Frate Ave Maria
Di Claudio Dalla Costa (del 14/01/2010 @ 09:50:20, in Religione, linkato 2093 volte)

Un’originale figura di convertito è quella di Cesare Pisano, poi chiamato Frate Ave Maria, eremita della Divina Provvidenza di don Orione. Nasce a Pogli, un piccolo paesino vicino ad Alberga, il 24 febbraio 1900. All’età di dodici anni è protagonista di un episodio che lo segnerà per il resto della vita. È il 1° novembre 1912 e insieme ad un amico di giochi sta rovistando dentro un cascinale.

Ad un certo punto trovano un fucile a canna. L’amico, Bartolomeo Vignola, gli spara pensando che il fucile sia sarico. Il dramma è compiuto: Cesare rimarrà cieco per tutta la vita. Viene deciso il suo ricovero all’Istituto Davide Chiossone, istituzione che accoglie giovani privi della vista, pensando che il rimedio più adatto sia lo stare insieme ad altri ragazzi colpiti dalla sua stessa disgrazia. Per quattro anni piomberà in un abisso di tristezza e di desolazione, e il pensiero del passato lo angoscerà continuamente. Non pregava più, provava una specie di rancore contro la fede ed era insofferente a tutto. Nel 1916 arriva all’Istituto come infermiera suor Maria Teresa Chiapponi, che si mette al servizio dei ragazzi con una bontà e una delicatezza speciale, che li colpisce.

Cesare riferisce che la suora diceva: “Siete già ciechi così, e volete essere ciechi anche di anima? A vederla così, sempre occupata in Dio, intenta a fare del bene…io pensavo: o è una pazza o è una santa!”. Attraverso la testimonianza di suor Teresa, in Cesare comincia a risvegliarsi il desiderio di Dio. La morte della nonna, nel novembre del 1918, è il momento per lui di tornare a confessarsi e fare la comunione. Qualcosa sta cambiando nel suo intimo e decide di mettere ordine nella propria vita. Riprende a pregare, anche se un velo di malinconia è sempre calato sulla sua anima. Improvvisamente decide di diventare frate e la suora gli consiglia di rivolgersi a don Orione che lei aveva conosciuto l’anno precedente: “Suor Teresa mi parlò di don Orione in modo da farmi desiderare di conoscerlo, di udirlo, di parlargli, di rendergli note le mie miserie fisiche e morali, tutte, tutte, eppoi ascoltarlo ancora se mai avesse avuto una parola di consolazione, di conforto, di speranza anche per me”.

Proprio in questo periodo don Orione stava cercando di dare vita a due nuove famiglie di consacrati ciechi: gli Eremiti della Divina Provvidenza e le Sacramentine adoratrici. Si conoscono e Cesare non ha dubbi: è la congregazione che fa per lui. Suor Teresa chiede a don Orione qual è il corredo e la retta da pagare e questi risponde: “Si, una cosa è proprio necessaria e indispensabile perché il giovane sia accolto…”. “Quale? Dica, dica, padre domanda la suora”. “Che si presenti alla porta personalmente”. E Cesare pensò: “Per entrare in Istituto a Genova, quante raccomandazioni c’eran volute e documenti…Per essere ricevuti da don Orione bastava presentarsi alla porta. Io dissi allora: “Questo è il sacerdote che fa per me”. Dopo il noviziato, il giovane Cesare salirà all’eremo di Sant’Alberto di Butrio, sull’Appennino dell’Oltrepò pavese, nel 1923, dove rimarrà per circa quarant’anni, salvo due parentesi di circa cinque anni al Monte Soratte e a S. Corrado di Noto.

