C’è da alcuni di mesi in vendita un libro, “La chiesa dei no”, scritto dal solito giornalista di Repubblica, in cui viene esposto un concetto molto semplice: l’assurdità anacronistica del comportamento della Chiesa cattolica starebbe nei troppi no che essa propone nell’ambito della dottrina morale.
Non c’è bisogno di leggere il volume, per comprendere che a monte di esso sta la totale incomprensione del messaggio di Cristo. In verità i no della Chiesa, assolutamente poco incline a sottoporre la verità al gioco dei sondaggi, sembrano tali a chi poco rifletta sulla natura dell’uomo, sempre alla ricerca di un equilibrio, rotto al principio della sua storia, tra le tensioni animali, impersonali e violente, e le esigenze della ragione e dello spirito. Sembrano no, oggi, a coloro che non amano mettersi in discussione, fare l’esame della propria coscienza, come il buon vecchio Seneca, tutte le sere, per procedere, almeno un poco, nella faticosa strada della virtù.
Siamo abituati da alcuni secoli, infatti, ad un concetto tanto distorto di diritti dell’uomo, che siamo ormai convinti che la parola “dovere” non esista neppure più, e, soprattutto, che non c’entri nulla con la nostra realizzazione. Eppure proprio la morale cristiana fu accolta all’origine del cristianesimo, come un grande sì che generò una entusiastica accoglienza in molti che videro nella sequela di Cristo il modo per vivere pienamente e trascendere, nello stesso tempo, il momento presente, l’attimo fuggente, per affermare la nostra durata immortale. La morale cristiana infatti ci ricorda ogni giorno cosa siamo, quale sia l’immensa dignità umana, per impedirci di precipitare a livello delle bestie, nella servitù, come direbbe Dawkins, ai nostri geni egoisti.
La Chiesa nasce dunque dai sì: il fiat della Vergine, quello di Cristo, al calce amaro, e quello di Pietro, chiamato a donare la propria stessa vita nel martirio. Il no dei comandamenti, allora, è solo la parte preliminare, per così dire, dell’atto virtuoso, sommamente libero, che nasce da una rinuncia, un no, appunto, per un sì più grande.
E’ come se la Chiesa tenesse sempre alta l’asticella, per ricordarci che abbiamo anche ali e non solo piedi appesantiti; rami e non solo radici; occhi dello spirito, e non solo della carne; desideri nobili e non unicamente appetiti capricciosi e istintivi. Ci addita l’amore pieno, quando vorremmo godere solamente di quello carnale; e mentre ci sconsiglia le ghiande dei porci, ci dona il pane celeste. Ci libera dalla malinconia dei sensi, dalle passioni tristi, dalla frenesia del potere e del successo, dalla schiavitù del peccato e dell’io prepotente, e nel contempo ci stimola al sì dell’umiltà, del perdono, della misericordia, della carità…
Ad ogni no a ciò che vi è di più basso, oppone un sì, sonoro, squillante, affinché non sprofondiamo nel non essere, nell’accidia, nell’istinto di morte. In questo la Chiesa ha una sua pedagogia: conosce nel contempo la bassezza dell’uomo e la sua grandezza, il nostro no e il nostro sì alla vita, il nostro essere quasi sospesi tra l’Essere ed il nulla. Per questo il no precede il sì, l’Antico Testamento il Nuovo, il timore servile di Dio, l’amore filiale per Lui. Perché resi consapevoli di ciò che ci impedisce di essere veramente uomini, di ciò che ci tiene legati a terra, possiamo intraprendere un cammino positivo, creativo, originale, di libertà e di crescita. Mi spiego con un esempio: il no al divorzio.
Perché questa posizione, che oggi appare così rigida e che nel passato, invece, segnò la più grande liberazione della donna dall’arbitrio e dalla prepotenza dell’uomo? Perché il matrimonio indissolubile è l’assunzione di un impegno, di un giogo dolce e leggero, che ci rende più uomini, più completi, più felici, più sereni. La Chiesa, per citare Giacomo Balmes, conosce a fondo quello che siamo: di fronte alla passione distruttiva, che può travolgere i sensi e la libertà dell’uomo più fedele, preferisce frenarla da principio, piuttosto che lasciarla divampare; soffocarla, chiudendole ogni porta, piuttosto che concederle terreno; lasciarla morire di inedia, piuttosto che permettere che ingrossi sempre più, sino a divenire insaziabile. Come con un giocatore d’azzardo: non è efficace contrattare con lui, permettergli di giocare, ma solo in certi giorni. Non si otterrà nulla: il giocatore dilapiderà il suo patrimonio, e la passione lo divorerà piano piano.
Come gioco genera gioco, così il divorzio genera divorzio. E’ un fatto ormai constatato in tutte le società moderne. Per questo la Chiesa non lo accetta, come principio, perché la sua sola possibilità è come un grimaldello, è l’ “occasione che fa l’uomo ladro”: basta a scardinare un matrimonio solido, in un momento di difficoltà; ad annichilire del tutto la volontà, quando essa è indebolita; a scoraggiarci e ad indurci a cambiare strada, quando invece si dovrebbero stringere i denti, per ripartire lungo la via intrapresa. Sembra solamente un divieto, ma è una proposta, un’ affermazione: amare per sempre si può! E’ possibile, è umano, è bello, ed è anche doveroso.
Il principio, l’indissolubilità del matrimonio, nella sua apparente durezza, è il bastone offerto alla nostra fragilità, per tenerci in piedi anche quando staremmo per cadere. E’ il no che dobbiamo dirci, quando giungono lo scoraggiamento, l’ira, la passione cieca. Devi, perché puoi. E’ nella nostra natura la durata dell’amore: farlo crescere, coltivarlo, vivificarlo ogni giorno. Ogni giorno dirgli un nuovo sì, impedendo che il tempo, la trascuratezza, l’incostanza, l’egoismo, la freddezza, lo uccidano. (Il Foglio, 25/7/2009)