Cristiani per fede, cristiani per cultura.
Di Lorenzo Bertocchi (del 10/05/2009 @ 19:39:55, in Religione, linkato 1071 volte)

Questa distinzione tra cristiani per fede e cristiani per cultura l’ho raccolta partecipando alla presentazione bolognese del libro “Perché dobbiamo dirci cristiani” scritto dal Sen. Marcello Pera, all’incontro erano presenti il Prof. Panebianco e il Card. Caffarra. Senza entrare nel merito dell’analisi svolta dall’autore (tra l’altro condivisa in buona parte anche da Panebianco) credo siano molto interessanti alcune considerazioni conclusive presentate dal Cardinale, considerazioni che appunto si rifanno alla distinzione di cui sopra. A pag. 54 del libro vi è un paragrafo intitolato “Come se Dio esistesse” dove l’autore dà la sua definizione di cristiani per fede e cristiani per cultura, il Card. Caffarra le riprende e ne sottolinea alcuni aspetti.

Il cristiano per fede è colui che vive una esperienza, ha un rapporto con una Persona, con Gesù Risorto. Tale rapporto non è soltanto un fatto intellettuale o sentimentale, è ben di più, infatti, da esso il “cristiano per fede” arriva “a riconoscere la vera identità di Gesù”, quella di Figlio di Dio. Da questa scoperta, risolutiva rispetto alle domande esistenziali, non si può non far discendere “un modo proprio di stare al mondo”. Chi riconoscendo l’Origine e il Fine di tutto potrebbe fare altrimenti? Quindi “la Fede non può che generare una cultura”.

Questa cultura può essere riconosciuta nella sua rilevanza anche da chi non ha fede, il non-credente può perfino ritrovarsi nella stessa “in quanto corrisponde alle esigenze della ragione”, ma solo però se vi si avvicina non censurando le domande sul senso dell’esistenza, questo è il “cristiano per cultura”. Il Cardinale fa giustamente notare che “la presenza di Cristo dentro ad una cultura, l’esistenza solida di una cultura cristiana, è esclusivamente assicurata dalla Fede dei suoi discepoli, la quale non è destinata a rimanere confinata nell’intimo, né a comunità separate dal mondo, molti vorrebbero che la Chiesa tornasse nella catacombe, ma lì c’è andata non per sua volontà!”.

 In altre parole “la possibilità dell’esistenza di cristiani per cultura è assicurata esclusivamente dall’esistenza di cristiani per Fede, ma a questo punto una domanda si impone: il distacco dell’edificio culturale dallo stile cristiano è dovuto anche (o soprattutto?) dal declino della Fede, dall’indebolirsi della confessione della Fede nella Chiesa in Europa?” Questo è vero - risponde il Sen. Pera – ma per recuperare questa forza della Fede non sarà necessario che i cattolici per Fede recuperino anche la loro cultura? Difficile rispondere a quesiti complessi e importanti, soprattutto perché il significato profondo di Fede Cattolica e relativa cultura sono a volte un po’ annebbiati nella mentalità comune, io mi limito a riportare una mia riflessione.

La Fede, proprio perché nasce da un incontro personale, mette in gioco tutto di sé (intelletto e volontà) e si alimenta della “vita dello spirito” (preghiera soprattutto) sostenuta dalla Grazia. La cultura che ne discende, se così si può dire, non è frutto di una interpretazione personale, ma - nella gioia dell’appartenenza alla Chiesa - “proviene dall’unità che lo Spirito ha posto tra Sacra Tradizione, Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in maniera indipendente” (Giovanni Paolo II – Fides et Ratio n°55). La tentazione di prendere solo quello che ci piace è sempre dietro l’angolo… “cattolici da buffet?” Qualcuno si vergogna del Vangelo, molti della Sacra Tradizione, tanti del Magistero, perché? Non sarà che molti “cristiani per Fede”, oltre alla loro cultura, devono ritrovare la Fede stessa, confusa a tal punto da essere completamente smarrita? E non sarà che la perdita della Fede nasce e si espande proprio a partire dai molti cattolici che trovano gusto intellettuale a porsi in “dialettico disaccordo” con il Magistero e la Tradizione?

Chi si vergogna del Catechismo della Chiesa Cattolica (e sono molti anche fra i teologi cattolici) potrebbe guardare a Francesco d’Assisi, il cui “stile” non è buono solo per giudicare gli eventuali eccessi della Curia romana, ma la povertà e l’umiltà in lui generano obbedienza sincera, quella di chi sa riconoscere la Casa del suo Re, anzi sa di esserne parte viva proprio perché non è fatta di mattoni. L’obbedienza alla Chiesa del poverello di Assisi, come quella riscontrabile nelle biografie di tutti i Santi, non è accecamento della ragione, ma è l’intelligenza dell’Amore o Sapienza del Cuore, quella cioè che ammette un deposito della verità senza il quale non c’è più Fede, né cultura, ma solo opinioni.