Il 9 settembre del 1923 Cesare vestirà il saio da eremita e cambierà il suo nome in Frate Ave Maria. Per qualche anno spererà pure di poter diventare sacerdote, ma la cecità era allora un ostacolo insormontabile per raggiungere questa meta, e il nostro frate dovrà abbandonare il suo desiderio. La sua attività divenne quella di intercedere per gli altri: ritenendosi incapace di parlare di Dio agli uomini, preferiva parlare degli uomini a Dio. Il suo fu un apostolato instancabile date le centinaia di persone che affollavano l’eremo in cerca di un colloquio con lui per chiedere preghiere, intercessioni, consigli. Coloro che gli si presentavano, percepivano di trovarsi di fronte a una figura imbevuta di una Presenza che andava al di là della sua persona. Riconoscevano nei tratti del frate un Altro che aveva preso dimora in lui. Questo era il motivo che spingeva gente di ogni ceto sociale a spingersi fin lassù per ascoltare questo umile personaggio.

Si era oscurata la luce dei suoi occhi, ma nel suo cuore dimorava una luce ancora più radiosa: Frate Ave Maria aveva scoperto che c’è un mondo interiore ancora più importante del mondo visibile. Un altro tratto della sua attività fu la corrispondenza che egli intraprese con tante persone che ricorrevano a lui per i più svariati motivi: crisi di fede, perdita di persone care, disperazione, croci pesanti da affrontare, anime desiderose di fare del bene e che si affidavano alla sua preghiera. Per tutti Frate Ave Maria aveva parole di fede e speranza; lui per primo sapeva che anche quello che in apparenza è un male, concorre, anche se in modo misterioso, al bene dei figli di Dio (Rm. 8,28). La sua fede nella Provvidenza divina era sicura, non si trattava di un falso sentimentalismo, ma di una esperienza maturata in anni e anni di frequentazione con il Signore attraverso la preghiera, i sacramenti e le circostanze della vita.

Oltre che dalla cecità, verrà colpito dalla tisi, ma riuscirà a mantenere in ogni circostanza anche un senso dell’umorismo fuori dal comune, proprio solo dei santi. Così si esprime in una lettera: “Mia sorella cecità ha raggiunto gli anni del Signore (1912-1945). Mia sorella etisia ha già gli anni del giudizio, è già maggiorenne (1924-1945). Deo gratias! Ave Maria!…Se sorella malattia scherza ancora un pochino con me, sarà raggiunta da sorella vecchiaia che spero avrà meno voglia di scherzare”. Volle, addirittura, festeggiare il Giubileo per il 25° e il 50° anniversario con sorella cecità. Per il 50° anniversario con la cecità fece stampare un’immagine ricordo delle sue nozze d’oro con queste parole: “Deo Gratias! Frate Ave Maria, eremita dei Figli della Divina Provvidenza (Don Orione), nel 50° anno di sua cecità corporale, invita quanti gli vogliono bene ad unirsi spiritualmente a lui per cantare nell’intimo del cuore, un solenne inno di ringraziamento a Gesù benedetto che così mirabilmente – per quelli che l’amano – sempre può, sa e vuole volgere ogni cosa in bene. Convertisti in luce le mie tenebre e in gioia la mia tristezza, sicché la mia luce, l’unica mia gioia sei Tu solo, o Gesù Figlio di Dio! O Gesù Dio Mio! O Gesù Figlio di Maria! Eremo di Sant’Alberto – Pontenizza (Pavia) – Ognissanti 1962”.

 Morì il 21 gennaio 1964, dichiarato Venerabile da Giovanni Paolo II, è in corso il processo di beatificazione. (da Scommessa sull’uomo, editrice Elledici, 2006)

 

«...ebbi tentazione di santità»

Così scrisse Pier Paolo Pasolini forse ripensando al suo incontro con un frate eremita che oggi è sulla via della beatificazione. Era la primavera del 1963 e lo scrittore stava lavorando a Il Vangelo secondo Matteo

di Giovanni Cubeddu

 

 

 

Pier Paolo Pasolini

 

