LA COSTOSA EREDITA' DI COPENHAGEN         di Riccardo Cascioli    

    L’obiettivo dichiarato del vertice di Copenhagen era arrivare a un Trattato che sostituisse il Protocollo di Kyoto, in scadenza nel 2012. Contrariamente a quanto previsto da Kyoto si voleva che il nuovo trattato impegnasse alla riduzione delle emissioni anche i paesi in via di sviluppo, a cominciare dai più grandi (Cina, India e Brasile) che sono ormai tra i più grandi emettitori. Come per Kyoto, l’impegno doveva essere vincolante, con obiettivi di riduzione delle emissioni ben definiti in modo da permettere il commercio dei crediti di carbonio (il cosiddetto sistema di “cap and trade”, che l’Unione Europea ha già adottato in ossequio al Protocollo di Kyoto).

Bene, non uno solo di questi obiettivi è stato raggiunto a Copenhagen, e questo dà l’idea delle dimensioni del fallimento del vertice, peraltro un fallimento annunciato.

Non solo, l’accordo raggiunto da USA, Cina, India, Brasile e Sudafrica – di cui gli altri paesi hanno preso atto – ha un che di surreale. Mentre si è rinunciato a indicare degli obiettivi di riduzione delle emissioni antropogeniche di CO2 (che almeno si possono misurare), si è stabilito di impegnarsi per non far aumentare le temperature di oltre 2°C rispetto all’era preindustriale. Cosa che ha dell’inverosimile perché nessuno è in grado di prevedere l’andamento delle temperature nei prossimi 10, 20, 50 o 100 anni. Potrebbero salire o potrebbero scendere, nessuno lo sa, e nessuno sarebbe comunque in grado di distinguere quanto è attribuibile all’attività umana. Né alcuno è in grado di stabilire di quanto crescano le temperature per un dato ammontare di emissioni di CO2 (vedi intervista al colonnello Malaspina). 

Del resto nessuno aveva previsto che dal 1998 le temperature globali non sarebbero salite (tanto che il famoso Climagate ha a che fare anche con il tentativo di coprire questo dato “inspiegabile” dalla teoria del global warming). Peraltro se parliamo di cambiamenti climatici è anche assurdo limitarsi alle temperature che sono soltanto un fattore del clima. Ma questa è l’ennesima riprova che la “politica del clima” ha ben poco a che vedere con la “scienza del clima”.

Quanto ai motivi del mancato accordo, il problema è essenzialmente economico. Mentre l’Unione Europea ha scommesso sulla “Diplomazia Verde” (cfr. R. Cascioli-A. Gaspari , Le Bugie degli Ambientalisti 2, Piemme 2006) come fattore di leadership mondiale e l’amministrazione Obama ha cercato di recuperare il tempo perduto, ai singoli paesi appare chiaro che il costo per ridurre in modo significativo le emissioni è tale da distruggere le economie dei paesi ricchi, e impedire lo sviluppo degli altri.

Se la crisi economica da cui tanto faticosamente si sta uscendo e che tanto ha preoccupato il mondo, ha fatto sì che le emissioni antropogeniche di CO2 diminuissero di appena il 3% si può facilmente intuire – all’attuale livello di sviluppo tecnologico - di che crisi ci sarebbe bisogno per diminuire in pochi anni le emissioni del 20 o del 50%. I profeti ecologisti e i fanatici politici cambioclimatisti – Ermete Realacci, tanto per citarne uno - dovrebbero spiegare agli attuali disoccupati e a quelli che perderanno il lavoro nei prossimi mesi che in questo modo stanno salvando il pianeta.

In realtà l’unico modo per ridurre le emissioni è uno sviluppo che permetta la ricerca, la sperimentazione e l’adozione di nuove tecnologie: ma si tratta di un cammino che non può fissare date o obiettivi precisi. E soprattutto c’è bisogno di crescita economica (senza produzione di ricchezza non si può investire in ricerca e nuove tecnologie), ovvero la strada inversa a quella intrapresa.

Al di là dei proclami “verdi” molti leader occidentali si sono accorti di questa contraddizione: nessuno è così masochista da avallare politiche che distruggano l’economia del proprio paese (e il proprio consenso elettorale), ed è per questo che alla fine non si riesce a stabilire un obiettivo vincolante.

Allo stesso modo si comportano i paesi in via di sviluppo che, dietro alla retorica dei cambiamenti climatici, vedono – a ragione - il tentativo di frenare la loro ascesa economica, che significa anche maggiore potere politico e militare. Così da una parte i governi cercano di farsi pagare usando la stessa retorica dei cambiamenti climatici – “noi siamo le vittime delle vostre emissioni” -, dall’altra non accettano comunque di prendere impegni vincolanti. Peraltro, la strategia del rinvio alla conferenza successiva (adesso l’appuntamento è per Città del Messico 2010) garantisce di continuare a incassare soldi (secondo lo schema di Kyoto) mentre il negoziato per un nuovo trattato rimane perennemente in fase di stallo. I paesi ricchi, dal canto loro, alzano l’offerta in denaro e servizi (siamo adesso arrivati alla promessa di 100 miliardi di dollari) non per favorire lo sviluppo dei paesi poveri ma per convincerli a digerire un accordo che impedirà il loro sviluppo.

