Verso l’anno 670 a.C. il saggio Adadshum-usur scriveva una lettera al suo signore, il potente Assarhaddon che regnava sul popolo degli Assiri; in essa gli esprimeva un pensiero teologico complesso, ma di particolare bellezza: l’Uomo è l’ombra di Dio e gli uomini sono l’ombra dell’Uomo; è il Re che è l’Uomo, come una immagine perfetta di Dio. Al centro del suo discorso stava una figura misteriosa, un Uomo con la U maiuscola visto come una specie di essere speciale che fa da ponte fra l’umanità comune e la sfera del divino, diciamo pure un uomo di natura superiore con un piede sulla terra e l’altro nei cieli.
Adadshum-usur era un astrologo reale, che tradotto nella realtà del tempo significava un grande saggio ovvero uno scienziato di primo livello. Nel mondo antico e anche nel medioevo l’astrologia era qualcosa radicalmente diverso da ciò che è oggi. Vi entravano da protagoniste la matematica, la geometria, l’astronomia, lo studio dei minerali ma anche le cognizioni mediche e le scienze naturali. Infine vi entrava la teologia, la scienza di Dio, che era la somma e il compendio di tutte le scienze umane. Adadshum-usur era anche un sacerdote dell’antichissima religione di Ahura Mazda, originaria dell’Iran e della Persia, ma poi diffusasi in tutto il Medio Oriente fino all’Asia centrale e il Pakistan. Tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. il mazdeismo conobbe una importante riforma ad opera di un sacerdote di nome Zarathustra, dal quale fu in seguito chiamato anche zoroastrismo.
Secondo questa concezione all’origine di tutto stava il Dio Supremo o "Signore Sapiente" (appunto Ahura Mazda), una figura divina fatta di luce perfetta che ha creato tutte le cose con bontà e onniscienza infinita; ma il mondo è anche minacciato da uno spirito malvagio, Ahriman, signore delle tenebre e istigatore del peccato. Coinvolto ogni giorno in una lotta continua fra il bene ed il male, l’intero creato sarà alla fine riscattato e le anime dei peccatori, salvate dalla dannazione eterna, vivranno per sempre dentro corpi che non muoiono. L’apertura dell’era nuova sarebbe venuta all’apparire di Saoshyant, letteralmente "il Salvatore", una figura intermedia fra gli uomini e il divino che avrebbe portato alla sconfitta del male. E proprio a questo Saoshyant, mediatore speciale fra gli uomini e Dio, pensava probabilmente il saggio Adadshum-usur quando parlava al suo reale patrono di quel Re che è l’Uomo, come un’immagine perfetta di Dio.
Circa un secolo più tardi il popolo degli Ebrei si ritrovò in esilio a Babilonia (598-586 a.C.) ad opera del re Nabucodonosor, e qui visse una stagione molto difficile per via della condizione di deportati ma anche per l’avvilimento continuo provocato dalla netta differenza di costumi religiosi: gli Ebrei aborrivano l’idolatria, veneravano il loro Dio unico Yahwé e lo consideravano talmente al di sopra degli uomini che proprio in quell’epoca cominciarono a pensare che fosse irriverente addirittura pronunciarne il nome, perciò presero a chiamarlo "Signore"; gli abitanti di Babilonia avevano invece idoli ovunque, veneravano divinità dalle forme mostruose e praticavano la prostituzione sacra. Ma nonostante tutto vi furono anche importanti momenti di incontro e persino un certo dialogo interreligioso che probabilmente arricchì entrambe queste culture: di fatto gli studiosi dell’Antico Testamento hanno notato come la figura del Saoshyant, il "Salvatore" dello zoroastrismo e l’Uomo-Re di cui parlava l’astrologo Adadshum-usur, hanno tanti punti in comune con l’Uomo dell’Eden, un essere perfetto e privo di qualunque peccato descritto nel libro del profeta Ezechiele, la personalità religiosa più autorevole fra gli Ebrei deportati a Babilonia. In realtà il pensiero ebraico possedeva già una lunga tradizione in questo senso, basata sull’idea che la salvezza del popolo d’Israele sarebbe venuta per l’arrivo di un’era nuova oppure di un personaggio eccezionale: è un filone che percorre tutta la sua storia, e l’insgine storico dell’ebraismo Paolo Sacchi lo definice "teologia della Promessa".
