Diritto a morire: Libertą Vs Dignitą
Di Giuliano Guzzo (del 04/08/2009 @ 12:35:41, in Bioetica, linkato 1598 volte)

Un elaborato anche breve che miri a mettere in rilievo i nodi critici inerenti ai fondamenti del diritto a morire, ossia della liceità, per un essere umano, di darsi la morte secondo modalità autonomamente stabilite, ci costringe a focalizzare l’attenzione su più livelli d’analisi. In primo luogo, tuttavia, la natura della questione è squisitamente filosofica, e concerne potenzialità e limiti dell’esercizio della libertà, esercizio che a sua volta sottende una definizione che specifichi, sul piano dell’azione ma non solo, in che cosa consista, per un soggetto maturo e cosciente, essere libero, e quali fondamenti soggiacciano a questo suo stato.

E’ di tutta evidenza, per ragioni di spazio, l’impossibilità di offrire qui un affresco che possa dirsi compiuto circa la sterminata galleria di interventi che, nel corso della storia, molti pensatori hanno dedicato alla libertà, giudicandola ora fondamentale ora illusoria. Ciò che ora ci interessa, pertanto, è ricordare a grandi linee solo i principali tra gli innumerevoli contributi sul tema.

Iniziamo col precisare, sul piano storico, l'origine terminologica del concetto di libertà; origine che ci riserva qualche sorpresa visto e considerato che, se oggi siamo adusi ad immaginare la libertà come uno stato privilegiato del singolo, un tempo non era affatto così. Come ben spiega Émile Benveniste [1976], il concetto di libertà ha “origini sociali”, in quanto anticamente non designava, come oggi, una generica liberazione “da”, quanto piuttosto una precisa appartenenza di carattere familiare ed etnico; sul piano prettamente terminologico sia il termine greco eleutheros, che quello latino liber, deriverebbero infatti da una comune radice indoeuropea, “leudt”, indicante le dimensioni della crescita e dello sviluppo, che a loro volta determinano la necessità dell'esistenza di una radice, di un'appartenenza originale.

Trattasi di considerazioni che in realtà superano di molto il piano etimologico, e che ci aiutano già ad intuire l'impossibilità di reputare concreta una libertà assoluta, che cioè possa affermarsi prescindendo dal legame comunitario e sociale, ovvero dalla relazione. Nell'ambito filosofico, poi, sono principalmente due le interpretazioni della libertà che si sono venute a delineare.

Isaiah Berlin [2000], a questo proposito, ha distino tra una libertà negativa, che si esprime nella totale assenza di interferenze sociali ed istituzionali, e che trova in Constant e Mill i propri teorizzatori, e una libertà positiva, che trova nell'autonomia, ossia nella capacità di padroneggiare ed orientare sé stesso la propria realizzazione; per approfondire questo secondo modo di interpretare la libertà, si può ricorrere a Rousseau e a Kant.

Più in generale, dobbiamo l'esaltazione moderna della libertà a quella teoria liberal-democratica che affonda le proprie radici nell'individualismo del diciasettesimo secolo, epoca nella quale, ci rammenta Macpherson [1962], “l'individuo non era inteso né come un tutto morale, né come una parte di un tutto sociale più ampio, ma come proprietario di sé stesso [...] l'individuo, si pensava, è libero nella misura in cui è proprietario [...] la libertà è funzione di ciò che si possiede”. Un pensiero simile che, con i dovuti aggiornamenti, mantiene tutt'ora intatta la sua attualità, più che relativizzare il concetto di libertà, lo amalgama con quello del possesso, che, a sua volta, non può che trovare espressione nell'azione. Accade così che non solo la libertà lato sensu si appiattisca nella “libertà di”, ma l'essere umano stesso venga progressivamente ad identificarsi con le proprie capacità operative.

A prima vista risibile, in realtà questo modo di ragionare produce uno slittamento concettuale che presenta due gravi ripercussioni: da un lato la libertà dell'uomo viene ad essere qualcosa per cui l'uomo è tenuto a rispondere solo a sé stesso [Cfr. Tettamanzi 1985] e non più, come ci suggeriva inizialmente l'etimologia, ad una comunità d'appartenenza, e, dall'altro, la stessa dignità dell'uomo subisce un pesante declassamento fino a divenire qualità temporanea dei soggetti.

In altre parole, secondo questo filone di pensiero, un uomo è tale nella misura in cui, in autonomia, si sente in grado di esprimere una dignità che non gli è propria, ma che dipende simultaneamente dalle funzioni che egli è in grado di svolgere, e dal grado di appagamento trae da queste. Orbene, partiti da una generica panoramica sul concetto di libertà, ci troviamo ora già immersi nella principale argomentazione di quanti asseriscono l’esistenza e la fondatezza del diritto a morire, oggetto originale della nostra trattazione. Se, infatti, concepiamo la libertà come tratto unico e qualificante dell'essere umano, e se la relativizziamo al singolo individuo che non è più chiamato a renderne conto ad alcuno, viene meno la possibilità di ogni critica al riguardo.