Si tratta di un mercato indegno creato sulle spalle di interi popoli, e che per il bene comune andrebbe azzerato immediatamente per lasciare invece il posto a progetti e strategie che favoriscano il reale sviluppo dei paesi poveri. Invece, il rinvio di un accordo sul clima a Città del Messico 2010 – con le solite stazioni intermedie - ci garantisce un altro anno di allarmi, rapporti inverosimili, mercanteggiamenti, proclami, un circo che costerà miliardi di euro e distoglierà dall’affronto dei veri problemi ambientali, che si possono riassumere in una sola parola: sottosviluppo. da : www.svipop.org

Al Guru e i suoi fratelli e la costosa eredità di Copenhagen
Di Libertà e Persona (del 23/12/2009 @ 12:29:09, in Cultura e società, linkato 1258 volte)

Così le comode paure di Al Gore sono diventate le sue scomode verità

Il prima e il dopo, nella storia del messianismo verde globale, è un film del 2004 di Roland Emmerich, The Day After Tomorrow, storia di un’improbabile glaciazione con Dennis Quaid. E’ guardando quella pellicola che all’ambientalista Laurie David viene in mente di fare dell’ecologismo materia di spettacolo. Ne parla con il regista Davis Guggenheim e ha già in mente una star: Al Gore, ex vice di Bill Clinton, la speranza democratica bruciata dalle poche centinaia di voti in più conquistati in Florida da George W. Bush. In quei mesi, Gore gira l’America da un auditorium all’altro e parla di clima. Ma non se ne accorge nessuno.

Eppure il messaggio è semplice: fa sempre più caldo, talmente caldo che i ghiacci si sciolgono, le acque salgono e presto inonderanno atolli lontani e città vicine. Pare l’apocalisse, ma – dice lui – è scienza: è l’uomo, con le sue attività industriali, l’artefice del Grande Caldo. Per farne un film, pensano David e Guggenheim, c’è tutto. Ci sono anche i soldi: a procurarli ci pensa lo stesso ex vicepresidente. “Una scomoda verità”, presentato nel 2006 come documentario (ma della tournée di Gore), diventa il manifesto di una nuova fede verde. Il sacro crisma arriva nel giro di pochi mesi: due Oscar nel marzo 2007 e il Nobel per la pace, in autunno, allo stesso Gore e all’Ipcc, l’assemblea politica dell’Onu sul clima. Il nuovo ecomessia è pronto e ha un pedigree di prim’ordine.

Nella sua biografia ci sono anche gli otto anni con Clinton, una famiglia di tradizione senatoriale (con il padre, Albert senior, e – dice la leggenda, peraltro non confermata – con un Thomas Gore, nonno materno di Gore Vidal), le primarie finite male dell’88 e quelle mai cominciate, per stare vicino al figlio convalescente, del ’92. Da quando è un guru, Gore non risparmia strali ai miscredenti: gli ecoscettici, chi non crede alle teorie catastrofiste da lui propalate, li chiama “negazionisti”, come quelli che negano l’Olocausto. E aggiunge: “Chi non crede allo sbarco sulla Luna non ha dietro i soldi degli inquinatori”, gli ecoscettici sì. Insomma, prezzolati e nazisti. Eppure, mentre a Copenaghen va in scena il summit che sulla carta avrebbe dovuto far impallidire quello di Kyoto del ’97, a doversi difendere da accuse e sospetti è proprio l’ex numero due della Casa Bianca. Adesso il guru dice che “i negazionisti del cambiamento climatico stanno facendo credere che queste mail abbiano un significato maggiore di quello che hanno”.

Però le e-mail ci sono, sono quelle che hanno dato il via al Climategate, lo scandalo dei dati climatici truccati per procurare l’allarme mondiale. E-mail che Gore aveva letto, grazie alla corrispondenza con il capo dell’Ipcc, Rajendra Pachauri. Sono centinaia, ne ha pubblicato stralci il New York Times: in una il professor Michael Mann della Pennsylvania State University dice di aver usato “un trucco per nascondere il declino” delle temperature dal 1981 a oggi. In un’altra Kevin Trenberth, del National Center for Atmospheric Research di Boulder, in Colorado, ammette: “Non possiamo spiegarci la mancanza di riscaldamento” terrestre.

Sono alcuni tra gli scienziati citati da Gore in film, libri, conferenze zeppi di paura, catastrofi imminenti, clima che cambia e caldo che uccide e che ora si scopre – ma l’aveva già detto, non ascoltata, l’Alta Corte di Londra due anni fa – sono basati su dati distorti, falsificati. Sono veri, invece, i premi, il messianismo e soprattutto i soldi incassati in questi anni. Se nel 2000 la famiglia Gore aveva un patrimonio di due milioni di dollari, adesso la stessa cifra andrebbe moltiplicata (almeno) per cinquanta. Ci sono gli incassi di “Una scomoda verità”, le conferenze (175 mila dollari ogni volta e poi, per una strana “sindrome”, dove ce n’è una fa sempre freddo o cade la neve) e gli investimenti nei business verdi – lautamente foraggiati dall’Amministrazione Obama grazie all’azione della lobby goriana Alliance for Climate Protection – attraverso il fondo Kleiner Perkins Caufield & Byers.

Adesso che non sa più cosa dire, l’ex vicepresidente annulla una conferenza stampa a pagamento (tremila biglietti, in prima fila da 1.209 dollari) in quel di Copenaghen. Dall’Academy Awards, ora, qualcuno già chiede che il leader ambientalista riconsegni l’Oscar. E qualcun altro, a Washington, potrebbe far lo stesso per i sussidi elargiti grazie alle comode paure spacciate al mondo da un guru d’essai. Da: Il Foglio 15 dicembre 2009