A Roma, nel rione Celio, la chiesa dedicata a S. Gregorio Magno sorge sul luogo dove il grande Pontefice nel 575 aveva istituito un monastero dedicato a S. Andrea. Nel 596 il Papa aveva inviato il priore del monastero, il futuro S. Agostino di Canterbury, con circa quaranta monaci, ad evangelizzare l'Inghilterra.
Nell'atrio della chiesa una lapide ricorda Sir Edward Carne, l'ultimo rappresentante diplomatico britannico presso la Santa Sede prima che, con l'ascesa al trono di Elisabetta I, l'Atto di Supremazia del 1559 consacrasse definitivamente lo scisma anglicano e rendesse illegali le relazioni diplomatiche tra Londra e Roma.
Dopo tale data e fino al secolo XX si è svolta "una curiosa storia di sotterfugi e scappatoie" , per aggirare tale divieto e mantenere i contatti tra la Gran Bretagna e la Santa Sede, attraverso missioni straordinarie o temporanee o agenti ufficiosi. Sotto la dinastia degli Stuart, la condizione dei cattolici in Gran Bretagna migliorò sensibilmente rispetto al periodo precedente.
I quattro sovrani di tale Casata ebbero tutti mogli cattoliche, per nascita o per conversione. Giacomo I e Carlo I rimasero anglicani, anche se il secondo affermò che avrebbe dato la sua mano destra purché lo scisma con Roma non fosse avvenuto . Carlo II "concordava con l'opinione del suo nonno materno, Enrico IV, per il quale era necessario che il sovrano condividesse la fede della grande maggioranza della nazione" ; perciò si convertì al Cattolicesimo solo in punto di morte.
Di tempra diversa fu il fratello e successore, che, seguendo la sua coscienza, ancora principe ereditario, abiurò l'anglicanesimo nel 1672. Salito al trono nel 1685, l'anno seguente Giacomo II inviò a Roma come suo ambasciatore personale Roger Palmer Conte di Castlemaine e accolse il Conte Ferdinando d'Adda come inviato del Papa, con il titolo ad personam di Nunzio Apostolico.
Il tentativo di Giacomo di concedere piena libertà religiosa ai cattolici provocò nel 1688 la Glorious Revolution, che gli costò il trono . Per quasi un secolo non vi furono più contatti diplomatici tra Roma e Londra. La comune necessità di fronteggiare l'espansione della Francia rivoluzionaria, tra il 1792 ed il 1801, portò alle missioni di due agenti diplomatici non ufficiali, Sir John Coxe Hippisley, che era già stato inviato a Roma nel 1779-80, tornò nella Città Eterna, mentre Mons. Charles Erskine rappresentò il Papa presso il Re Giorgio III .
Nel 1823 Papa Leone XII scrisse a Re Giorgio IV per annunciargli la sua ascesa al soglio pontificio, senza però ricevere risposta, perché i consiglieri giuridici della Corona, consultati dal ministro degli esteri George Canning, espressero l'opinione che una corrispondenza diretta con il Sommo Pontefice avrebbe potuto implicare il riconoscimento del suo preteso ruolo come capo della Cristianità.
Desideroso di riconciliare i cattolici britannici ed irlandesi con la Corona, Canning cercò di stabilire contatti indiretti con la Santa Sede attraverso Lord Burghersh, ministro presso il Granduca di Toscana . Con l'approvazione nel 1829 delle leggi sull’emancipazione dei cattolici nel Regno Unito, i consiglieri giuridici della Corona espressero il parere che fosse ora possibile intrattenere una corrispondenza ufficiale con la Santa Sede; i Law Officers nel 1832 e 1833 ed il Solicitor General nel 1833 ritennero che non vi era “alcuna legge che proibisse alla Corona di accreditare un agente diplomatico alla Corte di Roma”.
Nel 1848 il parlamento britannico approvò poi una legge che autorizzava ad accreditare un ministro presso "il Sovrano dello Stato Pontificio" e a ricevere da questi un rappresentante, purché laico. Nel clima acceso provocato dalla restaurazione della gerarchia cattolica in Inghilterra e nel Galles nel 1850, definita dai protestanti Papal Aggression, la legge non poté essere applicata; nel 1870 il Potere Temporale ebbe fine e nel 1875 la legge fu conseguentemente dichiarata decaduta.
Tuttavia, dal 1832 relazioni stabili, ma unilaterali, erano state mantenute tra Londra e la Santa Sede, poiché da quell'anno un attaché della legazione britannica presso il Granducato di Toscana ebbe l'incarico di risiedere stabilmente a Roma, come agente ufficioso presso la Corte Pontificia. Con la fine del Granducato di Toscana, dal marzo 1860 l'attaché fu aggregato alla legazione presso il Regno delle Due Sicilie e con l'estinzione anche di questo Stato dipese poi direttamente dal Foreign Office.
Negli anni cruciali del Risorgimento italiano un rappresentante britannico fu quindi sempre presente a Roma, una sede "diplomatica" quanto mai importante in quel frangente, perché l'atteggiamento della Gran Bretagna verso il movimento nazionale italiano fu largamente influenzato da fattori religiosi. "Significativo nel suscitare l'interesse inglese al problema italiano, e di gran lunga determinante nel dare agli inglesi un atteggiamento particolare verso di esso, fu il Protestantesimo. - ha scritto uno storico britannico - L'inglese medio che pensava all'Italia ricordava per prima cosa il Papa di Roma... il Cattolicesimo romano era odiato dalla massa degli inglesi come l'arcinemico della libertà, ogni oppositore del Papato era un alleato dell’Inghilterra”.