      Un povero frate cieco, malandato in salute. Per andare a trovarlo occorreva lasciare l’automobile qualche chilometro prima ed incamminarsi pazientemente tra i monti dell’Oltrepò pavese. Era l’unico modo di raggiungere l’eremo di Sant’Alberto di Butrio, dimora del religioso già in fama di santità, al secolo Cesare Pisano, per la Chiesa frate Ave Maria, eremita della Divina Provvidenza, famiglia religiosa fondata da don Luigi Orione. È la primavera del 1963 quando Pier Paolo Pasolini intraprende anch’egli la lunga passeggiata per l’eremo. Sta lavorando al Vangelo secondo Matteo, e non è la prima volta che cerca ispirazione in colloqui con uomini di fede o visitando luoghi di preghiera. Lo accompagna un’amica, Angela Volpini, personalità nota nel mondo cattolico italiano di quegli anni e attualmente teste nel processo di beatificazione del frate, dichiarato venerabile nel dicembre 1997. Delle testimonianze della Volpini raccolte nell’archivio dell’Opera don Orione a Roma (cfr. box a p. 75 il cui contenuto è inedito) e di una precedente ricerca pubblicata in Messaggi di don Orione (n. 100/2000) ci siamo avvalsi nella ricostruzione dell’episodio, pressoché sconosciuto.
      La Volpini raccontò a Pasolini della propria amicizia con l’eremita. Il poeta si incuriosì o, meglio, sospettò che l’incontro con quel frate dal nome così semplice (che nei maligni poteva suscitare ironia) valesse la pena del viaggio. Dunque Pasolini andò. E quando nel gennaio del 1964 frate Ave Maria muore, il poeta manda alla Volpini una copia del suo libro Poesia in forma di rosa (1961-1964), con uno scritto posto come segnalibro tra le pagine 42 e 43 di quella prima edizione. Si tratta della poesia La Realtà.
      Lo scritto era una lettera riservata e personale alla Volpini, ma la scelta delle pagine aveva probabilmente un senso: forse Pasolini desiderava che l’amica potesse rintracciare in quelle righe la trama autobiografica di quell’incontro all’eremo, potesse cioè ritrovare, tra i luoghi della memoria che Pasolini indicava esistenti «nell’Emilia del mio destino, nel Friuli dei miei numi», in realtà anche il paesaggio che l’accolse a Sant’Alberto:
      una sera, tra boschi
      cedui, chissà, tra macchie indissolubili
      di viole sulle prode, tra vigneti e lumi
      serali di villaggi, sotto vergini nubi…

      E potesse vedere il nudo tormento che accompagnava il poeta e che quell’incontro aveva ancora una volta ridestato:
      A vincere fu il terrore. Voglio dire che fu
      più grande il terrore della realtà e della solitudine,
      di quello della società. Amara gioventù,
      preda di quella immedicabile coscienza
      di non esistere, che è ancora la mia schiavitù…

 

Frate Ave Maria

 

