo perciò a trattare dell’anima razionale, egli tenta di spiegarla con la teoria atomistica:
[…] l’anima è un corpo costituito da parti sottili, disseminato per l’intero aggregato, estremamente simile a un soffio dotato di una mescolanza di calore, in alcuni casi più affine a questo, in altri a quello. C’è, però, una certa parte dell’anima che si è andata nettamente distinguendo per via della finezza anche di queste particelle, e tanto più, per tale motivo, è in stretta relazione con il resto dell’aggregato. E tutto questo, sono le facoltà dell’anima a mostrarlo, e pure le affezioni, la facilità dei movimenti, e i processi mentali: insomma, ciò senza del quale moriamo.
1 Come nel caso di Democrito, egli si rende conto che il fenomeno della coscienza, della conoscenza, del’io, si impone come un dato qualitativamente diverso rispetto al mondo degli oggetti. Ma, anziché riflettere adeguatamente su questa differenza ontologica, egli la risolve sbrigativamente in senso materialistico tentando di giustificarla con una struttura atomica più sofisticata, ma non ontologicamente diversa da quella di tutte le altre realtà corporee. Si evidenzia così la vera questione: c’è questa diversità ontologica tra l’”io” e le altre entità individuali, oppure l’”io” è spiegabile in tutta la sua essenza e in tutte le sue attività come un qualsiasi altro oggetto meccanicamente costruibile? Epicuro esclude a priori l’ipotesi della diversità perché incompatibile con la sua visione monistica dell’essere:
Ora, non è possibile concepire di per se stesso l’incorporeo, a parte il vuoto. Ebbene, il vuoto non può né fare né subire nulla, ma si limita a offrire ai corpi la possibilità di muoversi attraverso di sé. Cosicché, quanti dicono che l’anima è incorporea, dicono delle sciocchezze. Infatti, se fosse tale, non potrebbe né agire né subire mentre è evidente che entrambe queste proprietà appartengono all’anima.
2 In questo modo tutta l’eredità socratico-platonica-aristotelica viene azzerata, come se si fosse trattato di un castello in aria. Ma è davvero così semplice e giusto negare tutte le dimensioni dell’essere e del soggetto scoperte dai tre grandi ateniesi? Lo stesso Epicuro indagando le radici e i contenuti dell’etica finisce coll’ammettere implicitamente la diversità del soggetto umano rispetto al mondo meccanico della necessità. L’ideale del saggio diventa quello della imperturbabilità o atarassia: un tentativo di affermare la superiorità dell’uomo sulla realtà irrazionale che lo circonda; ma paradossalmente in questo modo si mette in evidenza l’irriducibile diversità dell’”io” sopra considerata. Lucrezio, il poeta dell’epicureismo, sviluppa questa intuizione nel suo De rerum natura, dove la differenza ontologica tra l’”io” e il mondo è avvertita nel modo più drammatico:
Quod [si] iam rerum ignorem primordia quae sint, hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim confirmare aliisque ex rebus reddere multis, nequaquam nobis divinitus esse paratam naturam rerum: tanta stat praedita culpa. Potrei non sapere del mondo le origini, ma dai segni del cielo e da molte cose create io sono certo che il mondo non è fatto per noi: tanto esso è fonte di male.
[...] quare mors inmatura vagatur? tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis navita, nudus humi iacet infans indigus omni vitali auxilio, cum primum in luminis oras nixibus ex alvo matris natura profudit, vagituque locum lugubri complet, ut aequumst cui tantum in vita restet transire malorum.
E la morte va in giro inaspettata. E il fanciullo, come naufrago gettato alla riva dalle onde infuriate, giace nudo a terra, senza poter parlare, bisognoso d’aiuto; e quando dall’urlo materno la natura l’ha buttato là nella luce piange e fa lugubre il giorno di lamenti: presagio del male che gli rimane di vivere.
3 Lucrezio giunge ad avvertire che c’è un dato irriducibile nell’uomo, che si manifesta nell’impossibilità di far coincidere la sua felicità con il piacere fisico:
[…] quoniam medio de fonte leporum Surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat Poiché nel mezzo della fonte dei piaceri sorge qualcosa di amaro che fa soffrire anche negli stessi fiori
4 L’epicureismo, volendo dimostrare la necessità della riduzione materialsitica dell’uomo, finisce col dimostrare il contrario, mostrando l’impotenza del materialismo a spiegare l’uomo e a realizzare la sua felicità.