É ampiamente noto l’appoggio determinante dell’Inghilterra al Risorgimento italiano, che fu visto da molti protestanti come l’occasione, abbattendo il Potere Temporale del Papa, di infliggere un colpo mortale al Cattolicesimo e di diffondere la Riforma in Italia .
L’azione diplomatica dei governi che si succedettero a Londra fu naturalmente influenzata anche da altri fattori; i governi whig-liberali di Lord Palmerston e Lord Russell (1859-66) furono decisamente ostili al Papato, più prudenti il governo tory di Lord Derby (1866-68) e quello liberale di William Gladstone (1868-74), che, a causa della situazione irlandese, doveva mantenere rapporti corretti con Pio IX ed i cattolici.
Dal 1858 al 1870, l’agente ufficioso britannico a Roma fu un diplomatico di prim’ordine, Odo Russell (poi Lord Amphtill), nipote del citato Primo ministro; convinto protestante, ostile al Cattolicesimo, ne subiva però in una certa misura il fascino . Nel luglio 1870 gli successe Harry Clarke Jervoise, la cui missione presso la Santa Sede ebbe termine nel 1874, come conseguenza della perdita della sovranità temporale da parte del Papa.
Fino alla prima guerra mondiale non vi fu più alcun rappresentante diplomatico britannico presso la Santa Sede, ma solo contatti o missioni speciali in occasioni particolari . Lo scoppio della prima guerra mondiale rese necessario mandare in Vaticano un rappresentante ufficiale britannico, per bilanciare l'influenza predominante ivi esercitata dai diplomatici degli Imperi centrali.
Così nel novembre 1914 il governo inglese inviò in Vaticano Sir Henry Howard, diplomatico a riposo, esponente della più illustre famiglia dell'aristocrazia cattolica britannica, i duchi di Norfolk , al quale alla fine del 1916 successe un funzionario in servizio, anch’egli cattolico, il Conte John Francis de Salis . Ancora una volta non si istituiva una rappresentanza diplomatica permanente, ma s’inviava una missione a carattere temporaneo, ma senza limiti definiti, che certamente sarebbe rimasta in Vaticano per tutto il periodo della guerra, ma quasi sicuramente non oltre: era quindi definita mission e non legation .
Peraltro, alla fine del 1917, John Duncan Gregory sostenne in un lungo memorandum l'utilità della missione, della quale era stato primo segretario, non solo ai fini della guerra in corso, ma anche per la questione irlandese e le nomine di ecclesiastici cattolici nell'Impero britannico. Per Gregory la brutale verità era che "non solo la missione britannica, ma tutte le ambasciate e le legazioni accreditate presso il Papa sono là per tenerlo in riga. La guerra ha dimostrato che il Papa non può essere ignorato".
Finita la guerra, si intensificò l'agitazione dei protestanti contro il mantenimento della missione, la cui utilità fu difesa pubblicamente da personalità quali Sir Samuel Hoare, il futuro ministro degli esteri, e Robert Seton-Watson, l'eminente storico e slavista. Nel novembre 1920 il governo autorizzò il mantenimento della missione, senza chiarire però se avesse carattere permanente.
Nel febbraio 1923 la missione divenne una legazione; una condizione implicita di tale trasformazione fu che il ministro fosse un protestante, cosicché alla fine del 1922 de Salis era stato sostituito da Sir Odo Theophilus Russell, secondogenito di quell'Odo Russell che si è visto all'opera negli anni cruciali del Risorgimento. A lui il 9 maggio 1923 toccò accompagnare i Sovrani d'Inghilterra, Giorgio V e la Regina Mary, nella loro storica visita ufficiale a Pio XI . Nel 1926 la legazione presso la Santa Sede divenne finalmente una sede permanente del Foreign Service britannico.
Nel 1930 presentò le sue credenziali al Re il Nunzio Apostolico per l’Irish Free State, ancora legato alla Corona britannica; nel 1938 fu nominato un Delegato Apostolico per il Regno Unito: dovevano passare ancora più di 40 anni perché esso fosse elevato al rango diplomatico di Nunzio. Tra il 1929 e il 1932 1e relazioni anglo-vaticane attraversarono una crisi, a causa del conflitto che oppose a Malta il primo ministro, il cattolico Lord Strickland, alla gerarchia locale . Si arrivò al richiamo a Londra del ministro presso la Santa Sede, sostituito da un incaricato d'affari.
A partire dal 1935 i rapporti tra Londra e la Santa Sede risentirono negativamente della tensione tra Gran Bretagna e Italia a causa della guerra di Etiopia e dell'intervento italiano nella guerra civile spagnola. Nel rapporto annuale per il 1935 il ministro britannico presso la Santa Sede si avventurò in un superficiale paragone tra fascismo e Cattolicesimo, che "poggiano su principi in una certa misura simili. Entrambi non ammettono discussione del loro credo; entrambi insistono sulla sottomissione dell'individuo al sistema, incoraggiano le famiglie numerose, attribuiscono importanza alle cerimonie pubbliche e alla psicologia di massa" .
Più correttamente Sir Francis D'Arcy Godolphin Osborne, nominato ministro presso la Santa Sede nel gennaio 1936, osservò che essa, nella guerra civile spagnola, non poteva, per ragioni religiose, che appoggiare "i difensori del Cattolicesimo contro i fautori di un sistema politico basato sull’ateismo”. Osborne rimase ministro presso la Santa Sede per tutta la durata della seconda guerra mondiale.
