La storia, ci hanno detto e ridetto, è maestra di vita, insegna a non rifare gli errori del passato, ci fa capire tante cose… Quante volte abbiamo sentito frasi come queste, senza che la storia, quella studiata, contro voglia, a scuola, sembrasse insegnarci veramente qualcosa, sembrasse corrispondere alle nostre domande, alle nostre necessità. Perché la storia, allora, è importante?
Il latino Terenzio scriveva: Homo sum, nihil umani mihi alienum puto. Tutto ciò che è umano mi interessa, mi parla, entra in relazione con la mia volontà di comprendere e di conoscere. Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza (Dante): la storia è il cammino dell’uomo verso o contro la verità, la conoscenza, verso o contro la virtù, la tensione del cuore. Per questo la storia può insegnarci, affascinarci, saper di umano, di universale, e quindi di particolare, di personale; può corrispondere alla nostra sete di sapere cosa è l’uomo, e come l’uomo ha concepito, nel tempo, il suo essere ed il suo fine.
Può corrispondere alla nostra sete di saper cosa è la civiltà in cui viviamo, il passato in cui affondiamo le radici, perché il passato è sempre il fondamento del presente. “La nostra personalità -scriveva una mia alunna- è in gran parte condizionata dalla sua stessa storia; tutte le esperienze di cui siamo stati protagonisti o semplici attori hanno lasciato dei segni, che incisi nel comportamento, hanno dato luogo alla individualissima e particolare struttura della personalità. Noi siamo il nostro vissuto: nulla ci è tanto presente, come una presenza dinamica e fluente, quanto il passato. Esso interviene con “voce possente” quando si tratta di elaborare una scelta di vita… nessuno può esimersi dal fare i conti col corposo materiale che si trova in sé, accumulatosi nel corso degli anni (il passato o il vissuto). Ciascuno è libero di fare il proprio gioco, purchè lo faccia con le carte che ha in mano; ciascuno è figlio delle proprie scelte, ma le scelte di ciascuno sono anche figlie delle sue esperienze passate”: così è anche per una civiltà.
La storia, allora, è importante per l’uomo proprio per il suo essere costituito, anche, dalla dimensione del ricordo, che lo differenzia dall’animale, che vive solo la dimensione del presente, l’attimo, l’istante, senza collegarlo al prima e al poi. L’uomo senza storia, senza memoria, tende all’animale: tutto, in lui, è frutto di decisioni immediate, senza riflessione, individualistiche e perciò momentanee, reversibili e quindi instabili ed insoddisfacenti. Anche nel campo degli affetti, ad esempio, una storia d’amore è fatta anche di memoria, di passato, e non esisterebbe, o non reggerebbe, se non fosse così (per questo è una “storia”). La storia allora è importante, ma se non è studiata come la studiamo oggi.
La storiografia marxista, ma anche quella liberale, infatti ha ridotto l’uomo ad homo oeconomicus: ciò che conta sono solo le motivazioni economiche, materiali. Così noi studiamo solo avvenimenti, fatti, date, guerre: ma gli ideali, i sentimenti, la religiosità dell’uomo rimangono estranei, banditi dai testi scolastici, come se non appartenessero al suo orizzonte, come se non interessassero l’uomo, come se non fossero la sua storia. E’ un pregiudizio che tarda a morire: lasciare fuori dalla porta della storia l’angoscia, la ricerca, il senso del mistero, il senso del soprannaturale, come se non fosse marxianamente “scientifico”, come se ciò che è reale non fosse già di per sé degno di essere affrontato; lasciare fuori dalla storia le più alte espressioni umane, la religione, l’arte, la filosofia...
Così, a scuola, studiamo la storia del Medioevo senza saper nulla del monachesimo, che ha fondato l’Europa moderna; studiamo le cattedrali romaniche e gotiche dal punto di vista architettonico, statico, tecnico, ma non conosciamo i significati simbolici, lo spirito con cui vennero costruite, il cuore di ciò che sono. Studiamo il Medioevo senza sapere assolutamente cosa fosse l’ideale universalistico, senza conoscere la cultura dell’epoca, ma solo i nomi delle tasse e le definizioni gerarchiche: vassalli, valvassini, valvassori…Studiamo Dante facendo la parafrasi, senza gustarne lo spirito.
