Recentemente un amico, Claudio Dalla Costa, mi ha regalato il suo “Maurice Zundel, un mistico contemporaneo” (Effatà), incentrato sulla figura di un sacerdote nato in Svizzera nel 1897 e divenuto col tempo un teologo molto stimato, soprattutto da Paolo VI, che lo inviterà a Roma a predicare gli esercizi nel 1972.
Nel suo libro Claudio spiega che pur essendo quasi sconosciuto in Italia, altrove i suoi scritti riscuotono un crescente successo. Il suo magistero, se ho ben compreso, permette di includerlo tra coloro che auspicano un rinnovamento nella Chiesa. Zundel è un pensatore inquieto, di quelli che sentono urgentemente la grandezza del messaggio cristiano, e nel contempo l’inadeguatezza degli uomini che hanno incontrato Cristo e che ne dovrebbero essere testimoni. Una condizione dello spirito, questa, che può portare grandi frutti, o che può spingere anche a posizioni di superbia, e all’ eresia. In un modo o nell’altro Zundel finisce in qualche occasione sotto lo sguardo perplesso dei suoi superiori, che intravedono in lui un frettoloso innovatore. In verità, almeno rispetto ad alcune sue posizioni, c’è senza dubbio l’incapacità di una certa parte del clero di comprendere i tempi nuovi. La crisi della Chiesa, posteriore al concilio, non può non avere qualche avvisaglia, qualche sintomo, precedentemente.
E in effetti Zundel è uno di quelli che ha capito che su certi temi, ad esempio la sessualità, occorrerebbe essere più espliciti, più diretti. Zundel vorrebbe che si parlasse alle giovani coppie della morale sessuale, senza limitarsi ad enunciarne i principi, ma rendendoli razionalmente comprensibili. In una conferenza del 1961, a Beirut, non molti anni prima della rivoluzione sessuale, Zundel afferma che “uno spermatozoo e un ovulo costituiscono un bimbo possibile”. Il suo linguaggio così schietto, provoca la reazione del nunzio apostolico, che gradirebbe un linguaggio più velato.
Nel 1962, anticipando un altro tema che a breve si farà caldo, scrive: “Nella fragilità indifesa del neonato risplendono con maggior chiarezza le esigenze fondamentali della dignità umana. Se si è insensibili, se si considera l’embrione come un grumo informe che si può far saltare come un ascesso, se si vede nell’ovulo e nello sperma solo una chimica delirante destinata ad una strana voluttà, si riduce a zero la propria esistenza e il problema della personalità viene radicalmente soppresso. La nostra origine non ha più importanza né mistero di quella di uno sciacallo o di una cimice”.
Altrove Zundel, prevedendo un’altra polemica di questi tempi, combatte il riduzionismo, che annichilisce l’uomo, e la contemporanea retorica dei diritti umani, che tende invece a divinizzarlo: “Si parla senza tregua dei diritti dell’uomo che non si smette di violare. Se ne parla senza sosta e con ragione: mai li si proclamerà troppo e troppo forte. Ma cosa vuol dire ‘diritti dell’uomo’? Se l’uomo non è che viscere, se l’uomo non è che istinto, che diritti può avere?”.
Mentre appare così lungimirante e controcorrente su certi temi, su altri, a mio avviso, Zundel sembra invece piuttosto incline ad un pensiero debole. Ecco allora il suo insistere sull’uomo, quasi anticipando l’umanesimo integrale di Maritain, da lui conosciuto e frequentato. Sino a proposizioni che definire ambigue è poco: "Io metto altrettanta devozione nel mangiare la minestra, che nel celebrare la messa, perchè siamo sempre alla tavola del Signore, ed è dalla sua mano che riceviamo il nutrimento, simbolo del suo amore" .
Proprio quando tocca alcune tematiche teologiche, dunque, Zundel sembra precorrere certi balzi in avanti della teologia progressista, filo-protestante, che si riveleranno poi deleteri. Epperò, in verità, la faccenda è più complessa: durante gli anni del Concilio e del post concilio, Zundel esprime sempre più spesso una profonda inquietudine dinanzi alla crisi della Chiesa. Gli sembra cioè che “all’interno della Chiesa si discute, si fa rumore, ma a detrimento della vita interiore”: “mai la Chiesa, scrive, ha avuto tanto bisogno di anime contemplative, di anime silenziose, di anime crocifisse, di anime penitenti…” e non di spocchiosi e superbi contestatori che vogliono innovare ogni cosa.
A straziare il suo cuore è anche la riforma liturgica: egli teme che “vengano a mancare il silenzio interiore e che di conseguenza il rapporto di intimità con il Signore sia a rischio”. Si stupisce e si lamenta anche del fatto che ormai la gerarchia agisca, e con durezza, soltanto contro coloro che vogliono conservare l’antica liturgia. Scrive tra l’altro: “Giovanni XXIII dichiarava ancora il latino lingua della Chiesa. La messa latina sarà abolita, immagino, e il canto gregoriano eliminato. E tutto senza consultare i laici né i preti, che contano ancora meno dei laici”; ma “la liturgia nella sua forma attuale rende sensibile il mistero infinito del Sacrificio eucaristico e della Grazia sacramentale?”.
Per Zundel nella Chiesa del post concilio si agitano troppi falsi innovatori, che scandalizzano i deboli, gli umili, che urlano e rovesciano sedie e panche, senza aver sperimentato prima un vero amore per Dio e la Chiesa. In occasione dell’Humanae vitae, Zundel difenderà l’enciclica con queste splendide parole: “ammettere che l’uomo non può liberarsi dal giogo della specie è ammettere che è invischiato in essa e che non potrà farsi uomo”; perciò “tutto il problema è sapere se l’uomo esiste, se ci è possibile trascendere l’istinto sessuale. Se non possiamo canalizzarlo, se non possiamo personalizzarlo, non c’è uomo”. Il Foglio, 27/8/2009