Durante il conflitto la legazione continuò ad operare, grazie alla extraterritorialità garantita dai Patti Lateranensi; costituì un importante punto di osservazione della realtà italiana e, dopo l'armistizio del 1943 e fino al giugno 1944, un centro molto attivo per l'aiuto ai prigionieri di guerra alleati che erano riusciti a fuggire nelle convulse giornate di settembre. Non si può dire però che sui problemi italiani il Foreign Office prestasse grande attenzione alle opinioni del Vaticano, delle quali Osborne si fece convinto portavoce, poiché coincidevano con le sue vedute conservatrici.
La sollecitudine della Santa Sede perché si arrivasse ad un’uscita "indolore" dell'Italia dal conflitto e poi perché le fosse assicurato un trattamento più benevolo di quello garantito dalla ambigua formula della "cobelligeranza" si scontrava con gli intenti punitivi degli inglesi, in primo luogo del ministro degli esteri Anthony Eden, per di più certo consapevole che le sue dimissioni dalla stessa carica nel 1938 erano state viste con favore dal Vaticano. "Oggetto di molte attenzioni e destinataria di molte promesse" quando la guerra volgeva a favore dell’Asse, la Santa Sede, mutate le sorti del conflitto, era "ormai avvertita dalle democrazie come qualcosa di ingombrante"; "se si esamina la pur vasta corrispondenza intercorsa nei mesi successivi [all’estate 1944] - e fino alla fine della guerra - tra la rappresentanza britannica presso la Santa Sede e Londra, si rimane colpiti dalla quasi totale mancanza di riferimenti alla politica vaticana o agli sviluppi dell'azione intrapresa dal Papa per l'affermazione di una pace basata sui valori del cattolicesimo" .
Nella tradizione storico-diplomatica appena delineata, si collocano le vicende del triennio 1946-48 qui considerate .
Le minoranze protestanti in Italia, il Trattato di pace ed i Patti Lateranensi
Nel giugno 1946, a seguito di una conversazione sui Patti Lateranensi avuta dal primo segretario della legazione presso la Santa Sede con lo scrittore Ignazio Silone, fu consultato Arnold Toynbee, che nel 1929 aveva compilato la parte su tali accordi nel Survey annuale del Royal Institute of International Affairs .
Secondo l’illustre storico, riguardo all’art. 1 del Concordato non vi era “nulla da obiettare” e le norme dell’art. 34 erano “le stesse che in Inghilterra”. I punti dolenti erano l’art. 1 del Trattato e l’art. 19 del Concordato , che andavano considerati insieme. Certamente l’art. 1 era “difficile da accettare per gli anticlericali, gli agnostici, gli ebrei, i valdesi ed altre categorie di cittadini italiani”; tanto più che con l’art. 19 lo Stato rinunciava al quid pro quo di nominare i prelati della Chiesa di Stato, come avveniva in Inghilterra.
Finché la Chiesa non oltrepassava la sfera politica, come garantito dall’art. 1 del Concordato, era giusto nominasse i suoi prelati, perciò “la soluzione migliore” gli sembrava che “la Chiesa rinunciasse all’articolo 1 del Trattato e lo Stato acconsentisse a non mettere in discussione l’art. 19”. Il 28 giugno l’ambasciata italiana a Londra consegnò al Foreign Office un memorandum motivato dalle voci che le potenze vincitrici intendevano introdurre nel Trattato di pace una clausola per vincolare il governo italiano al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, compresa quella religiosa.
Il memorandum sottolineava che la nuova costituzione in preparazione avrebbe fornito tutte le garanzie in merito e che quindi una clausola addizionale al riguardo nel trattato di pace “non avrebbe potuto produrre alcun effetto utile che non fosse già altrimenti assicurato e spontaneamente ottenuto. Anzi con il suo carattere unilaterale e vincolante solo per il governo italiano, avrebbe offeso la dignità nazionale e la storia nel suo complesso”.
Il 18 dicembre 1946 la commissione dei 75 dell’Assemblea costituente approvò il testo di quello che sarebbe divenuto l’art. 7 della Costituzione repubblicana . Miss Fredell della sezione italiana del Foreign Office, commentò il 3 gennaio successivo: “Ci aspettavamo che i comunisti avrebbero evitato di sollevare in questa fase una controversia sui Patti Lateranensi. Possono sempre tornare sulla questione in seguito se si sentiranno più forti” .
Il mondo protestante britannico si mobilitò in difesa della libertà religiosa, ritenendola minacciata dalla costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi. Ernest Barker, presidente del Joint Committee on Religious Liberty, organismo espressione delle confessioni protestanti, il 4 febbraio 1947 scrisse a Sir Orme Sargent , sottosegretario permanente del Foreign Office, dichiarandosi “assai turbato” dalla notizia che la nuova costituzione italiana avrebbe incorporato i Patti Lateranensi, ed esprimendo l’opinione che ciò avrebbe violato i termini del trattato di pace relativi alla libertà di religione in Italia . Barker allegava copia della lettera del vescovo anglicano di Lichfield pubblicata dal Times il giorno precedente ed un telegramma di protesta inviato al Dipartimento di Stato dal Federal Council of Churches in the United States, per mezzo di John Foster Dulles . Secondo la prassi del Foreign Office, la questione fu valutata da funzionari via via di grado maggiore, che annotarono i loro commenti. Archibald D. M. Ross scrisse: “Sembra opinabile che <> che il Vescovo di Lichfield ed il Comitato vedono nei Patti Lateranensi siano più serie delle minacce alla religione profferite in nome della libertà civile in numero crescente in Italia ed altrove” .