L’accettazione di una libertà assoluta, quindi, non solo legittima il diritto di morire, ma elimina anche sul piano argomentativo ogni opposizione, che viene così bollata come retrograda e liberticida. Queste le conclusioni a cui si può giungere con un‘analisi sbrigativa e superficiale; in realtà, la vera debolezza razionale risiede proprio nella libertà assoluta, concetto assai debole perché pienamente contraddetto dalla realtà. Non per nulla lo stesso Kant assegnava un valore “numerico” alla libertà, riconoscendola cioè vincolata in modo tale da non potersi mai esprimere in maniera così alta da giungere, come accadrebbe nell’ipotesi del diritto a morire, ad avere il potere di negare sé stessa.

Chi fosse convinto del contrario, ed intendesse pertanto asserire l’assolutezza della libertà, dovrebbe dare conto di molteplici contraddizioni. Prima di tutto dovrebbe spiegare sulla quale di quale esigenza, se la libertà fosse davvero il valore fondante tutti gli altri, esiste la comunità, alla base della quale, com’è noto, esiste quello che potremmo chiamare “investimento universale” di libertà; detto altrimenti, perché dovremmo decidere di condividere - come facciamo ogni giorno - memorie, emozioni e progetti col prossimo una volta che fossimo pienamente compiuti, come persone, sulla base della libertà?

Delle due l’una: o esiste la libertà assoluta, oppure esiste la relazione, e quindi la libertà, per quanto fondamentale, rimane un valore, benché di primaria rilevanza, relativo, da contemperare cioè con l’esigenza di comunità. Dell’esistenza della relazione, abbiamo prove in abbondanza. Per quanto concerne la libertà assoluta, invece, indizi idonei a qualificarla come tale paiono scarseggiare. Anzi, verrebbe da dire che non ne esistono. Gli stessi sostenitori del diritto a morire, in effetti, rifiutano di pronunciarsi sull’assolutezza stricto sensu della libertà, mentre preferiscono, specie ultimamente, proporre un altro ragionamento che, per molti versi, suona convincente.

L’argomento è il seguente: non è vero che la libertà è assoluta, viene prima la dignità; ciononostante, qualora una persona si sentisse privata della dignità o comunque vedesse questa prossima ad un deterioramento giudicato insopportabile, dovrebbe poter godere anche della libertà di decidere di poter morire. Di primo acchito originale ed ammaliante, questa modalità di esporre la questione in realtà presenta ben due passaggi tragici. Anzitutto non solo si ribadisce l’assolutezza della libertà, ma si prosegue nel ragionamento affermando che la dignità della persona - l’unico vero argine, come vedremo tra poco, alla pretesa assolutezza della libertà -dipende da questa. Di più: in questo modo si svuota definitivamente il concetto di libertà, così alto e polisemico, riducendolo alla mera libertà di scelta, quella che Agostino, consapevole dei diversi gradi della libertà, avrebbe chiamato libertas minor.

Intendiamoci: di per sé la libertà di scelta non è un male. Solo, appare pretestuoso e debole un ragionamento che la ponesse, spesso accade di udire oggi, al di sopra d’ogni altro riferimento valoriale. La dimostrazione di questo, prima che nelle deduzioni e nei ragionamenti, è rinvenibile nella mera constatazione del reale. Facciamo un esempio classico: sorprendessimo qualcuno in procinto di suicidarsi, noi tutti ci adopereremmo per farlo desistere da tale intento, benché possa essere una decisione motivata e frutto di una libera scelta. In altre parole, anche se sconosciuto ai nostri occhi, ogni aspirante suicida attiverebbe in noi un meccanismo di rifiuto verso quel gesto che reputeremmo sbagliato, anche se frutto di una “scelta”.

Ecco allora che la libertà di scelta, tanto osannata al giorno d’oggi, rivela la propria inconsistenza se orientata in modo immorale e contro l‘etica, vale a dire contro l’interesse proprio ed altrui. Duplice, infatti, è la contraddizione del presunto diritto a morire. La prima è stata smascherata dal già citato Kant, in quale intravide nell’ipotesi di legittimità della morte volontaria un capovolgimento dell’obbligazione morale che, anziché farsi promotrice dell’umanità, si troverebbe paradossalmente complice dell’abbreviamento della sua esistenza [ Cfr. Bellino 2005].