Nel Deuteronomio stava scritto che Dio aveva promesso al suo popolo l’invio di un altro uomo straordinario com’era stato Mosè, una guida speciale: «Susciterò per loro, in mezzo ai loro fratelli, un profeta come te, porrò le mie parole sulla sua bocca, ed egli dirà tutto ciò gli ordinerò»; nel Libro dei Numeri (24, 17) il profeta Balaam figlio di Beor aveva preannunciato che l’ascesa di Israele sarebbe stata segnata da uno scettro e da una stella, e questo si interpretava in genere come la futura nascita di un grande re. Sembra insomma che durante l’esilio a Babilonia, forse grazie al dialogo interreligioso con i sacerdoti dello zoroastrismo, la spiritualità ebraica sviluppò in maniera più netta alcuni suoi concetti che in passato erano rimasti come indefiniti. Fra questi c’era l’idea di un Messia (da masiach, "consacrato"), un Unto del Signore che Israele attendeva per uscire dal tempo dell’afflizione e del peccato. Questa figura in passato era vista soprattutto come il figlio di una dinastia regale, ma dopo il rientro da Babilonia cominciò ad assumere un profilo sempre più sacro: nel Libro di Daniele, composto nel II secolo a.C., è descritta la figura misteriosa del Figlio dell’Uomo, un essere a metà fra l’umano e il divino che siede alla destra di Dio nell’Ultimo Giorno. Se è vero che alcuni aspetti della spiritualità ebraica maturarono attraverso il contatto con la religione dei sacerdoti di Ahura Mazda, non sappiamo invece in quale misura la cultura religiosa di questi ultimi fu influenzata grazie al dialogo con gli Ebrei.
Sta di fatto che una fonte greco-orientale del I secolo, più generalmente conosciuta come vangelo secondo Matteo, descrive l’arrivo nella regione della Palestina di alcuni illustri personaggi che erano "colleghi" del saggio Adadshum-usur, vissuto seicento anni prima. E curiosamente si erano messi in viaggio perché avevano osservato nei cieli l’apparizione di una stella speciale, una stella che secondo il codice di significati della loro cultura astrologica segnava la nascita di un grande re. La parola greca con cui il vangelo di Matteo chiama questi personaggi, magoi, è un termine etnico preciso usato anche dallo storico greco Erodoto vissuto nel VI secolo a.C.: indicava alcuni membri dell’aristocrazia della Persia che erano proprio sacerdoti della religione di Zoroastro, si dedicavano agli studi di astronomia e praticavano anche esorcismi. Oggi alcuni studiosi pensano che il racconto della visita dei Magi a Gesù nascesse da una interpretazione teologica, cioè volesse sottolineare come il Cristo ignorato o addirittura perseguitato dagli Ebrei (con riferimento alla strage degli innocenti ordinata da Erode), è invece onorato dalle genti straniere e pagane. Le ricerche recenti mostrano però che l’episodio riportato nel vangelo di Matteo non solo è verosimile, ma rivela anche un profilo storico piuttosto consistente.
La tradizione cristiana dei secoli successivi pensò ai Magi come a tre sovrani, interpretando in senso letterale il termine di reges che nel mondo antico poteva anche riferirsi ai capi locali della maggiore nobiltà; e in base al numero dei doni che portavano – oro, incenso e mirra –, si immaginò che fossero tre: Gaspar, Melquior e Beltasar. Secondo la tradizione l’imperatrice Elena madre di Costantino, che realizzò una vera campagna di scavi archeologi a Gerusalemme, portò a Costantinopoli le spoglie mortali dei Magi insieme ad un frammento della Vera Croce e altre reliquie che aveva trovato a Gerusalemme; poco dopo le reliquie furono donate a Eustorgio vescovo di Milano, che nell’anno 344 fece costruire una basilica nella città con il desiderio di esservi poi sepolto per riposare presso la tomba dei tre Re. A Milano i Magi restarono per molti secoli, finchè nell’anno 1162 l’imperatore Federico Barbarossa sconfisse la città in rivolta e decise di portare con sé le reliquie in Germania, come eccezionale trofeo di guerra. Così le fece trasferire in un prezioso reliquiario e le collocò nel duomo di Colonia, dove si trovano tuttora.
La storia dei Magi ha arricchito tutta la tradizione dell’arte cristiana con l’oro e i colori sgargianti dei loro abiti esotici, e ancor oggi essi rappresentano tra le figure più belle dei presepi popolari. Nell’anno 1270, scrivendo il suo <+corsivo>Milione<+tondo>, il viaggiatore veneziano Marco Polo annotava di aver visitato a sud di Teheran la tomba di tre antichi sovrani lì sepolti, di cui gli abitanti del luogo non seppero però dargli informazioni. Ancora molti secoli prima, nell’anno 614, la regione della Palestina fu occupata dai Persiani di re Cosroe II; sebbene avessero distrutto tutti i luoghi di culto cristiani, risparmiarono la basilica della natività a Betlemme. Sulla facciata della basilica c’era un mosaico bizantino che rappresentava l’Adorazione dei Magi: in base alle vesti e agli ornamenti, i Persiani avevano riconosciuto che erano grandi nobili della loro gente. Barbara Frale, Avvenire, 5 gennaio 2009