A sua volta un altro funzionario osservò che il trattato di pace non impediva che ad una chiesa in particolare fossero concessi dei privilegi, purché i fedeli di altre confessioni godessero della libertà religiosa. Alla lettera di Barker, rispose l’11 febbraio, a nome di Sargent, Frederick Robert Hoyer Millar, capo del Western Department, nella cui competenza rientravano l’Italia e la Città del Vaticano, dichiarando che il governo, se si fosse dimostrato necessario, era pronto a fare la sua parte per assicurare che le norme del trattato di pace relative alla libertà religiosa fossero attuate. Il giorno precedente era stata discussa alla Camera dei Comuni l’interrogazione presentata dal deputato laburista Thomas Skeffington Lodge, che denunciava l’inserimento dei Patti Lateranensi nel trattato di pace con l’Italia come un pericolo per la pace religiosa.
Fu facile per il ministro di Stato del Foreign Office, Hector McNeil, rispondere sinteticamente: “Non vi è alcun riferimento ai Patti Lateranensi nel trattato di pace con l’Italia”. Il vescovo di Lichfield si dichiarò “perplesso” da tale risposta e, facendo confusione tra i tre documenti (Patti Lateranensi, Trattato di pace e Costituzione repubblicana), scrisse a Sargent di essere stato informato direttamente del contrario “dal capo dei valdesi in Italia”, attraverso il Consiglio mondiale delle chiese di Ginevra, per poi chiedergli di illuminarlo su “quando era stata ribaltata la decisione della commissione incaricata della redazione della costituzione di inserire in essa i Patti”. Sargent rispose il 5 marzo chiarendo i termini della questione: il Trattato di pace conteneva un articolo un articolo, il n. 15, che impegnava l'Italia a garantire la libertà religiosa , ma non citava affatto i Patti Lateranensi, che verosimilmente sarebbero invece stati richiamati nella nuova Costituzione .
Il Foreign Office ricevette varie proteste e richieste di intervento contro l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione, votato il 25 marzo dall’Assemblea costituente, da parte di associazioni e singoli esponenti del mondo protestante, soprattutto non conformista . Commentando una lettera inviata direttamente al ministro degli esteri Ernest Bevin, Lancelot George Thirskell scrisse : “C’è poco o nulla di male nel Trattato del Laterano del 1929, a parte l’art. 1 che fa del Cattolicesimo la sola religione dello Stato. Ma in un paese dove i cattolici sono più del 99% sembra non esservi ragione per cui la Chiesa cattolica non debba godere di certi privilegi, proprio come la Chiesa anglicana in questo paese”.
Osservava poi che durante il fascismo “le piccole sette protestanti in Italia avevano senza dubbio sofferto un numero considerevole of insignificanti [petty, traducibile anche con “meschine”] persecuzioni, ma assai più per mano dello Stato fascista che della Chiesa...Nell’Italia post-bellica essi corrono pochi rischi di persecuzione, ed i fastidi piuttosto che da parte dai cattolici è più probabile vengano dall’altra parte della barricata”.
Allegato a questo commento vi era un memorandum definito dal suo autore, Graham Bower, “utile munizione per bombardare i valdesi”, nel quale si chiariva la situazione degli a-cattolici in Italia, concludendo che l’art. 7 [in realtà l’8] della costituzione dava alle religioni non cattoliche il pieno diritto di organizzarsi secondo le proprie leggi, che la tolleranza religiosa riposava “sul buon senso del popolo italiano” ed infine che “In futuro la lotta sarà verosimilmente tra religione ed agnosticismo piuttosto che tra la Chiesa cattolica romana e le sette a-cattoliche. La Chiesa cattolica sarà probabilmente impegnata a fondo con le influenze comuniste”.
Entrata in vigore la costituzione, i protestanti britannici furono attenti a denunciare presunte violazioni della libertà religiosa in Italia. Il 1° gennaio 1948 a Sonnino, in Ciociaria, città natale del Cardinale Antonelli, segretario di Stato di Pio IX, i carabinieri dovettero difendere dall’indignazione popolare i partecipanti ad una manifestazione protestante.
Nel Regno Unito i fatti furono ingigantiti e collegati ad altre notizie del tutto infondate (come presunte discriminazioni a danno dei non cattolici nella distribuzione degli aiuti statunitensi, smentite dall’ambasciata americana a Roma) ed ancora una volta associazioni e personalità protestanti chiesero l’intervento del governo britannico quale firmatario del trattato di pace di pace con l’Italia. Il segretario generale del Free Church Federal Council, il 20 aprile scrisse direttamente a Bevin, per denunciare le persecuzioni contro i protestanti in Italia.
Fu interessata l’ambasciata britannica a Roma, che a sua volta avvicinò il ministero degli esteri italiano, la cui versione dei fatti e le cui valutazioni furono largamente accettate ed utilizzate nella risposta inviata dal Foreign Office il 17 giugno . In essa si riferiva che “secondo l’ambasciata non vi è alcuna prova di qualsiasi persecuzione organizzata o generalizzata a danno dei protestanti in Italia. Certamente nelle grandi città essi organizzano i loro riti senza alcuna molestia: per esempio vi è una chiesa protestante a pochi metri dalle mura della Città del Vaticano”.