      Quando Pasolini arrivò all’antica abbazia di Sant’Alberto si fermò ad ammirarne gli affreschi del Quattrocento. Frate Ave Maria come sempre era dietro l’altare, nella sua confidenza col Signore fatta di impercettibili rosari, litanie recitate a memoria e pie intenzioni da deporre ai piedi della Madonna. Vi fu qualche minuto di silenzio, interrotto improvvisamente dal gioviale saluto del frate al quale Pasolini rispose avvicinandosi, attraversando la chiesa per finire anche lui dietro l’altare. Il frate gli chiese di prendere una sedia per stare accanto a lui, in un colloquio che nessuno udì e che durò all’incirca due ore. Finalmente il respiro affannoso del frate annunciò che i due stavano scendendo dalla chiesa al chiostro. Pasolini tentava di aiutare la discesa del frate cieco, ma egli lo fermò bonariamente: «Queste pietre sono mie amiche. Le calpesto tante volte al giorno per andare da Gesù, non ho niente da temere da esse!». E rise della sua stessa allegra battuta. Poi proseguì dritto ritirandosi nella sua cella, luogo, assieme al cantuccio dietro l’altare, della predilezione del Signore verso di lui.
      Pasolini continuò la sua visita all’eremo, ogni tanto interrompendo la sintassi dei suoi pensieri con esclamazioni del tipo: «Che luogo! Che uomo! Che colloquio straordinario!». Solo alcuni giorni dopo si spiegò con l’amica Volpini, con maggiore dettaglio: «Frate Ave Maria aveva tutta l’attenzione per me. Parlava con tale naturalezza, pur nel suo linguaggio religioso, da risultare non solo rispettoso, ma affascinante. Non si è stupito del mio scetticismo e mi ha detto che il suo Gesù ama più i lontani che i vicini, che non si scandalizza di niente e che solo Lui conosce davvero il cuore umano. Di fronte a lui, io artista, non mi sono sentito, come succede spesso nei luoghi seri e importanti, un po’ fuori contesto… Anche il frate è un originale come me, un creativo… ha inventato la sua vita, strana per il buon senso comune, ma vera ed affascinante. Anche lui è un figlio d’arte, riesce a trasformare in bella e straordinaria una vita che, analizzata razionalmente, è la morte civile e la follia». Quindi Pasolini s’incamminò verso il bosco prospiciente l’abbazia, in solitudine, e forse annotò qualcosa dell’incontro.
      Fu allora che la Volpini, prima di congedarsi, ebbe l’opportunità di salire alla cella di frate Ave Maria per ringraziarlo. E lui invece: «L’amico che mi hai portato oggi ha bisogno di vedere tanta fede, tanto amore, tanta innocenza, per far uscire dal suo cuore il grido d’amore, oltre che di denuncia. Stagli vicino. Se quest’uomo potesse servire il Signore, chissà che cose meravigliose farebbe!».
      Anche Pasolini ritornò dal frate per accomiatarsi. L’eremita lo accolse di nuovo, lo accompagnò fino all’uscita, e quasi gli gridò con la sua voce roca: «Voglio dirle che qui c’è un altro amico, che sa solo pregare, ma che pregherà tanto perché lei faccia cose bellissime».
      Pasolini non deve averlo dimenticato. Perché la poesia, in quelle pagine 42 e 43 segnalate ad Angela Volpini, così continuava:
      Ché io arriverò alla fine senza
      aver fatto, nella mia vita
      la prova essenziale, l’esperienza
      che accomuna gli uomini, e dà loro
      un’idea così dolcemente definita
      di fraternità almeno negli atti dell’amore!
      Come a un cieco: a cui sarà sfuggita,
      nella morte, una cosa che coincide
      con la vita stessa, – luce seguita
      senza speranza, e che a tutti sorride,
      invece come la cosa più semplice del mondo –
      una cosa che non potrò mai condividere.
      Morirò senza aver conosciuto il profondo
      senso d’essere uomo, nato a una sola
      vita, cui nulla, nell’eterno corrisponde.

Quando Pasolini arrivò all’antica abbazia di Sant’Alberto si fermò ad ammirarne gli affreschi del Quattrocento. Frate Ave Maria come sempre era dietro l’altare, nella sua confidenza col Signore fatta di impercettibili rosari, litanie recitate a memoria e pie intenzioni da deporre ai piedi della Madonna. Vi fu qualche minuto di silenzio, interrotto improvvisamente dal gioviale saluto del frate al quale Pasolini rispose avvicinandosi, attraversando la chiesa per finire anche lui dietro l’altare. Il frate gli chiese di prendere una sedia per stare accanto a lui, in un colloquio che nessuno udì e che durò all’incirca due ore. Finalmente il respiro affannoso del frate annunciò che i due stavano scendendo dalla chiesa al chiostro. Pasolini tentava di aiutare la discesa del frate cieco, ma egli lo fermò bonariamente: «Queste pietre sono mie amiche. Le calpesto tante volte al giorno per andare da Gesù, non ho niente da temere da esse!». E rise della sua stessa allegra battuta. Poi proseguì dritto ritirandosi nella sua cella, luogo, assieme al cantuccio dietro l’altare, della predilezione del Signore verso di lui.     

