Cicely Saunders e la nascita delle cure palliative
Di Francesco Agnoli (del 24/10/2009 @ 21:27:30, in Storia del Cristianesimo, linkato 4344 volte)

Tra i meriti, sottovalutati, di questo governo, vi è quello di aver approvato la legge sulle cure palliative. In dirittura d’arrivo c’è, forse, tra tante polemiche, anche la legge sul testamento biologico. Le due questioni, a dire la verità, si collegano bene, benché ciò non sia sufficientemente sottolineato.
La nostra tradizione è quella che ha dato origine all’istituzione dell’ospedale. E’ quella che ha insegnato all’umanità uno sguardo nuovo sulla sofferenza, sulla carne che patisce, come quella di Cristo nell’orto degli ulivi, durante la flagellazione e sulla croce. All’origine dei primi ospedali troviamo persone intente a lenire il dolore dei sofferenti: Elena, madre di Costantino, fondatrice di uno xenodochio a Costantinopoli; l’imperatrice Pulcheria, che si adoperò per costruire ospedali e ospizi per i pellegrini; Fabiola, penitente della stirpe dei Fabi, a cui san Girolamo attribuisce la fondazione del primo nosocomio in Roma verso al fine del IV secolo…Insomma tante donne caritatevoli, come la Veronica e le donne dei Vangeli.

All’origine delle cure palliative moderne troviamo un’altra donna, a noi contemporanea: Cicely Saunders. A Lei è dedicato un aureo libretto che in questi tempi potrebbe essere prezioso: “Vegliate con me” (EDB), con la prefazione di tre medici esperti in cure palliative. La Saunders è considerata universalmente la fondatrice dell’hospice moderno, il luogo in cui si praticano, appunto, le cure palliative, cioè “cure attive e globali che hanno per obiettivo il miglioramento della qualità di vita quando aumentare o salvaguardare la sua quantità non è più possibile o attuabile, e si propongono di intervenire sulle dimensioni fisiche, psicologiche, sociali e spirituali della sofferenza”; il luogo in cui vengono accolti coloro che sono affetti da una “patologia cronica e inguaribile”, da accompagnare verso la morte, quando è la vita a chiedere un perchè. Cicely Saunders nasce a Londra nel 1918, diventa infermiera durante la seconda guerra mondiale, e poi assistente sociale ed infine medico. La sua storia è quella di una donna che incontra il dolore, il proprio, a causa della separazione dei suoi genitori, e insieme anche quello dei suoi pazienti, in particolare di due polacchi, David Tasma ed Antoni Michniewicz. Da David Cicely riceve un lascito di 500 sterline e quasi un invito a intraprendere una strada difficile, ma esaltante. Da Antoni, “ex prigioniero di guerra polacco e cattolico fervente”, la spinta ideale per affrontare una vita accanto all’umanità più derelitta ed “inutile”.
L’incontro con lui avviene presso il St. Joseph hospice di Hackney, un ospizio gestito da suore della Carità irlandesi che lo hanno fondato nel 1905 per malati cronici, anziani indigenti e terminali. Proprio qui “si realizzò la svolta farmacologia che avrebbe permesso di cambiare il volto dell’assistenza ai morenti: con tatto, conquistandosi la totale fiducia delle suore, Cicely Saunders introdusse l’uso della somministrazione di morfina orale ogni quattro ore per il trattamento del dolore ottenendo un’entusiastica collaborazione da parte delle religiose” e ponendo le “basi della nostra moderna terapia del dolore e delle cure palliative”. Sino alla fondazione del primo hospice vero e proprio, il St. Christopher, nel 1967. Ma Cicely sa molto bene che il dolore fisico è solo una parte nel dolore di un uomo a cui è negata la speranza di guarire fisicamente; v’è anche un altro dolore, assai più inteso, spirituale, che diventa domanda sul perché di ciò che accade. E la domanda si fa a Qualcun altro: “può diventare preghiera oppure bestemmia”.

Può dunque bastare lenire il dolore fisico, se non si accompagna il paziente integralmente, nella totalità delle sue esigenze? No, perché per Cicely il paziente terminale deve anzitutto continuare a vivere la relazione, come elemento costitutivo della sua natura: relazione coi suoi cari, con chi lo assiste, con Dio. Siamo molto lontani dalla prospettiva eutanasica, per cui alla fine il malato rimane solo col proprio dolore, di fronte all’abisso dell’ignoto e della solitudine. “Dobbiamo ricordare, scriveva, che apparteniamo a una ben più grande comunione della Chiesa globale, all’intera comunione dei Santi, e, invero, all’intera comunità degli uomini”, e dobbiamo avere la “consapevolezza della presenza di Cristo sia nei pazienti che in coloro che li vegliano”. “Vegliate con me” è appunto la richiesta di Cristo sofferente nell’orto degli ulivi; il grido di chi patisce e cerca un aiuto: “la risposta cristiana al mistero della morte e della sofferenza non è una spiegazione, scrive Cicely, ma una presenza”. In un discorso pubblico sulla fede in Cristo che ha animato la sua vita, Cicely cercherà di spiegarla ricorrendo alla Bibbia ed al “Signore degli anelli”, del suo compatriota J. R. R.Tolkien. Ha sempre in testa, chiaramente, i suoi malati, alcuni dei quali, nel tempo del loro lento e inesorabile spegnersi, hanno trovato una fede granitica, la capacità di sperare, ed anche quella di arrendersi. La vita, afferma dunque Cicely, è come il viaggio di Abramo e di Mosè, che “non sapendo come e dove stavano andando divennero padri di tutti noi”. E’ come il cammino di Frodo, che obbedisce ad “una chiamata che comprende poco”, accompagnato dall’amore fedele dell’amico Sam, e che spera sino alla fine, contro ogni speranza, almeno di ‘restare in piedi dopo aver superato tutte le prove’ (Ef. 6, 13): scoprirà “che la via divina di liberazione giunge inaspettatamente e alla fine tutti risultano avere un compito”.Il Foglio, 15 ottobre