Però, osservava il Foreign Office, le autorità italiane ritenevano che nei piccoli centri i protestanti dovevano tener conto dell’ordine pubblico ed essere alquanto discreti nello scegliere i luoghi dei loro raduni per non urtare i sentimenti fortemente cattolici delle popolazioni. In particolare a Sonnino le autorità, prevedendo i disordini, avevano proibito il raduno, ma i protestanti avevano sfidato il divieto e cinque di loro erano stati arrestati, ma liberati dopo due settimane. Stava inoltre per iniziare il processo a carico di un individuo che aveva esploso un colpo di pistola . Nel frattempo si era aperto un altro fronte, con una lettera in data 18 febbraio 1948 del Tenente Colonnello dell’Esercito della Salvezza William Bedford, che lamentava la difficoltà di infiltrare in Italia propri uomini e chiedeva l’appoggio del governo.
Gli fu risposto che ogni eventuale passo poteva essere solo ufficioso. Egli tornò alla carica il 10 agosto ed ancora una volta fu interessata l’ambasciata britannica a Roma, che nuovamente avvicinò Palazzo Chigi, ottenendo risposta con una lettera personale del segretario generale Conte Vittorio Zoppi all’incaricato d’affari. Il 21 settembre l’ambasciata inviò a Londra un rapporto nel quale si chiarivano diversi punti relativi alla condizione dei protestanti, innanzi tutto ristabilendo la verità dei fatti su alcuni episodi . Secondo l’ambasciata, le difficoltà sorte “erano state causate largamente dal fervore missionario dei predicatori e delle comunità protestanti”; le autorità italiane, pur rispettando la tolleranza religiosa, non volevano che “il problema fosse aggravato da zelanti missionari stranieri”, che avrebbero fatto meglio ad impegnarsi nella conversione dei veri pagani piuttosto che dei cattolici italiani.
Era quindi improbabile che il governo italiano aumentasse considerevolmente il numero dei permessi di soggiorno concessi ai predicatori dell’Esercito della Salvezza. Nei commenti del Foreign Office si ritrovano alcune significative affermazioni: “É facile essere d’accordo con gli italiani – scrisse D. Pemberton Pigott il 5 ottobre - che non desiderano consentire l’ingresso nel paese a chi, a loro giudizio, è un probabile fomentatore di disordini religiosi”. Comunque era il caso di convincere Roma ad ammettere “un numero ragionevole” di rinforzi dell’Esercito della Salvezza, che era “un’istituzione virtuosa e caritatevole”, spiegando al governo italiano, che probabilmente confondeva “una setta protestante con l’altra”, che essi erano ben diversi dagli “impetuosi anabattisti che avevano provocato loro tanto fastidio”; allo stesso tempo andavano chieste assicurazioni all’Esercito della Salvezza “che si sarebbero comportati come pecore e non come lupi”.
Francis D. W. Brown condivise questa linea di condotta, con una nota di cautela: vi era da sperare che l’Esercito della Salvezza mantenesse la discrezione sulle assicurazioni richieste e che in effetti non stesse facendo del proselitismo in Italia. Al contrario un altro funzionario raccomandò un sostegno “un po’ più vigoroso” all’Esercito della Salvezza. Relazioni diplomatiche e protocollo Alla vigilia di succedere a Sir D’Arcy Osborne quale ministro britannico presso la Santa Sede, John Victor Perowne fu informato che “in verità non vi sono problemi di grande rilevanza tra noi ed il Vaticano riguardo ai suoi interessi nei territori britannici” .
Giunto da poco a Roma, il 16 luglio 1947 Perowne scrisse a Philip Moore Crosthwaite , della sezione italiana del Foreign Office, di aver letto lo studio British Diplomatic Relations with the Holy See, compilato nel 1938 da Stephen Gaselee , “specialmente per chiarire l’anomalia per cui la Gran Bretagna è rappresentata diplomaticamente presso la Santa Sede, ma la Santa Sede non è rappresentata diplomaticamente alla Corte di S. Giacomo”.
Tra le righe, Perowne dubitava fosse ancora valida l’affermazione conclusiva di Gaselee che la legazione presso la Santa Sede suscitava la forte opposizione degli ultra-protestanti in Inghilterra ed in Scozia, ritenendo invece “che le obiezioni alla missione fossero ora di natura ideologica e politica, piuttosto che religiosa”. Inoltre, secondo Perowne, lo studio non rispondeva alla domanda sulla mancanza di un Nunzio Apostolico a Londra. Gaselee ricordava che il Bill of Rights del 1689, conseguente alla espulsione di Giacomo II, ultimo Re cattolico, e l’Act of Settlement del 1701, che escludeva i cattolici dalla successione al trono, proibivano la “comunione” tra la Corona e la Corte di Roma; nonostante ciò, come già ricordato, i Law Officers nel 1832 e 1833 ed il Solicitor General nel 1833 avevano espresso l’opinione che non vi era “alcuna legge che proibisse alla Corona di accreditare un agente diplomatico alla Corte di Roma”.