Studiamo il Novecento senza affrontare il problema di Dio, quel “problema maledetto” con cui, tanto per dirla brevemente, tutti e tre i dittatori del secolo regolarono i loro conti. Studiamo la storia, nell’Occidente cristiano, senza quasi accennare a Cristo, da cui la nostra storia prende il via, persino nella datazione di ogni giorno. Ci sono tutta una serie, infinita, di cose da porre tra parentesi, al punto che ciò che studiamo sembra un cadavere, analizzato al microscopio, di cui conosciamo le ossa, le costole, il cranio, ma non conosciamo la vita vera, pulsante, palpitante. L’insegnamento della storia deve quindi allargarsi, acquistare un nuovo respiro: la storia concerne l’uomo, tutto l’uomo, non solo la sua materialità.
La storia, come materia scolastica, deve anche emanciparsi dalle strumentalizzazioni: monopolizzare la memoria, “sistemare la storia”, è una tentazione di sempre, specie una tentazione dei totalitarismi novecenteschi; una tentazione, sia detto tra parentesi, che va di pari passo con quanto ancora oggi rimane di totalitario nella nostra società, e cioè la volontà di permettere, praticamente, solo una scuola di Stato, restringendo il più possibile gli spazi di libertà. Monopolizzare la memoria significa, anche, non dare il giusto peso alle epoche ed alle culture: nella scuola odierna, per fare un esempio, si affrontano malamente e superficialmente la filosofia cristiana, l’arte medievale, la storia medievale, mentre la nostra civiltà è ancor oggi figlia di queste esperienze, ben più che di tante esperienze, artistiche ed umane, spesso elitarie, del Novecento.
Monopolizzare la storia significa studiare su testi scolastici completamente estranei alle nuove acquisizioni, a quello che viene definito da molti “revisionismo storico ” e che invece altro non è che il necessario ritornare, rivedere, scoprire cose nuove, “che non esclude la possibilità della conferma dei dati già acquisiti” : non è più concepibile, a centoquaranta’anni dall’Unità d’Italia, per fare solo un esempio, continuare la retorica risorgimentale che i governi post-unitari proposero per giustificare se stessi, senza minimamente accennare a quanto la storiografia più recente ha messo in luce, sulle miserie, le violenze, le iniquità del nostro cosiddetto Risorgimento. Non è possibile, perché altrimenti non si capisce la questione meridionale, l’industrializzazione del settentrione, l’inizio dell’emigrazione meridionale, il brigantaggio…; perché altrimenti non si capisce quanto hanno scritto i massimi autori della letteratura italiana, da Verga a Pirandello a Tomasi di Lampedusa, sulla delusione post-risorgimentale delle plebi meridionali.
Ancora, non è più possibile dopo il 1989, dopo la caduta dei ‘muri’, dopo l’apertura di archivi finora sconosciuti, per fare un altro esempio, dedicare mesi e mesi di studio al nazismo, liquidando il comunismo, la rivoluzione bolscevica, la rivoluzione cinese, cambogiana, vietnamita ecc. in poche pagine e in poche ore, come avviene pressochè in tutte le scuole ed in tutti i manuali di storia delle scuole italiane… Infine bisogna liberarsi dalla concezione della materia-storia come apologia del tempo presente: “a noi tutti viene impartita una visione in cui tutto torna e i ruoli sono già assegnati…Lo scopo è quello di far credere che il corso della storia tenda fatalmente verso l’epoca attuale che rappresenterebbe il vertice del progresso e della civiltà, dopo eroiche lotte per liberare l’umanità dalle tenebre dell’errore e dell’oscurantismo”.
Questo è ciò che tutte le dittature hanno cercato di fare: dai giacobini francesi, che cancellarono le ricorrenze e le feste del calendario cristiano, per far dimenticare la storia a cui esse si riferivano, alla storia di regime, figlia della scuola di regime, dei regimi totalitari novecenteschi, all’ansia devastatrice della rivoluzione culturale cinese, alla volontà dei Khmer rossi cambogiani di eliminare i libri del passato e persino tutti coloro che, portando gli occhiali, potevano essere pericolosi lettori, e magari difensori, di una cultura e di una storia passata…Infatti, come scrive Giacomo Samek Lodovici: “cancellando il passato rendo il presente definitivo; lo rendo come ciò che non si può fare a meno di accettare e rendo inconfutabili ed inevitabili le forze che attualmente lo dominano…”; riappropriarsi del passato, e di un giudizio critico non prestampato, è dunque una affermazione di libertà.