Cesare Battisti la guerra da vincere
Di Francesco Agnoli (del 01/01/2010 @ 20:33:02, in Politica, linkato 1288 volte)

Ho davanti due foto di Cesare Battisti comparse sui giornali. In una ride, nell’altra piange. Quasi tutti gli uomini, quando ridono, diventano almeno un po’ simpatici. Quasi tutti gli uomini, anche i più cattivi, quando piangono, generano compassione. Ma questa volta non è così. Perché Battisti, a suo tempo “denunciato per atti di libidine su una persona che la burocrazia dei verbali definisce incapace”, rapinatore e assassino plurimo, responsabile della morte di quattro innocenti in nome della rivoluzione comunista, ride quando crede di avercela ormai fatta ad ottenere l’impunità, e piange quando viene a sapere che la Corte costituzionale brasiliana ha considerato illegittimo il suo status di rifugiato politico.

Ecco, guardare il volto di un uomo simile, pensare che dopo tanti anni continua a ricorrere ad ogni trucco meschino -dai tentativi di presentarsi come un perseguitato politico agli scioperi della fame-, crea in me un moto violento di ribellione. Accresciuto dalle sue risa sciocche, dal suo pianto vigliacco e miserabile. Questi uomini invasati di ideologia, che hanno avuto il coraggio di sbandierare con baldanza le loro ideologie di morte, di ammazzare il loro prossimo, ripetutamente, con odio brutale, non sono oggi capaci di un gesto di eroismo, di un atto di vero coraggio, perché, in verità, non lo sono mai stati.

E’ davvero triste vedere uomini simili, ma è comprensibile che ne esistano: sono i figli legittimi del comunismo ateo, cresciuti negando con pervicacia l’esistenza di Dio, e di conseguenza di una morale, di una legge superiore al loro capriccio, ai loro schemi ideologici, ai loro rancori bestiali, travestiti, in modo grottesco, da aneliti alla giustizia e alla verità. I peggiori, come Battisti, non hanno imparato nulla dalla vita, neanche vent’anni dopo. Non hanno lasciato neppure un po’ di spazio al rimorso, al ripensamento, al pentimento. “Il pentimento? Io non sono cattolico, quindi non mi appartiene”, aveva dichiarato Battisti al Corriere del 31 marzo del 2004.

Qualche anno prima, un altro terrorista comunista degli anni di piombo, condannato per sei omicidi, Christian Klar, oggi libero, aveva dichiarato: “Sensi di colpa o pentimento non sono categorie politiche”. E’ vero: se non si crede in Dio, anche implicitamente, non è possibile neppure il pentimento. Dove non c’è Dio ci sono solo il nostro interesse, le nostre insindacabili decisioni, l’istante presente e il futuro più prossimo. Per questo Battisti lotta come un leone, per essere libero, per godersi quel po’ di vita che gli rimane. Ha escluso che dopo questa vita ve ne sia un’altra e crede, una volta gabbata la giustizia umana, di averla fatta franca per sempre. Crede che la vita consista nel vincere qualche scaramuccia, qualche battaglia, nell’ottenere qualche piccolo successo, qui ed ora. Non immagina neppure che le battaglie si possono anche vincere, che i fratelli si possono anche uccidere e che si possono continuare a scrivere libri di successo, senza che questo significhi che si è vinto alcunché.

La guerra, caro Battisti, è un’altra cosa: quella si vince solo alla fine, il giorno in cui ogni uomo sarà giudicato e sarà per lui finito il tempo della misericordia e del perdono, e incomincerà quello della giustizia. Per questo io le auguro fraternamente il carcere, il più duro possibile, il prima possibile: perché conosca il dolore, perché le sue lacrime scorrano finalmente sincere e degne di compassione, perché una sconfitta terrena le apra la possibilità di riconoscere il suo peccato e di vincere così la battaglia finale. Perché non c’è peccato che Dio non voglia perdonare, e perché “ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. Mi piacerebbe vedere una foto, un giorno, di Battisti che piange sui suoi peccati, e una in cui il suo riso non è più un riso beffardo, ma quello puro di un uomo nuovo che ha trovato il suo Dio. Un uomo che possa dire, nonostante tutto: “felix culpa”. (Il Foglio, 26/11/2009)