Ma tale parere non valeva per l’accreditamento a Londra di un Nunzio. Secondo Gaselee nel 1938 vi erano “ancora in una certa misura dubbi al riguardo” sulla legalità di un tale atto: in realtà però egli non motivava questa opinione in termini di diritto, limitandosi a considerazioni “politiche”:
“1) la rappresentanza diplomatica non è obbligatoriamente reciproca; 2) i protestanti non la gradirebbero; 3) la proposta nomina di un Nunzio a Londra susciterebbe controversie di protocollo che sarebbe meglio evitare”. “Sebbene l’Arcivescovo Godfrey [Mons. William Godfrey, Delegato Apostolico a Londra dal 1938] – continuava Perowne - tenda nelle conversazioni a brontolare sulle prerogative ridotte del rappresentante del Papa in Gran Bretagna, a paragone con i privilegi accordati al rappresentante di Sua Maestà presso la Santa Sede, il Vaticano, almeno per ora, sembra aver accettato la situazione”.
Tuttavia poiché la Santa Sede stava stringendo piene relazioni diplomatiche con paesi nei quali il numero di cattolici era assai minore che in Gran Bretagna, l’Irlanda già accoglieva un Nunzio Apostolico ed il Canada stava valutando se fare altrettanto, Perowne chiedeva di chiarire il problema legale e di aggiornare lo studio di Gaselee. Solo il 20 ottobre Crosthwaite rispose che tale saggio era molto personale e difficilmente integrabile, per cui sarebbe stato meglio prepararne uno del tutto nuovo, sennonché il personale dell’ufficio studi era ridotto ed oberato di lavoro.
Comunque allegava il parere dei Legal Advisers del Foreign Office sulla assenza di “obiezioni...legali o costituzionali” alla nomina di un rappresentante diplomatico del Papa a Londra. Tuttavia “restavano tuttora sostanzialmente valide” le ragioni per non farlo esposte nello studio di Gaselee. Le relazioni diplomatiche non erano obbligatoriamente reciproche; inoltre, sebbene le proteste contro l’esistenza della Legazione fossero cessate, le considerevoli lamentele delle Free Churches ed altri contro l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione faceva temere “una forte opposizione in certi ambienti” alla nomina di un Nunzio Apostolico.
Non importava cosa facessero altri paesi del Commonwealth, perché esistevano “considerazioni domestiche peculiari al Regno Unito”. Un’ulteriore difficoltà era costituita dalla pretesa della Santa Sede che i Nunzi Apostolici fossero considerati ipso facto Decani del corpo diplomatico. “Finché gli americani (con una proporzione molto più alta di cattolici) continuano senza un rappresentante vaticano a Washington, - era la conclusione di Crosthwaite - possiamo ragionevolmente sperare di poter fare altrettanto”. Il 2 luglio 1948 Perowne riferì che Mons. Godfrey gli aveva confidato che, a parte un problema riguardante il personale della Delegazione Apostolica , “il Vaticano, a suo giudizio, era pienamente soddisfatto dello <> della sua rappresentanza in Gran Bretagna. La questione di un Nunzio era irta di difficoltà ed egli, per parte sua, non riteneva che una tale nomina sarebbe stata ancora possibile per lunghissimo tempo, se mai lo sarebbe stata. Egli non pensava che il Vaticano avesse la minima intenzione di sollevare il problema”.
Peraltro Perowne era a conoscenza che Mons. Montini, sostituto della segreteria di Stato, il futuro Paolo VI, aveva espresso l’opinione che il rango del rappresentante britannico in Vaticano, ministro plenipotenziario, non potesse essere inferiore a quello dei rappresentanti dell’Ecuador e della Bolivia, entrambi ambasciatori. Sempre Perowne riteneva che, pur senza accettare un Nunzio, si poneva comunque il problema dello status del rappresentante del Papa in Inghilterra. Mons. Godfrey viaggiava col passaporto vaticano e, a titolo di cortesia, godeva di alcuni privilegi, ma non di tutte le immunità dello status diplomatico. In linea di principio, non vi erano obiezioni a concederle ad un Delegato Apostolico, ma non si poteva accordarle ad un suddito britannico come Mons. Godfrey.
Poiché per gli interessi di Londra era vantaggioso che il Delegato fosse britannico, non si poteva dunque alterare lo status quo. Il Foreign Office, anche sulla base dell’opinione di Sir Ivone Kirkpatrick, assistente sottosegretario permanente del Foreign Office, ritenne assai improbabile che il Vaticano ponesse il problema della nomina di un Nunzio, che “al momento avrebbe sollevato nel paese scalpore da parte dei protestanti”. Nel marzo 1948 Perowne scrisse al ministro degli esteri Bevin , osservando che, dei paesi che avevano relazioni diplomatiche con la Santa Sede, solo Argentina, Costarica, Finlandia, Olanda, Panama, Regno Unito, Stati Uniti, Venezuela e quelli oltre la cortina di ferro non avevano inviato messaggi di congratulazioni al Sommo Pontefice Pio XII nel nono anniversario della sua incoronazione.
Suggeriva quindi l’opportunità di rimediare a tale omissione in occasione del futuro decimo anniversario. La lettera fu attentamente esaminata a Londra. Rispondendo il 28 aprile, Crosthwaite si dichiarò “riluttante a raccomandare che Sua Maestà inviasse annualmente un messaggio per l’anniversario dell’avvento del Papa, non essendo prassi del Re inviare messaggi annuali di congratulazioni ai capi di Stato, ad eccezione del Capodanno e, in rarissimi casi speciali, dei loro compleanni”. Peraltro Crosthwaite era altrettanto “riluttante” a raccomandare di includere il Papa nella lista dei destinatari di tali messaggi, che si voleva mantenere il più possibile ristretta. “Inoltre, - egli continuava - nel caso di Sua Santità, vi è la difficoltà aggiuntiva che nasce dall’esistenza in questo paese di una minoranza ultra protestante estremamente chiassosa” che avrebbe sollevato forti proteste.