Dobbiamo invece ad Aristotele la denuncia del diritto a morire quale delitto contro la società. Scrisse lo Stagirita:”Invece il morire per fuggire la povertà o la passione amorosa o qualcosa di doloroso non è di un uomo coraggioso, ma piuttosto di un vile: è infatti debolezza lo sfuggire ai travagli e chi s’uccide agisce non per affrontare una prova dolorosa, bensì per fuggire un male” (Etica Nicomachea, III, 116 a). Per queste ragioni, chi cerca la morte agisce in modo vile ed egoistico, dimenticando i propri doveri nei confronti dell’ambiente nel quale è cresciuto e vissuto fino a quel momento. Continua Aristotele:”E’ per questo che la città punisce, e una specie di pubblica infamia colpisce chi si uccide, in quanto commette ingiustizia contro la città” (Ibid., V II, 1138).

In definitiva, come ci ha anche ricordato Jacques Ricot [2003], sottoscrivere l’ideale della dignità personale rende impossibile ogni legittimazione del diritto a morire, diritto che come abbiamo avuto modo, seppur brevemente, di rammentare vede tra i suoi primi oppositori pensatori del calibro di Aristotele e Kant e non già, come si lascia spesso intendere, esclusivamente filosofi di dichiarata ispirazione religiosa. Annotiamo, infine, un curioso paradosso: l’esaltazione contemporanea della libertà è accompagnata da un’altrettanto contemporanea promozione del determinismo [Cfr. Da Re 2005], determinismo che ha oramai affondato le proprie radici persino nel terreno giuridico e processuale; basti pensare a quanti processi si concludono con una tiepida condanna del colpevole, giudicato non già libero e dunque responsabile delle azioni commesse, bensì vittima di un contesto sociale incapace di educarlo ai valori comuni.

Ebbene, mentre questa tendenza prende piede, mira ad affermarsi anche il liberalismo di cui abbiamo parlato poc’anzi, ovverosia la tendenza ad esaltare, oltre ogni limite, il concetto di libertà. E’ un paradosso culturale, questo, che andrebbe chiarito, perché risulta francamente difficile accettare che da un lato si deresponsabilizzi il soggetto resosi colpevole di comportamenti delittuosi, e, dall’altro, lo si esalti quando fosse intento a esprimere in modo ugualmente deprecabile la propria libertà, cercando la morte. Altro paradosso, cui ci limitiamo qui ad accennare, è quello per cui nell’era in cui i progressi della medicina hanno reso più accessibile il dominio sul dolore, si intende da più parti favorire il ricorso al suicidio o all’eutanasia [Cfr. Sgreccia 2006].

La via d’uscita più convincente, in questi dilemmi, rimane quella del personalismo ontologico, corrente di pensiero che, senza negare la responsabilità dell’individuo e la sua libertà, non rinuncia tuttavia a sottolineare, per la persona, il carattere fondante della dignità. Una dignità fondata sull’esistenza, e pertanto libera da condizionamenti e in grado di fondare un monito di universale rilievo: la vita umana è intrinsecamente degna di essere vissuta, senza se e senza ma.

Che la dignità dell’essere umano superi, quanto ad importanza, il pur fondamentale esercizio della libertà risulta evidente da una elementare constatazione: l’esercizio libertà, oltre ad essere un concetto complesso e polisemico, interessa una parte degli esseri umani, mentre la dignità è universale, e costituisce la premessa alla libertà; non per nulla gli sforzi dei governi occidentali e democratici, tesi a garantire la libertà ai propri cittadini, si fondano sulla consapevolezza della dignità della persona umana.

In altre parole, all’uomo deve essere garantita la libertà in quanto persona, e non viceversa. Se invertissimo gli elementi del discorso, ci troveremmo dinanzi ad una pericolosa discriminazione, secondo la quale dovremmo tutelare solo chi è in grado di dimostrarsi libero. Ma si tratterebbe di un evidente capovolgimento del senso logico, capovolgimento che ci riconduce con rinnovata convinzione alla consapevolezza che il diritto a morire, e più in generale l’esercizio della libertà, devono trovare argine nella dignità insuperabile della persona, soggetto dal valore inalienabile, valore cioè impossibile da estirpare e da cedere.

 

Bibliografia: ARAMINI, M. Eutanasia, spunti per un dibattito, Ancora, 2006; BELLINO, F. , Eubiosia, la bioetica della “buona vita”, Citta Nuova, Roma 2005; BENVISTE, E. Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, trad. it di M. Liborio, Einaudi, Torino 1976; DA RE, A. Libertà e responsabilità in “Ricerca” n.11/12 – 2005; GOFFI, J.Y., Pensare l’eutanasia, Einaudi, Torino 2006; PERTOSA A., Scelgo di morire?, Edizioni studio domenicano, Bologna 2006; RICOT J. Philosophie et fin de vie, Ensp, Rennes 2003; E. SGRECCIA, Manuale di bioetica, Vol. 1, Vita e Pensiero 2006; TETTAMANZI D., Eutanasia, Piemme, Milano 1985.