Osservava qualche giorno fa sul Corriere della Sera Nicola Rossi, stimato economista e deputato di Diesse che, deluso dalla politica non riformista di Prodi e Fassino, ha da poco riconsegnato la tessera del suo partito: «cosa pensereste di un leader politico che a novembre annuncia urbi et orbi che per marzo il paese avrà messo un punto fermo sui temi della riforma previdenziale e poi a gennaio conclude che la cosa non è poi così urgente? Non pensereste quello che pensano molti italiani? E, gentilmente, non si tiri fuori l'argomento francamente un po' deboluccio relativo alle difficoltà entro le quali quotidianamente si muove la politica. Alla fatica - che c'è, lo sappiamo - della costruzione politica. Alla incertezza degli esiti: sappiamo anche questo, si può vincere e si può perdere. Il punto è un altro: da una classe politica si chiede - avrei voluto scrivere, si pretende - che spenda il proprio tempo a pensare come evitare o superare quelle difficoltà. La politica - mi si perdoni la franchezza - non è pagata per raccontare ai cittadini gli ostacoli che incontra giorno dopo giorno ma per superarli. Se ne è capace. E se non ne è, per lasciare ad altri la possibilità di provarci». Trovo del tutto condivisibile l’analisi di Nicola Rossi quando sostiene che «la cifra di questa sinistra è questo governo», smentendo la tesi di Romano Prodi, secondo cui «è falsa la divisione tra riformisti e conservatori». L’economista marca la distanza dal premier che ritiene «non urgente» la riforma delle pensioni: «In fondo — commenta Rossi — lui dice ciò che molti nell'Ulivo pensano». E allora è meglio smetterla con gli «alibi», e ammettere un fallimento che è anche personale, «perché — ha confidato Rossi — avevo la speranza di vedere un giorno la sinistra italiana contaminata da idee liberali, come è avvenuto in Inghilterra e in Spagna». Credo come Rossi che questo sia il problema politico non solo della Sinistra ma di tutto il centrosinistra al governo del Paese e della nostra Provincia. Centrosinistra che si è oggi rivelato la massima espressione non del riformismo ma del conservatorismo di chi per dirla con Tomasi di Lampedusa, annuncia di continuo cambiamenti (liberalizzazioni, riforma previdenziale, ecc.) perché si è disposti a cambiare tutto purchè nulla cambi. Di chi per non irritare i partner di governo più decisi e influenti perché con le idee più chiare – la sinistra radicale, i Verdi e Rifondazione – e per sottrarsi preventivamente alle critiche dei sindacati e dei poteri forti pronti ad alzare la voce di fronte a qualunque tentativo di rendere il sistema competitivo, ne accontenta le pretese rinunciando ad ogni prospettiva di sviluppo. Il che, beninteso, non equivale a stare fermi ma ad arretrare sempre più allontanandosi dagli obiettivi considerati oggettivamente irrinunciabili per la crescita della società e dell’economia, allontanando sempre più, in definitiva, la politica e le istituzioni dalla realtà che esige decisioni. A questa logica non sfuggono le “mezze riforme” messe in campo dalla Giunta provinciale del Trentino in questa prima metà della tredicesima legislatura. Mezze riforme perché anche quando le premesse sono teoricamente innovative l’esecutivo non è politicamente in grado di svolgerne fino in fondo la logica. Abbiamo così una riforma istituzionale che non riconosce piena responsabilità decisionale e finanziaria ai territori per paura che la Provincia perda il controllo sugli enti locali; una riforma della scuola che non attribuisce vera autonomia agli istituti per evitare che prenda piede una sana concorrenza fra loro e un’offerta plurale qualificata pubblica privata cui possano liberamente rivolgersi studenti e famiglie; una annunciata riforma della cultura che non riesce ad arrivare nemmeno ai blocchi di partenza per la pretesa di mantenere saldamente nelle mani della politica e della burocrazia i progetti e le iniziative più importanti in questo settore. Potrei citare altri esempi di leggi proposte o approvate (sulla ricerca, l’Itea, i nuovi tributi per il turismo e per le situazioni di non autosufficienza, ecc.). Quello che vorrei evidenziare è l’incapacità strutturale del centrosinistra al governo in Italia e nella nostra provincia di anteporre lo sforzo per risolvere i problemi e rispondere alle attese della gente alle pregiudiziali ideologiche da cui è ancora pesantemente condizionato al proprio interno. Ecco perché ha ragione Nicola Rossi quando, andandosene, afferma che se un governo non è capace di questo “lasci ad altri la possibilità di provarci”. E l’unica alternativa al conservatorismo del centrosinistra è oggi il riformismo programmatico del centrodestra e in particolare di Forza Italia, che a differenza dei propri avversari non è vanificato da profonde divisioni interne e crede profondamente e unitariamente nella necessità di restituire il primato, il protagonismo, la fiducia ai soggetti sociali, economici e territoriali liberandone la capacità ideale e di iniziativa a favore della crescita del sistema. Un riformismo – questo – incompatibile con gli ideali “rivoluzionari” e utopistici della sinistra, perché parte dal riconoscimento e dalla valorizzazione di quel che di positivo già esiste e costituisce una potenziale ricchezza per tutti. Un positivo da riconoscere nelle famiglie, nelle risorse umane delle persone, nelle piccole e medie imprese, nelle opere del no profit con cui il popolo, attraverso le proprie organizzazioni sociali ed economiche, mette in gioco se stesso per affrontare le sfide del presente e anche quelle del suo futuro. Nell’incontro tra tradizione politica cattolica e quella liberale questa attitudine riformista di chiama sussidiarietà. Sussidiarietà orizzontale e verticale. Attorno a questo che più che un principio astratto considero un criterio operativo da applicare flessibilmente ai problemi vecchi e nuovi della società e delle istituzioni, vedo la possibilità e l’opportunità per tutto il Trentino di costruire e offrire un’alternativa credibile all’inguaribile statalismo del centrosinistra.
cons. Walter Viola
Corriere del Trentino, domenica 21 gennaio 2007