“Tuttavia un messaggio di congratulazioni in un’occasione speciale, di significato eccezionale”, come il decimo anniversario, “paragonato, ad esempio, ad un giubileo d’argento” , “non avrebbe dato luogo alla stessa difficoltà”. Bevin confermò la “riluttanza” a raccomandare al Re Giorgio VI l’invio di regolari messaggi per il Capodanno o l’anniversario dell’ascesa al soglio pontificio. Perowne consultò i suoi colleghi che rappresentavano paesi protestanti o a maggioranza protestante e scrisse nuovamente a Bevin il 15 ed il 24 novembre , sottolineando il grandissimo interesse di Pio XII per le Loro Maestà, e per la Famiglia Reale, alle quali, tramite lui, aveva più volte aveva inviato privatamente i suoi saluti. Nella prima lettera egli informava di aver saputo da Mons. Montini che Pio XII aveva dato precise direttive di non celebrare il decimo anniversario, se con preghiere, e raccomandava comunque di essere autorizzato a trasmettere privatamente le congratulazioni del Re. In conclusione, Perowne chiedeva anche quali prove vi fossero che un tale gesto avrebbe provocato forti proteste.
Nella seconda lettera, Perowne comunicava di aver accertato che nel 1949 sarebbero caduti due anniversari significativi per Pio XII, il decennale dell’incoronazione (12 marzo), e non dell’ascesa al trono, ed il giubileo sacerdotale (2 aprile), chiarendo che il primo anniversario era celebrato ogni anno e che sarebbe stato celebrato anche nel 1949, ma senza particolare enfasi, perché ciò non rientrava nella prassi della Santa Sede, e che le direttive riferite nella precedente lettera si riferivano al giubileo sacerdotale. Perciò Perowne ritirava il suo suggerimento precedente di congratularsi per il decennale e raccomandava invece un messaggio per il giubileo sacerdotale, pur rendendosi conto che “si poteva, naturalmente, argomentare che il Re è interessato al Papa come Sovrano e non come prete” [maiuscole].
Un’affermazione interessante, alla luce della battaglia condotta dall’Inghilterra nel secolo precedente contro la sovranità temporale del Papa e, che, peraltro, non teneva conto della missione che nel 1902 Edoardo VII aveva inviato a Leone XIII per felicitarsi del 60° anniversario di consacrazione episcopale. Le due lettere furono oggetto di ampi commenti, secondo la già ricordata prassi del Foreign Office. Il 2 dicembre Pemberton Pigott propose di sondare la disponibilità del Re ad inviare un messaggio al Papa per il giubileo sacerdotale, dicendosi convinto che, per una volta “si potevano sfidare” le obiezioni degli estremisti protestanti”. Il giorno seguente Brown esaminò le tre possibilità. Inviare regolarmente un messaggio a Capodanno o per il compleanno del Papa. Ma lo escludeva poiché ormai lo stesso ministro presso la Santa Sede si era convinto che non era necessario. Un messaggio per il decennale dell’incoronazione; ma ora Perowne lo sconsigliava, preferendo le congratulazioni per il giubileo sacerdotale.
Ma appunto l’osservazione del ministro sulla distinzione tra Sovrano e Papa faceva sì che un messaggio, anche orale, in quest’ultima occasione sarebbe stato male interpretato, per cui si arrivava “con riluttanza alla conclusione di non raccomandare alcun messaggio”. Crosthwaite condivise tali conclusioni, pur dichiarando di non avere ferme opinioni sulla terza possibilità, che, comunque avrebbe stabilito un precedente destinato a ripetersi raramente. Dopo una consultazione con il ministero dell’interno, che confermò la forza e l’estremismo del “<> movement”, il 9 dicembre, fu concluso che non era opportuno che il nome del Re fosse coinvolto nei libelli degli estremisti protestanti e che il Foreign Office preferiva evitare di dover fronteggiare le loro proteste.
Dall’anti-Cattolicesimo alla secolarizzazione
Nella ricostruzione di queste vicende, sono talvolta emersi riferimenti al momento storico dell’immediato dopoguerra ed in particolare alla situazione di scontro che si profilava con il comunismo internazionale. Della battaglia anticomunista la Chiesa cattolica era una protagonista di prima linea e Londra, che, soprattutto dalla fine del 1947, avrebbe giocato un ruolo determinante nella costruzione di un’alleanza antisovietica, non poteva ignorarlo.
Infatti, accanto all’azione per consolidare il blocco occidentale dal punto di vista militare e diplomatico, il ministro degli esteri Bevin, pur agnostico, sottolineò nel 1948 l’importanza di coinvolgere le confessioni cristiane nella lotta contro Mosca ed i suoi alleati. A questo proposito va ricordato che il rapporto annuale per il 1946 , l’ultimo di questo tipo inviato da Osborne, era stato oggetto di un commento significativo di un funzionario del Foreign Office: “Vorrei che il Papa reagisse in maniera un po’ più forte a questa propaganda comunista. Le sue azioni non sempre sono all’altezza di quanto promettono i suoi discorsi. Mi chiedo se le cose non sarebbero differenti con la nomina del Cardinale Spellman [Arcivescovo di New York] a segretario di Stato”.