Quando Pasolini arrivò all’antica abbazia di Sant’Alberto si fermò ad ammirarne gli affreschi del Quattrocento. Frate Ave Maria come sempre era dietro l’altare, nella sua confidenza col Signore fatta di impercettibili rosari, litanie recitate a memoria e pie intenzioni da deporre ai piedi della Madonna. Vi fu qualche minuto di silenzio, interrotto improvvisamente dal gioviale saluto del frate al quale Pasolini rispose avvicinandosi, attraversando la chiesa per finire anche lui dietro l’altare. Il frate gli chiese di prendere una sedia per stare accanto a lui, in un colloquio che nessuno udì e che durò all’incirca due ore. Finalmente il respiro affannoso del frate annunciò che i due stavano scendendo dalla chiesa al chiostro. Pasolini tentava di aiutare la discesa del frate cieco, ma egli lo fermò bonariamente: «Queste pietre sono mie amiche. Le calpesto tante volte al giorno per andare da Gesù, non ho niente da temere da esse!». E rise della sua stessa allegra battuta. Poi proseguì dritto ritirandosi nella sua cella, luogo, assieme al cantuccio dietro l’altare, della predilezione del Signore verso di lui.     

 Pasolini continuò la sua visita all’eremo, ogni tanto interrompendo la sintassi dei suoi pensieri con esclamazioni del tipo: «Che luogo! Che uomo! Che colloquio straordinario!». Solo alcuni giorni dopo si spiegò con l’amica Volpini, con maggiore dettaglio: «Frate Ave Maria aveva tutta l’attenzione per me. Parlava con tale naturalezza, pur nel suo linguaggio religioso, da risultare non solo rispettoso, ma affascinante. Non si è stupito del mio scetticismo e mi ha detto che il suo Gesù ama più i lontani che i vicini, che non si scandalizza di niente e che solo Lui conosce davvero il cuore umano. Di fronte a lui, io artista, non mi sono sentito, come succede spesso nei luoghi seri e importanti, un po’ fuori contesto… Anche il frate è un originale come me, un creativo… ha inventato la sua vita, strana per il buon senso comune, ma vera ed affascinante. Anche lui è un figlio d’arte, riesce a trasformare in bella e straordinaria una vita che, analizzata razionalmente, è la morte civile e la follia». Quindi Pasolini s’incamminò verso il bosco prospiciente l’abbazia, in solitudine, e forse annotò qualcosa dell’incontro.     

  Fu allora che la Volpini, prima di congedarsi, ebbe l’opportunità di salire alla cella di frate Ave Maria per ringraziarlo. E lui invece: «L’amico che mi hai portato oggi ha bisogno di vedere tanta fede, tanto amore, tanta innocenza, per far uscire dal suo cuore il grido d’amore, oltre che di denuncia. Stagli vicino. Se quest’uomo potesse servire il Signore, chissà che cose meravigliose farebbe!».       Anche Pasolini ritornò dal frate per accomiatarsi. L’eremita lo accolse di nuovo, lo accompagnò fino all’uscita, e quasi gli gridò con la sua voce roca: «Voglio dirle che qui c’è un altro amico, che sa solo pregare, ma che pregherà tanto perché lei faccia cose bellissime».       Pasolini non deve averlo dimenticato. Perché la poesia, in quelle pagine 42 e 43 segnalate ad Angela Volpini, così continuava:     

 

Pasolini mentre lavora al Vangelo secondo Matteo

 

      In questo grido, reso forse più acuto dall’aver intravisto un bagliore, si può forse ritrovare un’altra diversa allusione a quella giornata a Sant’Alberto di Butrio:
      E questa fu la via per cui da uomo senza
      umanità, da inconscio succube, o spia,
      o torbido cacciatore di benevolenza,
      ebbi tentazione di santità. Fu la poesia.

      «Quando scrivo poesia è per difendermi e lottare, compromettendomi, rinunciando a ogni antica mia dignità: appare, così, indifeso quel mio cuore elegiaco di cui ho vergogna», dicono i primi versi di La Realtà. E ora viene facile pensare che la misericordia del vecchio eremita nei suoi confronti abbiano a che vedere con quella tentazione di santità.
      Di quel pomeriggio nell’Oltrepò pavese restava, ancora più incarnato, visibile, un mistero: «E come mai» aveva detto frate Ave Maria appena salutato Pasolini, «un grande artista, un personaggio così famoso, è interessato a conoscere un povero cieco, che sa solo dire “Gesù, Maria, vi amo: salvate le anime”?».

 

Da 30 Giorni, febbraio 2002