In un lungo rapporto “ideologico” inviato alla vigilia della sua partenza da Roma , Osborne concludeva poi: “La Chiesa cattolica è consapevole di essere impegnata in una lotta mortale per la sua sopravvivenza, così come le altre chiese del mondo, sebbene queste non se ne rendano conto...di fatto, le confessioni protestanti negli Stati Uniti attaccando il comunismo stanno facendo il gioco di Mosca. La Chiesa cattolica si considera come il baluardo non solo della sua missione temporale nei confronti dell’umanità, ma anche della civiltà cristiana e dei diritti inalienabili dell’individuo, contro la loro estinzione nella schiavitù senz’anima dello Stato meccanicista, materialista, totalitario. Essa può usare solo le armi spirituali, ma sono le armi con le quali in passato ha vinto tutte le sue battaglie...il Vaticano è proclamato dalla macchina propagandistica di Mosca il Nemico Pubblico n° 2 (ovviamente il numero 1° è il “capitalismo imperialista” anglosassone). Ma il Vaticano non ha dubbi sull’esito finale del conflitto, anche se la vittoria può non essere ancora in vista”.
I protestanti britannici più intransigenti vedevano nella sconfitta dell’Italia ad opera, anche, dell’Inghilterra, una seconda occasione storica, dopo quella del Risorgimento, per infrangere il monopolio religioso della Chiesa cattolica nella penisola e favorire la diffusione delle confessioni riformate.
Trovarono però nel governo e nella diplomazia un appoggio molto più tiepido di quello goduto negli anni cruciali dell’unificazione italiana. L’anti-Cattolicesimo, pur presente, non era però più fondamentale nell’ispirare l’azione di Londra. Non conveniva, di fronte alla minaccia sovietica, indebolire la Chiesa cattolica, la più salda delle istituzioni anti-comuniste.
La posizione di privilegio goduta dalla Chiesa in Italia non era poi diversa da quella goduta dalla Church of England, per di più in un paese assai meno religiosamente compatto dell’Italia. L’animus anti-cattolico dell’establishment britannico era destinato comunque a protrarsi ancora per lungo tempo. Al culmine della crisi per Trieste, nel novembre 1953, scoppiarono nel capoluogo giuliano violenti incidenti tra i dimostranti italiani e la polizia comandata dagli inglesi, che aprì il fuoco uccidendo sei triestini e ferendone quasi un centinaio. Uno degli episodi che avevano destato a Trieste maggiore indignazione era stata l'irruzione della polizia e lo spargimento di sangue all'interno della chiesa di S. Antonio, che dovette quindi essere riconsacrata.
Il ministro britannico presso la Santa Sede chiese al Foreign Office di poter esprimere privatamente il "rammarico" del suo governo per la necessità dell'irruzione nella chiesa. La risposta del ministro degli esteri Eden fu drastica; ad un grande e sottolineato "No" aggiunse: "Questa ambasciata mi è sempre sembrata uno spreco di denaro. Né gli americani né i canadesi ce l'hanno" .
Nel 1956 il gabinetto britannico esaminò la possibilità di accogliere un Nunzio Apostolico, ponendo così i rapporti diplomatici tra Londra e il Vaticano su un piano di piena e normale reciprocità. Ma, in vista delle prevedibili proteste degli ambienti protestanti più estremisti ed anche del fatto che nessuna richiesta era pervenuta dalla Chiesa cattolica, fu deciso di soprassedere. Solo nel 1982 il Delegato Apostolico, all'epoca Mons. Bruno Bernardo Heim, massimo esperto di araldica ecclesiastica, fu elevato al rango di Pro-nunzio e presentò le relative credenziali alla Regina Elisabetta II.
Sarebbe stato assurdo, da parte inglese, continuare ad opporsi alla nomina di un Nunzio quando Papa Giovanni Paolo II, nello stesso anno, compiva una storica visita in Inghilterra, durante la quale incontrò la Regina Elisabetta II e, nella cattedrale di Canterbury, il Primate anglicano Robert Runcie. Le vecchie contrapposizioni avevano perso vigore. Da un lato la Chiesa cattolica, dopo il Concilio Vaticano II, si è impegnata in un ardito cammino ecumenico; dall'altro la società britannica ed i suoi circoli dirigenti si caratterizzano ormai non più tanto per il loro protestantesimo quanto per un’accentuata secolarizzazione.
Prima del Concilio il ritmo delle conversioni al Cattolicesimo faceva prevedere che entro il 2000 la maggioranza dei britannici sarebbe stata cattolica. Dopo il Concilio le conversioni sono drasticamente diminuite. Per restare comunque sul terreno diplomatico, da uno sguardo d’insieme sulle relazioni tra la Gran Bretagna e la Santa Sede emerge chiaramente che fu soprattutto la prima a lasciarsi pesantemente condizionare da pregiudizi e stereotipi religiosi. Al contrario la diplomazia pontificia dimostrò flessibilità e apertura nel trattare con una potenza protestante e, di fronte ad esigenze come il conseguimento della pace e la costruzione di un nuovo ordine internazionale, non esitò a cercare di operare insieme ad Inghilterra e Stati Uniti. (per gentile concesisone di Massimo De Leonardis, Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche, professore di Storia delle Relazioni e delle Istituzioni internazionali, Università Cattolica del Sacro Cuore)